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cosiddetta “cultura della crisiù” e con l’approfondimento della psicanalisi di Jung e di Freud.

1.1.2 Alfieri e la paura della libertà

Prima di entrare, tuttavia, nell’analisi di Paura della libertà, è necessario insistere su un punto del lascito gobettiano che la critica leviana ha spesso sottovalutato, ma che riveste all’interno delle sue opere una non trascurabile rilevanza. Nell’articolo su Gobetti, pubblicato sui «Quaderni di Giustizia e Libertà» e qui più volte richiamato all’attenzione, Levi menziona alcune riflessioni tratte dalla rilettura che l’amico fa della figura di Vittorio Alfieri, tema della sua tesi di laurea assegnatagli da Gioele Solari e, in seguito, pubblicata con il titolo: La filosofia politica di Vittorio Alfieri. In particolare, Levi richiamando quell’«opus primum» lo definisce «una straordinaria professione di fede» più che un «saggio critico». La sua attenzione è, difatti, rivolta all’insegnamento che Gobetti trae da Alfieri, trasformato in un modello esemplare e nel capostipite della lunga tradizione del liberalismo piemontese. L’originalità dell’Alfieri, secondo Gobetti, si riscontra nella sua radicale opposizione a ogni sistema.

In un secolo nel quale la vitalità dello spirito veniva ridotta a morto schema astratto nell’intellettualismo post-cartesiano e nelle varie costruzioni giusnaturalistiche del dogmatismo wolfiano, in un secolo in cui dicendo sistema si diceva sostanzialmente astrazione e generalizzazione di dati empirici, opporsi al sistema per affermare la pienezza della vita individuale, irriducibile alle vecchie formule, era opera preziosa di rinnovamento speculativo87.

Alfieri è un intimo oppositore di tutto ciò che chiude l’esistenza umana in un sistema predeterminato e rigido. Il suo pensiero, secondo Gobetti, si può comprendere solo «legandolo – come scrive il critico Angelo Fabrizi nella Postfazione al testo – alla linea filosofica (caratterizzata da antidogmatismo e dalla dottrina dell’immanenza e della libertà) rappresentata da Machiavelli, Vico, Gioberti»88. Lontano dal cattolicesimo, per la sua naturale contrarietà ai lacci di

86 Cfr. G. Dotoli, Carlo Levi e la Francia: con le poesie in francese, Fasano, Schena 2010.

87 P. Gobetti, La filosofia politica di Vittorio Alfieri, postfazione di A. Fabrizi, Roma, Edizioni di

Storia e Letteratura, 2012, p. 28. Gobetti si laurea nel 1922 e pubblica, nello stesso anno, la tesi a puntate su «La Rivoluzione Liberale».

un pensiero astratto e alleato delle tirannie, Alfieri è apprezzato da Gobetti per l’unitarietà di azione e pensiero, nel nome di una libertà così centrale, nella sua speculazione filosofica, che potrebbe essere definita anzitempo, secondo la formula che poi apparterrà a Croce, «religione della libertà». «La religione della libertà – commenta Gobetti – esclude interessi e calcoli, esige, come efficacemente scrive l’Alfieri, fanatismo negli iniziatori, e negli iniziati entusiasmo di sincerità, in tutti quell’ardore completo per cui non c’è soluzione di continuità tra pensiero e azione»89. Nell’anti-tirannia di Alfieri, Gobetti e il suo gruppo intravedono un modello da seguire, soprattutto per quanto concerne l’immagine di un intellettuale eroico che, sfidando la sorte, si pone come il centro propulsore di una ricerca libertaria e tirannicida, che discende dall’idea che la libertà, prima di essere una questione sociale, deve essere libertà interiore.

Gobetti – scrive sempre Fabrizi – rileva di Alfieri la componente antitirannica e antiautoritaria («disperata necessità di polemica contro […] le tirannie religiose e politiche») e identifica il vivere libero come il carattere distintivo del vivere stesso («Non si è uomini se non si è liberi»). La libertà non si conquista con le riforme ma «nasce dalla libertà interiore». Questo «il programma politico di Alfieri, annuncio di una rivoluzione che ancora si attende nella storia italiana […] Ma è una posizione senza eredi»90.

L’influsso dell’Alfieri gobettiano rimane il centro vitale della posizione neo- umanistica, presente nelle pagine di Paura della libertà. Del suo eroismo, tutto speso nell’azione di liberazione interiore dagli idoli religiosi, sopravvivono l’ardore e la passione con cui il nuovo uomo leviano dovrà affrontare la crisi della civiltà, alle soglie della seconda guerra mondiale, e sconfiggere, prima di tutto dentro di sé, la paura della libertà; quella paura che è il motore principale per la creazione degli idoli e delle religioni.

C’è chi ritiene, come il critico Stazzone, che il titolo dell’opera forse richiami la «deprecatio metus et vanae spei che attraversa le pagine del Tractatus Theologico-Politicus»91 di Spinoza, che Levi ha modo di leggere durante la reclusione in carcere nel 1935. Chi scrive, invece, è persuaso del fatto che il titolo

89 Ivi, pp. 97-98.

90 Ivi, p. 144. Le citazioni sono tratte dall’importante testo Risorgimento senza eroi, in cui Gobetti

sintetizza le sue posizioni nei confronti dell’Alfieri. Vd. P. Gobetti, Risorgimento senza eroi. Studi

sul pensiero piemontese nel Risorgimento, in Id., Scritti storici, letterari e filosofici, a cura di P.

Spriano, Torino, Einaudi 1969 (Opere complete di Piero Gobetti, II), pp. 73 e 76.

91 D. Stazzone, Il romanzo unitario dell’infinita molteplicità. Carlo Levi e il ritratto, Enna, Papiro

dell’opera sia certissimamente gobettiano. Più che da suggestioni libresche, esso deve la sua forza alla prassi quotidiana e costante negli anni, con cui l’autore ricerca la libertà. L’insegnamento gobettiano, e in modo indiretto quello alfieriano, si fondono così con un clima politico sempre più aspro, che pone al centro della propria necessaria sopravvivenza la paura, la paura di essere liberi. Se la «libertà» del titolo richiama l’instancabile magistero di Gobetti, il riferimento alla «paura» può essere esplicitato da una nuova acquisizione testuale, permessa dalla recente pubblicazione di un testo inedito, datato 1948 ed esplicativamente intitolato La paura è il contrario della libertà92.

Esistono, secondo Levi, diversi modi di avere paura, «infiniti quasi come gli uomini»93, che tuttavia si riducono a due. Il primo consiste nella «paura

individuale, che fa parte del carattere», uno, in sostanza, dei molteplici «modi di essere dell’individuo» cui fa da contraltare il coraggio. La letteratura pullula di questi personaggi che, come «ombre di eroi», hanno il compito di «riportare su un livello di umanità le figure smisurate e eroiche a cui si accompagnano». Sancho Panza, Leporello e Don Abbondio sono gli esempi calzanti di un mondo di anti- eroi in cui si esprime una «paura individuale» che spesso è «una ragionata difesa dell’individuo comune dalle stravaganze della grandezza e dai colpi del destino». Il secondo, invece, assai più problematico del primo, viene interpretato come una «paura collettiva, la paura della massa»94. «Essa – specifica Levi – non nasce dal senso preciso della propria persona e da un desiderio naturale di difesa contro le forze ben determinate con cui essa deve fare i conti, ma nasce proprio dalla mancanza della persona, dal senso della non esistenza della propria individualità e dell’appartenenza a un qualche cosa di vago e di indeterminato: a una massa». L’uomo-massa non riesce a riconoscere i limiti della propria persona, non si accorge della concretezza dei problemi, dato che si nutre «di astrazione e di simboli». La paura collettiva risiede, dunque, nell’uomo che non è ancora maturo, nell’uomo che non si è ancora trasformato in persona e ha riconosciuto «l’unica vera realtà» esistente: la libertà. «Questa fondamentale paura della libertà […] ha

92 Il brano in oggetto, curato da P. Saggese, è pubblicato all’interno della riedizione, dalla tiratura

limitata, di Paura della libertà per conto del Comune di Aliano e della Regione Basilicata, su volere dell’erede di Carlo Levi, Raffaella Acetoso. Vd. C. Levi, La paura è il contrario della

libertà, a cura di P. Saggese, in Id., Paura della libertà, con il contributo della Regione Basilicata

e del Comune di Aliano, pp. 117-124. La pubblicazione, dal momento che è assente la data, si presume sia avvenuta nel marzo del 2014.

93 Ivi, p. 117. 94 Ivi, p. 118.

permesso l’esistenza del fascismo, del nazismo e di tutte le altre più o meno individuate moderne tirannie».

Le impalcature dei totalitarismi sono costruite grazie alla paura collettiva, che si rafforza «coi loro apparati e col peso della propria spietata potenza» e a cui si aggiunge «il terrore più specifico e determinato che nasce dalla persecuzione, dalla polizia, dai campi di concentramento, dalla sadica crudeltà, dalla guerra». Il primo di settembre del 1939, allorquando gli eserciti di Hitler marciano in Polonia, Levi è a Parigi e osserva la città «percorsa da una ondata di spavento […] parzialmente dovuto al timore di armi misteriose […], ma più indistinto, più indeterminato, come un’ombra senza forma»95. L’improvvisa apparizione della

guerra «faceva rinascere sentimenti primitivi e nascosti, come l’orco e il lupo delle fiabe infantili». La paura collettiva ha la capacità di disarmare i difensori della libertà, «risospinge le persone nella massa indifferenziata, sostituisce alle parole e ai pensieri gli slogan, alla passione la propaganda, all’organismo l’organizzazione, agli atti coscienti e volontari le parole d’ordine». La tecnica della paura collettiva è insieme «barbara» e «ultra moderna».

Così è nato e ha vinto il fascismo in Italia nei lontani anni successivi alla prima guerra mondiale, quando le squadre dei banditi fascisti scorrazzavano per le città e le campagne portando le loro bandiere nere, del colore della morte, e le loro insegne fatte di teschi e di scheletri. Non fu tanto la loro azione diretta, le bastonature, gli incendi, le uccisioni a dare loro la vittoria, poiché essi trovarono sempre chi alla violenza resisteva con coraggio: ma fu invece il senso vago della paura diffusa anche presso coloro che non avevano mai avuto diretto contatto con essi o che non li avevano neanche mai visti, quel senso di terrore che impedisce ogni movimento e consegna impotenti e legati in mano al nemico.

La paura è dunque la vera arma segreta del totalitarismo, la quinta colonna che prende le città dal di dentro, in segreto, senza bisogno di sparare un colpo. Questa arma segreta era stata perfezionata all’estremo valendosi sia di una intuizione primitiva, sia dei dati più moderni della scienza psicologica e della psicoanalisi, dai fascisti e più ancora dai tedeschi. Quando Mussolini ripeteva una frase comune a tanti tiranni “non importa che mi amino, basta che mi temano”, diceva, dal suo punto di vista, una profonda verità. Quanto ai tedeschi, essi fondarono sul terrore, come ognuno sa, tutto il loro potere, e poiché essi tendevano a un potere disumano e immenso, a un dominio totale del mondo e degli uomini, essi crearono un terrore altrettanto mostruoso e sconfinato, un raffinatissimo inferno96.

95 Ivi, p. 119. 96 Ivi, p. 121.

Contro questa forma di terrore si staglia alfierianamente l’uomo libero. «Un individuo libero è, di per sé, una difesa contro la paura. Molti individui liberi sono un argine, un esempio, una garanzia. “Finché vi saranno due uomini giusti, Sodoma non sarà distrutta”, dice il racconto biblico». E in ultima sostanza «essere liberi significa non indulgere mai, all’irrazionale collettivo, e alla falsa razionalità dei suoi falsi concetti di razza, di nazione, di classe, e al loro empito sentimentale pieno di sgomenti ancestrali».

1.2 La dialettica dell’avvenimento come principio di individuazione