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7. Beni fondiari di altre famiglie dell’aristocrazia laica in Tuscia: una panoramica (X inizio XII secolo)

7.2 Gli Obertengh

Si devono a Mario Nobili gli studi nei quali è stato raccolto ed analizzato puntualmente il materiale documentario riguardante la famiglia degli Obertenghi. Benché si tratti di lavori il cui orizzonte è costituito più dalla storia famigliare e politica che non da quella economica, il professore pisano non tralascia di mettere in rilievo quanto è possibile ricavare dalle fonti sulle modalità di gestione del patrimonio obertengo125.

Nel suo saggio dedicato all‟estensione, alla distribuzione territoriale e al significato dei beni fondiari appartenenti agli Obertenghi tra metà X e inizio XII secolo (saggio pubblicato nel 1988 e poi ristampato nel 2006)126, Nobili si sofferma in modo particolare su due documenti: l‟atto di fondazione del monastero di Castione dei Marchesi del 1033127 e il diploma concesso da Enrico IV a Ugo e Folco, figli del capostipite del ramo estense della famiglia, Adalberto Atto II, nel 1077128.

L‟insieme di terre, curtes e castra che vengono elencate nei due atti supera di gran lunga i confini geografici del presente lavoro: nella cartula del 1033 si nominano, infatti, beni siti in venti contee del Regnum che spaziano da Pavia fino ad Arezzo e Castro; analogamente, il diploma del 1077 consiste nella concessione e nella conferma di patrimoni e diritti in un ambito sovraregionale, dal Veneto (Gavello, Padova) fino alla Tuscia (Lucca, Pisa, Arezzo). Tuttavia, non è sbagliato utilizzarli per ottenere una prima veduta d‟insieme dei beni obertenghi e del loro assetto.

Il primo dei due documenti mostra (in modo simile a quanto si avrà modo di rilevare più tardi per i conti Alberti) la già avvenuta costruzione di castra quali nuclei fortificati dei centri aziendali: nel caso di Castione dei Marchesi (a nord di Fidenza), poi, grazie alla descrizione del complesso curtense e alla menzione delle misure delle singole unità che lo compongono riusciamo a farci un‟idea (cosa rara, almeno per gli studiosi delle fonti scritte) del modo in cui la rocca e le pertinenza prediali si rapportassero tra loro. L‟area della corte, «per mensura iusta de area castri» era la più piccola (misurava solo tre iugeri); all‟interno del castello si collocava poi il monastero

124 Cit. ivi, p. 174.

125 A Mario Nobili si deve anche l‟introduzione al libro che, a mia conoscenza, costituisce la più recente ripresa di alcuni tra i temi a lui maggiormente cari: mi riferisco a ZOPPI 2013.

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NOBILI 1988 (ora in ID. 2006). Da qui in avanti farò riferimento ai saggi di Nobili indicando la data della prima edizione, ma riportando le pagine del volume collettaneo edito nel 2006.

127 M

URATORI, Delle Antichità, I, pp. 98-100 e ed. parziale in FERRETTO, n. 11. 128 MGH, DD.HIV, II, n. 289, pp. 377-379.

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(«in quo129 ipsum monasterium constructum esse videtur»130); trenta iugeri erano invece destinati a sedimi e vigneti, cento a selve e terreni incolti, mentre a prevalere nettamente erano terre arabili e prati (unitamente ai beni pertinenti alla locale cappella di San Dalmazzo). Sembra dunque che il centro incastellato fungesse da punto di riferimento, e con ogni verosimiglianza da luogo di ricezione dei censi, per un insieme fondiario circostante dove nessun indizio lascia intuire sopravvivenze curtensi nell‟accezione “classica” dell‟aggettivo, mentre esistono, invece, spie dell‟esistenza di circoscrizioni signorili per la «curtem et castrum» a «Marchareia» [attuale

Marcaria in provincia di Mantova]131: fermo restando che non ci troviamo di fronte ad un documento gestionale e che quindi molte informazioni potrebbero essere (o forse sono sicuramente) celate, il testo autorizza a credere che curtis si possa qui tradurre con un generico «azienda agraria». Naturalmente questo esempio emiliano non può essere indebitamente esteso alla Toscana, ma sembra fornisca comunque un buon modello di raffronto per quanto riguarda compresenza ed interazione di azienda e sito fortificato. Infine, nell‟atto in questione viene assegnata al cenobio una «terra piscaria» presso il fiume «Comesatio [a Cremona] prope Castro ipsius loci» e poi la decima parte di «casis et castris», con relative pertinenze, nella lunga serie di località accennate in sede introduttiva e sulle quali non è necessario dilungarsi oltre.

Meno utile per la descrizione del paesaggio rurale è il diploma enriciano del 1077132: vi sono confermate «omnes res» site in una serie di comitati e località individuate senza specificazioni oltre al nome, eccezion fatta per «Surisini» (Soresina), associata al termine «villa»133, e per il «castro Banciole» nel comitato di Piacenza; in riferimento ai comitati di Gavello e di Padova si aggiunge che sono riconosciuti anche uomini e servizi armati qualificati con il termine «arimannie» («comitatum et arimanniam et quicquid pertinet ad ipsum comitatum» per Gavello; «omnes arimannias que ad istas curtes pertinent» per Padova). In questi casi non si può ricavare molto dal lessico: se «villa» sembra rimandare alla dimensione più propriamente insediativa («villaggio» o anche «città»), l‟attinenza alle curtes patavine di gruppi atti a prendere le armi richiama più il significato di circoscrizione giurisdizionale e, nello specifico, militare che non quello di azienda agraria: d‟altronde, spie di terminologia curtense, o comunque afferente alla descrizione fondiaria, possono dirsi in definitiva assenti.

Dopo questo sguardo generale, passiamo ai beni obertenghi siti in Tuscia e, in particolare, nelle contee di Pisa, Lucca e Volterra, per poi spostare brevemente l‟attenzione alla terra

129 co in Muratori (cfr. nota 127). 130 Ibid.

131

Negli elenchi di pertinenza prediali e prerogative giurisdizionali «toloneis et districtis» (ivi, p. 99) 132 Per il documento e le citazione seguenti vd. nota 125.

133 Nell‟edizione degli MGH si edita anche un «villa Prenomia», ma credo si possa seguire la lettura proposta da Andrea Castagnetti «Villa, Prenomia», ovvero Villa (Estense) e Pernumia; vd. CASTAGNETTI 2003, p. 26, nota 273.

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«Ubertenga» nei pressi di Arezzo; ciò ci costringerà a un salto indietro nel tempo e, contemporaneamente, a un significativo restringimento della visuale all‟area interessata dal presente lavoro, alla sola Toscana.

Nobili consacra alla prima delle due questioni un saggio134 nel quale muove dal livello datato al 975 con cui Alberico, vescovo di Pisa, dà in affitto ai fratelli Adalberto e Oberto un ingente insieme di beni e redditi135. Il documento è di un certo interesse per il nostro tema: sono infatti ceduti complessi patrimoniali siti nel Pisano (edifici e pertinenze della pieve di San Giovanni Battista e San Pietro di Calcinaia, affitti e prestazioni da una serie di «villae» di cui sono ancora riconoscibili Bientina, Montecchio, Uliveto e Cesano, poi case, casalini e beni massarici presso l‟attuale San Giovanni alla Vena), ma solo per le chiese di San Quirico e di Santa Giulietta «in loco Cornathano [Cornazzano, nel comune di San Giuliano Terme]» si specifica che sono allivellati «fundamento et edificio […] et […] casalino […] cum omnibus rebus donicatis et rebus massariciis ad eas pertinentibus»136. L‟espressione non è priva di significato: la sua formularità è solo apparente, dal momento che riferimenti alla bipartizione curtense sono assenti per le altre località elencate e sembra, dunque, di essere di fronte a un utilizzo coscienzioso delle locuzioni res

domnicatae e res massariciae. Non bisogna poi dimenticare che nel livello sono ceduti solo beni

determinati: patrimoni dominici potevano trovarsi anche in altri luoghi oltre che presso le due chiese, senza tuttavia essere transatti all‟interno dell‟atto in questione e senza emergere, dunque, nel testo del documento.

Tale ipotesi trova una conferma nel caso di Cesano137, presso Vicopisano: benché il toponimo non sia associato al lessico curtense nel livello del 975 (nel quale era data in affitto la sola chiesa di San Giorgio lì sita), veniamo a sapere da una vendita effettuata nel 1002 dal marchese Adalberto a favore di Leone giudice138 che proprio in Cesano gli Obertenghi possedevano una «curtem […] donicatam»139, la quale (questa l‟interpretazione che sembra di poter ricavare dal saggio di Nobili) fungeva sia da centro amministrativo dei beni in tutta l‟area limitrofa, sia da azienda a sé stante al cui interno era compresa (o almeno lo era stata in un qualche momento) una

pars dominica140. Pare lo si possa evincere da un documento della metà del secolo XI, un inventario

dove si registra la «terra que dicitur Ubertinga et est posita in Cisano ubi dicitur Cafaio Donico»141: se già l‟etimologia di Cafagio, come nota finemente Nobili, include il significato di «terra

134 N

OBILI 1985 (ora in ID. 2006). 135

GHIGNOLI, n. 60: il documento rientra nel “genere” dei Großenlibellen, secondo la definizione in ENDRES 1918, p. 241. 136 G HIGNOLI, n. 60. 137 R EPETTI, I, p. 515. 138 MURATORI, Antiquitates, I, p. 200.

139 Ibid.: «curtem meam illam donicatam que esse videtur in loco et finibus ubi dicitur Cissano prope fluvio Arno». 140 N

OBILI 1985, p. 220. 141 S

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cintata»142, l‟accostamento con l‟aggettivo «dominico» e la successiva fissazione in toponimo dell‟espressione rimandano all‟esistenza di una riserva curtense della quale l‟inventario, aggiunge Nobili, «attesta l‟avvenuta quotizzazione»143.

Su questo sarei più cauto: se è vero che vi sono menzionate persone detentrici di alcune staia e petiae di terra (e in un caso di una lentia) nelle quali si potrebbe ravvisare la parcellizzazione di originarie terre dominicali, è altrettanto vero che il discorso non può essere esteso con sicurezza ai mansi e alle mascie elencati (diciannove in tutto). Nobili nota giustamente come a ogni manso sia associata una sola persona, che però potrebbe non essere il «tenutario» (parola usata dallo studioso con la quale, mi sembra, si voglia designare un massaro o un livellario)144, ma il reggitore o gastaldo di un‟unità di conduzione della riserva, forse gestita ancora in economia diretta all‟epoca di redazione del documento. Avanzerei cioè l‟ipotesi che possiamo trovarci di fronte a mansi

indomnicati: non è possibile provarlo, ma un piccolo indizio viene dall‟insistito richiamo al

dominio eminente per indicare i proprietari dei mansi (gli Obertenghi stessi: «Mansium Damiani est Obertinga. Mansium Ansoaldi est Obertinga ecc.»145) assente, invece, in riferimento a staiate di terreno di ridotte dimensioni coltivate in gestione indiretta. Potrebbe però anche trattarsi, più semplicemente, di una differenza di formulario la cui ragion d‟essere risiede nella diversa estensione dei beni (intere unità di coltivazione di cui si intende rimarcare l‟appartenenza agli Obertenghi da un lato, appezzamenti piccoli o relativamente piccoli dall‟altro) ed è quindi opportuno limitarsi ad osservare che quotizzazione e, soprattutto, dismissione della pars dominica non sono effettivamente inferibili dal documento in questione.

Qualche ulteriore indizio riguardo alla presenza di riserve viene da una cartula molto più tarda, un elenco di servi del monastero aretino di Santa Flora di metà XII secolo dove si menziona un Morulus «qui fuit castaldius ubertingus»146: se un gastaldo possa considerarsi un amministratore di beni in economia diretta, come sostiene Nobili147, è in verità incerto. Di sicuro il documento mostra l‟esistenza di uno strato servile che, sebbene in parte adibito a mansioni domestiche148, non sarebbe fuori luogo immaginare impegnato nella coltivazione della riserva: ma, per quanto seducente, questa è destinata a rimanere un‟ipotesi.

142 N OBILI 1985, p. 226, nota 42. 143 Ibid. 144 Ivi, p. 227. 145 Di nuovo S CALFATI, II, n. 162. 146 P ASQUI, I, n. 293. 147

Le pagine finali di NOBILI 1985 e, in generale, NOBILI 1985b.

148 Alcuni servi dovevano cucinare: «Sprincus quidam famulus et coquus […] Dominicus veniens ad Sanctam Floram fecit coquinam per multos annos […] Martinus portulanus qui cum filiis Belli coquinam faciebat» (è il documento citato alla nota 138).

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Sempre seguendo gli scritti di Nobili, l‟ultimo argomento che resta da affrontare riguarda il pieno sviluppo in senso signorile dei possessi obertenghi149; sembra di poter avvertire tale sviluppo solo dalla metà del secolo XII, ma si tratta certo di un riflesso dello stato delle fonti che solo da quel periodo, in particolare per la Lunigiana, si fanno abbondanti. Nobili dedica ampio spazio al diploma concesso da Federico I a Obizzone Malaspina nel 1164150 e a un confronto tra questo atto e il già discusso diploma del 1077: se qui Enrico IV confermava a Ugo e Folco beni che il padre «iure possidet et iure possidere debet» e «iure tenet et iure tenuit», beni, come già detto, per lo più individuati tramite il solo nome della località151, nel 1164 il Barbarossa riconosce «cum omnibus regalibus» luoghi citati soprattutto come castrum, curia o castrum et curia152. Ancora una volta si nota, accanto al progresso del fenomeno castrense, l‟affermazione di diritti signorili legati al territorio o alla fortificazione (quelli che Nobili chiama «obblighi di castellanza»153) che potrebbero essere il risultato, sottolinea lo studioso, di una consapevole territorializzazione della signoria perseguita dagli Obertenghi fin dagli ultimi decenni del secolo XI in risposta alla disgregazione della contea di Luni, soprattutto nel suo centro (Val di Magra, Luni stessa, Sarzana, Carrara), per via dell‟emergere di gruppi signorili in contrasto tra loro154: caratteristica, tra l‟altro, che pare marcare la distanza tra la Lunigiana e la vicina Lucchesia, dove l‟affermazione di signorie territoriali fu invece lenta e stentata155. Comunque, rispetto alle curtes preesistenti, i castra sembrano aver supplito a una mancanza di centralità: è il caso di Massa, incastellata presumibilmente nel corso degli anni ‟80 del secolo XI156

in una zona punteggiata di centri aziendali157 che, poco meno di cento anni dopo, nel 1174158, paiono (almeno in parte) fare riferimento al distretto castellare di Massa stessa. Quale fosse il rapporto tra rocca e aziende agrarie, e il modo in cui queste ultime erano organizzate, è cosa che le fonti non consentono purtroppo di indagare.

149 Seguo qui N

OBILI 1997 (ora in ID. 2006). 150 MGH, DD.FI, II, n. 463, pp. 371-373.

151 Il già ricordato MGH, DD.HIV, II, n. 289, pp. 377-379. 152

È il documento citato alla nota 147. 153 Cit. N

OBILI 1997, p. 297. 154 Ivi, pp. 302-303.

155 Qui Nobili si richiama esplicitamente la tesi in W

ICKHAM 1988, passim. 156

NOBILI 1997, p. 305.

157 Nobili ricorda, oltre a Massa, Serviliano, Lavacchio, Quarantula, la corte dei signori di Bozzano a monte Pepe e la vicina curtis Valcari: ivi, p. 306.

158 Cfr. ancora, sul giuramento e sulla documentazione relativa, N

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