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È del 1934 un approfondimento di Levi sulla questione del cinematografo in Italia e sulla cultura a esso legata. L’interesse dell’intellettuale si comprende alla

66 C. Levi, Due Mondi, in «Quaderni di Giustizia e Libertà», II serie, n. 10 (1934). Ora in Id.,

Scritti politici, cit., pp. 118-119.

67 C. Levi, Malaparte e Bonaparte, ossia l’Italia letteraria, in «Quaderni di Giustizia e Libertà», I

serie, n. 2 (1932). Ora in: Id., Scritti politici, cit., p. 63.

luce della sua precedente attività nel mondo del cinema, in qualità di scenografo e sceneggiatore69. «Nel ’31 – si legge nella biografia di Levi – ci sono almeno tre film firmati da Carlo in collaborazione con il carissimo amico Mario Soldati: Ricordo d’infanzia, Patatrac di Gennaro Righelli e Celestino direttore cinematografico»70. L’occasione dell’articolo, pubblicato su «La cultura » e intitolato Cinematografo, è offerta da fotografie tratte da alcuni film e pubblicate su una rivista che l’autore sfoglia. Esse sono «astrazioni di una astrazione, fissazione di un momento irreale, di un istante puntuale nell’immagine di un movimento»71. Le fotografie non dicono quasi nulla del film da cui sono tratte, costituiscono piuttosto un documento «del mondo morale di quell’arte su cui essa nasce e che cerca di esprimere»72. Il problema posto in questi termini è morale più

che artistico, contenutistico più che espressivo. Infatti, l’analisi non propone un giudizio estetico sul cinema o sulle tecniche usate, quanto sulla presenza o meno di un mondo morale che da esso sprigiona. Esempio supremo, per Levi, della raffigurazione di un mondo autentico e vivo è quello della diva Greta Garbo. Le figure del suo mondo «stanno ad ogni modo, prima e indipendentemente da ogni problema d’arte, a mostrarci una straordinaria vitalità, grezza e informe assai spesso, affinatissima e preziosa talvolta»73. È decisiva la loro capacità di trasmettere un «autentico mondo morale», cioè di esprimere la vitalità, la libertà, la passione. Al contrario, nelle fotografie tratte dai film italiani, in voga sotto il

69 «Tra il ’26 e il ’34, – scrive la De Donato – frequenta a Parigi, vietato tassativamente in Italia, il

cinema d’avanguardia, tra Ejzenstejn, Pabst e Pudovkin: una macchina da presa allarmata sulla catastrofe che si annuncia per l’Europa». In merito a Pabst, Levi pubblica, su «Casabella» nel 1933, un articolo intitolato Idee su Pabst, in cui affronta i due punti focali della sua opera identificati nei poli dell’ideologia e dell’immagine. «I films di Pabst crescono generalmente attorno ad alcune immagini di straordinaria potenza […] Sono immagini insieme visive e psicologiche, cinematiche e sentimentali, dove il senso di realtà nasce appunto da questa complessità che le fa autonome, e vive. […] Ricordiamo, per prendere, fra i molti, due esempi lontani nel tempo, la pelliccia della Garbo nella “Via senza gioia” e il cancan di “Atlantide”: momenti di assoluta libertà fantastica, così concreti che da essi deriva, o in essi confluisce, di necessità, ogni altra cosa; centri generatori della intera composizione». In C. Levi, Idee su Pabst, in «Casabella» (marzo 1933), pp. 34-37. Ora in Id., Lo specchio. Scritti di critica d’arte, a cura di P. Vivarelli, Roma, Donzelli 2001, p. 55. In un altro articolo, dedicato al cinema, Levi si confronta con l’importanza della scenografia cinematografica in confronto a quella teatrale. Cfr.

Id., Scenografia cinematografica, in «La casa bella» (novembre 1932), pp. 30-33. Ora in Id., Lo specchio. Scritti di critica d’arte, cit., pp. 49-51.

Tra il 12 e il 15 maggio 2009, ha avuto luogo, a Torino e a Roma, un importante convegno dal titolo Carlo Levi e il cinema. Valori, utopia e impegno, con l’obiettivo di mettere a fuoco, in virtù soprattutto dei numerosi materiali inediti di archivio, l’importanza del cinema nell’opera dell’artista torinese. Tuttavia, gli interventi non sono ancora stati pubblicati.

70 G. De Donato e S. D’Amaro, Un torinese del Sud: Carlo Levi, cit., p. 81. 71 C. Levi, Scritti politici, cit., p. 120.

72 Ivi, p. 121. 73 Ivi, p. 122.

fascismo, non si riconosce «un mondo vitale, non troviamo nulla degli interessi che ci muovono […] Una ottusa mediocrità appare su questi volti, né mai si cerca di superare un limite; come se per dirla con Huxley, si fosse su di essi esercitata l’ipnopedia della contentezza (di cui essi, a loro volta, diventano strumento)»74. Attraverso il richiamo alla società distopica narrata nel romanzo di Huxley, Il Mondo Nuovo, pubblicato in Inghilterra nel 193275, Levi esprime un giudizio severissimo nei confronti di una parte della cultura italiana, qui rappresentata dal cinema. Nel Mondo Nuovo, infatti, gli abitanti sono soggetti a una manipolazione della mente che avviene per mezzo dell’inculcamento notturno, l’ipnopedia appunto, di motti e di slogan. Il controllo delle menti dell’individuo (divenuto massa) permette così il mantenimento dell’ordine sociale, basato sul benessere e la pace, a costo della rinuncia a tutto ciò che appartiene alla sfera individuale ed emotiva.

Il libro deve aver colpito a fondo l’animo di Levi a tal punto che, come si vedrà, se ne serve in alcuni passaggi della costruzione dell’opera Paura della libertà. La negazione della libertà individuale confligge, infatti, con le idee liberali del gruppo di Gobetti ed è in sintonia con le analisi che allora formulava il gruppo di Giustizia e Libertà sul totalitarismo fascista. Infatti, «la crisi del cinematografo – chiarisce l’artista – è in Italia crisi di cultura e, pertanto, è dovuta alla indifferenza alla vita e all’opera stessa»76. Per Levi, e questo è uno degli snodi essenziale da affrontare per tutta la sua produzione artistica, «mondo morale e arte sono strettamente interdipendenti»77: non può nascere nulla di artistico se il pensiero morale che dà vita all’opera non è contraddistinto dalla libertà e dalla vitalità, dall’autonomia e dall’indipendenza verso qualsiasi costrizione interna o esterna. «Ogni atto – commenta G. Falaschi nel testo Carlo Levi – del libero pensiero è di per sé affermazione rivoluzionaria», perché esercita una rottura con l’ordine precostituito, con le stabili e imperiture sovrastrutture del reale, sostituendo a un mondo cristallizzato un mondo nuovo, vivo e fluido. Questa particolare concezione, di derivazione gobettiana, dà vita, nei lavori dell’intellettuale torinese, a due strade strettamente interdipendenti, di cui si darà conto nel corso del capitolo, ma che qui si ritiene utile anticipare.

74 Ivi, p. 124.

75 Cfr. A. Huxley, Il Mondo Nuovo (1933), tr. di L. Gigli, Milano, Mondadori 2015. 76 C. Levi, Scritti politici, cit., p. 125.

Si è ribadito, innanzitutto, che un pensiero libero è rivoluzionario in quanto momento di superamento della rigidità del presente e si è sottolineato, inoltre, che alla rivoluzionarietà del gesto soggiace il sentimento di libertà che ne è il motore primo. Ne consegue, dunque, che il momento della rivoluzione o della rivolta possiede una componente di creatività espressiva che corrisponde, in quantità pari, alla sua capacità di trasformare il presente: rivoluzione e opera poetica, gesto creativo e gesto rivoluzionario rappresentano, così, due facce della stessa medaglia, il cui conio sono il sentimento della libertà e il mondo morale a esso associato. Tuttavia – e questa è la seconda strada da esplorare – l’idea della creazione di un’opera d’arte o di un mondo nuovo, sotto il profilo politico, sociale e culturale, presuppone un particolare tipo di rapporto con la storia e il passato. Se un pensiero libero o un insieme di pensieri liberi crea, nel senso del verbo greco poiéin (dal momento che pensiero e azione non sono disgiunti), un nuovo ordine, una nuova realtà, che relazione si instaura con il passato? A questo proposito, si concorda con Falaschi, il quale correttamente chiama in causa lo «storicismo idealistico […] di netta derivazione crociana», tuttavia «mediata attraverso la frequentazione di Gobetti»78. All’altezza dei primi anni Trenta, il pensiero di Levi è ancora, in parte, debitore nei confronti della filosofia crociana (il cui storicismo verrà presto soppiantato e mitigato dall’incontro con Vico), anche se risulta già preponderante la sostituzione dell’astrattismo dell’idealista con il pragmatismo del maestro Gobetti:

L’azione – scrive Gobetti citato da Levi – deve vivere di storia (di concretezza); ma come azione è qualcosa di nuovo, che al passato non si riduce, libero: nasce impreveduta, crea valori imprevedibili; ma poiché alla storia invano si repugna, questo nuovo ha il suo significato in quanto si sforza di sottoporre a sé tutto il passato. Da questa relazione soltanto (che è quanto a dire da nulla di arbitrario) nasce l’avvenire79.

Il «nuovo» trova il proprio valore solo nello sforzo «di sottoporre a sé tutto il passato». Il movimento di evidente marca dialettica presuppone, dunque, che tra passato e futuro ci sia un nesso imprescindibile che non è «nulla di arbitrario».

78 G. Falaschi, Carlo Levi, Firenze, La Nuova Italia 1974, p. 7.

79 C. Levi, Scritti politici, cit., p. 98. Per il testo di Gobetti, da cui il passo è tratto, cfr. P. Gobetti,

Politica e storia. Polemica sul «Manifesto», in «La Rivoluzione Liberale», I, n. 3 (25 febbraio

1922), contenuto ora in Id., Scritti politici, cit., pp. 253-254. Il passo è citato anche da G. Falaschi,

L’azione rivoluzionaria del pensiero è costituita dalla risultante di due forze, una di innovazione e una di conservazione, dalla cui unione nasce la rivoluzione, intesa come radicale rottura con il presente fascista e il recupero dell’anelito di libertà che vibrava in alcune delle migliori e vitali esperienze storiche italiane quali quella dei Comuni80, del Rinascimento e da ultimo del Risorgimento.

«Le esperienze – scrive Gobetti – dei Comuni, del Rinascimento, del Risorgimento, non sono storie di fallimenti ma indicazioni di stati d’animo, d’insopprimibili aspirazioni»81. L’idea di rivoluzione, così come viene rielaborata da Gobetti, presenta un elemento che Levi recupera e rielabora nella sua opera futura Paura della libertà. Prima che una rivoluzione di matrice materialistica, la rivoluzione leviana, letta attraverso il giovane maestro, si presenta come un problema di predisposizione morale e d’animo, come capacità di sentir interiormente lo stringente problema della libertà e di dar seguito a un impulso creativo e rivoluzionario. Solo in seconda battuta, infatti, deriva la costituzione di istituti liberali in grado di conservare la libertà e l’autonomia ottenute. L’accento è così rivolto con preferenza ed esclusività alla matrice etica, morale e sentimentale che a essa dà vita. La rivoluzione per Levi – e questo dato si accentuerà con maggiore evidenza nella seconda metà degli anni Trenta – si trasforma da questione pubblica a privata, da collettiva a individuale; in altre parole, la rivoluzione, prima di poter essere applicata su uno spazio concreto e collettivo, deve passare per l’interiorità del singolo. Ed è infatti nell’«animo stesso dell’uomo», con implicito richiamo al motto di Agostino (letto più volte in carcere) «in interiore homine habitat veritas», che Levi ricerca le cause della crisi della civiltà82. A questo arretramento progressivo dell’analisi verso l’interiorità dell’individuo e della psiche umana concorrono almeno tre eventi di forte

80«Si potrà – scrive Levi nell’articolo intitolato Il concetto di autonomia in «G. L.» – realmente

parlare di unità, soltanto quando saranno sorti e fioriti organismi locali indipendenti. La centralizzazione corrisponde al totalitarismo» (in C. Levi, Il concetto di autonomia nel programma

di «G. L.», in «Quaderni di Giustizia e Libertà», II serie, n. 7 (1934), ora in Id., Scritti politici, cit.,

p. 79). Nella tradizione politica italiana l’unica forma di libertà locale è rintracciata nell’istanza del comune medievale, che per mezzo della concertazione locale permetteva idealmente al singolo di esprimere la propria individualità. «Il comune, e in ispecie il comune rurale, – scrive Levi – potrà esaurire in sé molta parte della attività politica; quella che è legata agli interessi di un mondo ristretto ma non perciò meno vivo: primo luogo di vita comune di un paese liberatosi dalla tirannia del segretario politico e dall’influenza del parroco, organismo di resistenza al prepotere dell’autorità centrale» (in ivi, p. 80).

81 P. Gobetti, Scritti politici, cit., p. 257.

incidenza personale. Il primo, già individuato dalla De Donato, coincide con la crisi economica europea e l’avvento del nazismo nel 1933.

Si viene facendo strada – scrive la De Donato – […] una consapevolezza più inquieta ed allarmata della fine, della caduta dei miti, avvalorata dalla minaccia presente e totale di un ritorno ferino di barbarie […]; una ricerca volta a ricostruire la possibilità stessa di una rinascita dell’uomo, diretta a ripercorrere la via di un ritorno alle origini prime dell’umanità, per tentare di slancio una nuova e diversa ipotesi di rinnovamento, per una mitica palingenesi che riemerga dalle acque del caos, della distruzione del diluvio83.

Alla nascita del nazismo si accompagna l’esperienza personale della persecuzione fascista che si concretizza con il primo arresto di Levi nel marzo del 1934, in seguito alla cattura di Sion Segre e del sequestro della sua macchina contenente numeroso materiale compromettente per i membri di Giustizia e Libertà84.

Rilasciato dopo due mesi, Levi riprende l’attività eversiva che lo conduce a essere arrestato una seconda volta il 15 maggio del 193585. È l’anno della svolta e dell’incontro con la realtà lucana: tradotto prima nel carcere di Torino e in seguito in quello romano di Regina Coeli, l’intellettuale antifascista viene infine condannato a tre anni di confino nel paese di Grassano. L’esperienza della realtà lucana, da cui prenderà vita la prosa di Cristo si è fermato a Eboli, trova una sua specifica consonanza con il terzo elemento propulsore della svolta del pensiero di Levi, ovvero l’incontro culturale, permesso soprattutto dai numerosi viaggi di

83 Ivi, p. 47.

84 Per i dettagli dell’arresto cfr. G. De Donato e S. D’Amaro, Un torinese del Sud. Carlo Levi, cit.,

pp. 98-99.

85 Cfr. ivi, p. 107 e sgg. Il secondo arresto è reso possibile dalle rivelazioni del delatore Dino Segre

(alias Pitigrilli), cugino di Sion Segre, che così scrive di Carlo Levi nel suo resoconto all’O.V.R.A: «Nell’antifascismo torinese Carlo Levi è un uomo di primo piano. La sua attività risale a parecchi anni prima dell’inizio della attività di Vittorio Foa. Ho la certezza che parallelamente alla spedizione […] Segre-Levi a Lugano (11 marzo) avevano luogo altre “spedizioni” con ogni probabilità organizzate da Carlo Levi». In C. Levi, Note ai testi, in Id., È questo il “carcer tetro”?

Lettere dal carcere 1934-1935, a cura di D. Ferraro, Genova, Il melangolo 1991, p. 18.

Durante la permanenza in carcere, Levi legge numerosi libri, la cui testimonianza permane grazie ai rapidi accenni presenti nelle citate lettere ai famigliari. Per una breve panoramica della presunta biblioteca carceraria di Levi si trascrivono i testi menzionati nelle lettere con indicato tra parantesi il numero della lettera: la Comedia di Dante, Le confessioni di un ottuagenario di Nevio (I e II),

Capitan Fracassa e Smalti e Cammei di Gautier (III), Anna Karenina di Tolstoj, La luce che si spegne di Kipling (IV), Le Confessioni di Agostino, Della sublimità attribuito a Cassio Longino, I miei ricordi di d’Azeglio, Canti di Roma antica di Macaulay, Canzoniere di Petrarca, Les

aventures del Télémaque di Fénelon (VII), Consuelo di Sand (VIII), Propos de littérature di Alain, ventuno Commedie di Goldoni (XII), probabilmente Oeuvres choisies de Diderot, precedées de sa

vie par MMe de Vandeul et d’une introduction par François Tulou di Diderot, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meisters e Arminio e Dorotea di Goethe (XXI), Viaggio in Italia di

Goethe, I promessi sposi di Manzoni (XXV), Le moulin sur la Floss di Eliot (XXVI), Sommario di

pedagogia di Gentile (XXIX), Il signore di Ballantrae e L’isola del tesoro di Stevenson (XXXI), De Bello Gallico di Cesare (XXXV), testi di Leibniz, Kant e Fichte (XL).

Levi a Parigi86, con la letteratura antropologica relativa al concetto di sacro, con la cosiddetta “cultura della crisiù” e con l’approfondimento della psicanalisi di Jung e di Freud.

1.1.2 Alfieri e la paura della libertà

Prima di entrare, tuttavia, nell’analisi di Paura della libertà, è necessario insistere su un punto del lascito gobettiano che la critica leviana ha spesso sottovalutato, ma che riveste all’interno delle sue opere una non trascurabile rilevanza. Nell’articolo su Gobetti, pubblicato sui «Quaderni di Giustizia e Libertà» e qui più volte richiamato all’attenzione, Levi menziona alcune riflessioni tratte dalla rilettura che l’amico fa della figura di Vittorio Alfieri, tema della sua tesi di laurea assegnatagli da Gioele Solari e, in seguito, pubblicata con il titolo: La filosofia politica di Vittorio Alfieri. In particolare, Levi richiamando quell’«opus primum» lo definisce «una straordinaria professione di fede» più che un «saggio critico». La sua attenzione è, difatti, rivolta all’insegnamento che Gobetti trae da Alfieri, trasformato in un modello esemplare e nel capostipite della lunga tradizione del liberalismo piemontese. L’originalità dell’Alfieri, secondo Gobetti, si riscontra nella sua radicale opposizione a ogni sistema.

In un secolo nel quale la vitalità dello spirito veniva ridotta a morto schema astratto nell’intellettualismo post-cartesiano e nelle varie costruzioni giusnaturalistiche del dogmatismo wolfiano, in un secolo in cui dicendo sistema si diceva sostanzialmente astrazione e generalizzazione di dati empirici, opporsi al sistema per affermare la pienezza della vita individuale, irriducibile alle vecchie formule, era opera preziosa di rinnovamento speculativo87.

Alfieri è un intimo oppositore di tutto ciò che chiude l’esistenza umana in un sistema predeterminato e rigido. Il suo pensiero, secondo Gobetti, si può comprendere solo «legandolo – come scrive il critico Angelo Fabrizi nella Postfazione al testo – alla linea filosofica (caratterizzata da antidogmatismo e dalla dottrina dell’immanenza e della libertà) rappresentata da Machiavelli, Vico, Gioberti»88. Lontano dal cattolicesimo, per la sua naturale contrarietà ai lacci di

86 Cfr. G. Dotoli, Carlo Levi e la Francia: con le poesie in francese, Fasano, Schena 2010.

87 P. Gobetti, La filosofia politica di Vittorio Alfieri, postfazione di A. Fabrizi, Roma, Edizioni di

Storia e Letteratura, 2012, p. 28. Gobetti si laurea nel 1922 e pubblica, nello stesso anno, la tesi a puntate su «La Rivoluzione Liberale».