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paradigma della non-storia

2.4 Costellazione Lucania

L’arte medica e la pittura coadiuvano gli sforzi del protagonista verso la comprensione dell’alterità lucana, con cui egli tenta di entrare in comunione simpatetica. Questo percorso progressivo di avvicinamento non passa solo attraverso la malattia e l’arte della pittura, ma anche per mezzo dei racconti dei contadini che don Carlo raccoglie lungo il suo itinerario lucano. Estraneo alla visione verghiana dell’arte del narrare, la voce del narratore autodiegetico si spinge nelle profondità dei racconti contadini per restituire uno spaccato esistenziale, non depurato certo della forte soggettività artistica del suo osservatore d’eccezione. La narrativizzazione dei racconti, infatti, non si limita a una riproposizione tout court del loro contenuto, ma si spinge a una ripresa mimetica della loro struttura su cui si modella la stessa opera letteraria. In tal senso Levi utilizza una forma narrativa che oppone al narrare di tendenza modernistica la forma e la struttura dell’epica. Gli aneddoti e i racconti raccolti sul campo non sono di invenzione autoriale, ma circolavano realmente sugli aridi calanchi della Lucania. E proprio in virtù della voce aggregante del narratore, essi vengono intessuti all’interno di una struttura più ampia che, pur conferendogli una parziale autonomia, li determina secondo l’uso specifico che ne fa l’autore.

Capita – scrive il filosofo Walter Benjamin – sempre più di rado d’incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve: e l’imbarazzo si diffonde sempre più spesso quanto, in una compagnia, c’è chi esprime il desiderio di sentir raccontare una storia. È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze1.

La modernità, dunque, in seguito alla brutalità espressa dalla prima guerra mondiale, ha determinato l’impossibilità di narrare l’esperienza passata e di condividerla oralmente. Dal momento che l’arte del narrare, suscettibile dei mutamenti storico-materiali, secondo un’ottica marxista, è strettamente

1 W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Leskov, in Id., Angelus novus, cit., p.

247. Il saggio viene pubblicato in Germania nel 1936 sulla rivista «Orient und Occident» (n. 3). Non vi è traccia, allo stato attuale, di prove che testimonino la lettura dell’opera da parte di Levi prima della stesura del Cristo. Sembra, invece, più plausibile che la concomitanza di alcuni direttrici culturali, quali l’hegelismo e l’appartenenza all’ebraismo, abbiano prodotto nel medesimo contesto culturale affinità teoriche.

interdipendente all’esperienza dell’individuo, è necessario capire in che modo l’Occidente abbia perduto il senso stesso dell’esperienza del mondo che nelle società precedenti conservava ancora il suo carattere auratico, la sua unicità e autenticità. Il discorso rientra in una più generale teoria del filosofo berlinese sui mutamenti provocati dal progresso tecnico nella vita dell’uomo. Infatti, come ricorda in Strada a senso unico, il «dominio della natura […] è il senso di ogni tecnica»2. Al progresso, cui lo stesso Levi imputa la trasformazione del presente,

Benjamin associa tre ulteriori cause responsabili del passaggio «che ha portato l’uomo moderno alla perdita dell’esperienza autentica (Erfahrung) e alla sua sostituzione con l’Erlebnis3, l’esperienza impoverita dalla massificazione, dalla

tecnicizzazione e dal conflitto mondiale»4. L’arte del narrare viene, infatti,

impoverita dalla nascita del romanzo moderno, in cui l’autore non è più capace di esprimersi «sulle questioni di maggior peso e che lo riguardano più da vicino»5;

dall’informazione giornalistica che spiega l’esperienza accaduta sciogliendone le ambiguità; dalla «short story, che si distacca dall’epica poiché è una forma di scrittura che si sottrae alla stratificazione di piani e di varianti producibile solo dall’oralità»6.

Lontana dal mondo civilizzato e massificato in modo tecnico, la Lucania (secondo la particolare prospettiva di Levi) articola la propria diversità a partire dalle questioni già analizzate della temporalità ciclica e della «doppia natura» che, pur alterando la normale e occidentale percezione tra il soggetto e il mondo, preservano un’aura di autenticità e di unicità dell’esperienza, in cui il racconto coincide con il tempo della festa e del sovvertimento della tradizionale strutturazione gerarchica della società. Così come Benjamin identifica il passaggio dall’«Erfahrung» all’«Erlebnis» nel moderno contesto metropolitano e nello sfrenato individualismo della società parcellizzata, dimentica del proprio passato, Levi è volto alla riscoperta – a dispetto dei valori vigenti – del senso originario e

2 Id., Strada a senso unico, a cura di G. Schiavoni, Torino, Einaudi 2006, p. 16.

3 La distinzione è affrontata in W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Id., Angelus novus,

cit., pp. 89-130.

4 M. T. Cosa, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia, Macerata,

Quodlibet 2008, pp. 161-162.

5 W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Id., Angelus Novus,

cit., p. 251.

autentico dell’esperienza, intesa non come «esperienza vissuta» (Erlebnis), bruciata cioè nel momento del suo accadere e privata di qualsiasi rapporto con il passato, ma come esperienza in cui «determinati contenuti del passato individuale entrano in congiunzione, nella memoria, con quelli del passato collettivo»7.

Il tentativo di recupero della tradizione lucana non segue, dunque, un approccio storico, in virtù del quale l’autore ricostruisce in modo quasi filologico i ricordi e le testimonianze raccolte, ma è volto piuttosto alla ricerca di una chiave magica che permetta di entrare in contatto con la fascinazione del mondo delle storie lucane. Grazie al rapporto d’amore che si istituisce tra Levi e il mondo contadino, il narratore diviene a sua volta un affabulatore che trasmette storie e aneddoti che ricreano nuovi rapporti e nuove relazioni all’interno del contesto del destinatario dell’opera.

Levi, consapevole della trasformazione dell’uomo occidentale e della corrispettiva perdita del passato collettivo, ricerca nei racconti appartenenti al patrimonio lucano (su cui è fondata una millenaria saggezza popolare tramandata di generazione in generazione per via orale e custode dei modi di agire e di pensare di quella terra) l’autenticità dei primordi, di quella energia arcana che qui si è voluto chiamare: il sacro fluire delle forme. La Lucania è da questo punto di vista un osservatorio privilegiato (a tal punto che alcuni antropologi hanno definito il Cristo come una «monografia di terreno»8), dal momento che essa

costituisce, secondo l’ottica leviana, una comunità impermeabile alle influenze esterne, delimitata all’interno di uno spazio definito e contraddistinta da una corposa saggezza contadina, capace di trasmettere esperienza. Infatti, proprio ai contadini Benjamin pensa allorché definisce i fondatori mitici della figura del narratore. L’«agricoltore sedentario» che, «vivendo onestamente, è rimasto nella sua terra», è portatore «di “consiglio” per chi lo ascolta»9 al pari del «mercante

navigatore» che viaggiando conosce molte storie. E narrare un consiglio equivale per il filosofo a tramandare una forma di saggezza antica che di esperienza in esperienza sopravvive all’oblio dei secoli.

7 Ivi, p. 93.

8 Cfr. P. Clemente, Oltre Eboli: la magia dell’etnografo, in Aa. Vv., Il tempo e la durata in

“Cristo si è fermato a Eboli”, cit., p. 264.

Come, allo spirare della vita, si mette in moto, all’interno dell’uomo, una serie di immagini – le vedute della propria persona in cui ha incontrato se stesso senza accorgersene –, così l’indimenticabile affiora d’un tratto nelle sue espressioni e nei suoi sguardi e conferisce a tutto ciò che lo riguardava l’autorità che anche l’ultimo tapino possiede, morendo, per i vivi che lo circondano. Questa autorità è all’origine del narrato10.

L’esperienza oltrepassa la vita e si carica di un senso autentico proprio laddove la morte sigilla con la propria presenza il contatto tra ciò che è vivo e ciò che trapassa. Nel Cristo l’onnipresenza della morte assume degli aspetti decisivi in relazione alla temporalità immobile della civiltà lucana. Inoltre nel capitolo settimo, il primo della seconda sezione, l’autore dopo aver dichiarato di volersi occupare esclusivamente dei contadini disvela come nella Lucania la morte sia consustanziale alla vita. Infatti, il campanaro suona «per tutte le occasioni» «la campana a morto» e Barone, «sensibile alla presenza degli spiriti, non poteva tollerare quel rumore funebre; e al primo rintocco cominciava ad ululare, con un’angoscia straziante, come se la morte passasse attorno a noi» (CSFE, p. 65). Al contrario nella civiltà occidentale la morte è stata «espulsa dal mondo percettivo dei vivi» e relegata ai margini della società, in «istituti igienici e sociali»; ripudiando i morti, gli uomini hanno depotenziato l’autorità che ciascun uomo possiede in punto di morte. Se nella pre-modernità la morte dischiudeva nell’uomo la saggezza e quindi la facoltà di narrare le esperienze più significative della propria esistenza, ora questo legame è stato annientato dall’allontanamento della morte dalla comunità dei vivi.

Ma non è solo l’esclusione della morte ad aver contribuito a una progressiva perdita del senso originario dell’esperienza. La stampa ha contribuito innanzitutto alla diffusione, su un supporto cartaceo, dell’informazione giornalistica in cui prevale non più «la notizia che viene da lontano, ma l’informazione che offre un aggancio immediato» al reale e che propone una nutrita infarcitura di spiegazioni tali da esaurire l’icasticità tipica della vera narrazione. Al pari dell’informazione, anche il romanzo, uno dei generi letterari più distanti dall’oralità, nasce dall’«individuo nel suo isolamento, che non è più in grado di esprimersi in forma

esemplare sulle questioni di maggior peso e che lo riguardano più da vicino, è egli stesso senza consiglio e non può darne ad altri»11.

A esemplificazione del quadro oppositivo tra il romanzo e la forma epica, Benjamin accoglie nel VII capitoletto un aneddoto tratto da Erodoto sulla storia del re Psammenito che si commuove, dopo la propria incarcerazione, alla vista di uno dei suoi servitori invece di provare pietà per la caduta dei propri figli. Mentre l’informazione si consumerebbe «nell’istante della sua novità» spiegando il contenuto della propria narrazione, il racconto in oggetto è suscettibile di un ventaglio di interpretazioni che proliferano a seconda di chi ascolta la storia. «Assomiglia – commenta Benjamin – a quei semi rinchiusi per migliaia d’anni senz’aria nelle camere delle piramidi, che hanno mantenuto il loro potere di germinazione sino al giorno d’oggi»12. Benjamin distingue dunque un racconto

che esaurisce il senso del proprio significare da uno, invece, che sottoposto a una «casta concisione» elude l’analisi psicologica. Il problema essenziale del romanzo, elemento che si rivela fondante anche in Levi, è la tendenza dalla seconda metà dell’Ottocento in avanti a utilizzare il «chiaroscuro psicologico» che, penetrando nei meccanismi occulti della mente, spiega in virtù di ciò il senso dei fatti narrati.

Nella sua opera narrativa, Levi non indulge mai nell’analisi psicologica e nello sviluppo di un singolo personaggio che si evolve poi nel corso della narrazione. Mentre il narratore, sempre in prima persona, muta la propria pelle e si accresce per mezzo dell’incontro con l’alterità, i personaggi, delle vere e proprie figure, talora dalla natura bozzettistica, sono statici, emergono da uno sfondo buio come campioni rappresentativi di un certo mondo per farvi subito ritorno. Nonostante siano immobili sul piano diacronico della diegesi, la loro fissità interiore è smossa talvolta da una degradazione grottesca che si avvale di una forte caratterizzazione pittorico-visiva associata a un meccanismo di animalizzazione. Si pensi alla madre «vetula et infirma» di don Trajella che, alla fine dell’episodio, con un rapido scatto inizia a muoversi come le galline che la circondano o alle

11 Ivi, p. 260. 12 Ivi, p. 262.

descrizioni iniziali dei signori del paese o alle donne presso la fontana intente a prendere l’acqua:

Stavano in gruppo, attorno alla fontana, alcune in piedi, altre sedute per terra, giovani e vecchie, tutte con una botticella di legno sul capo, e la brocca di terra di Ferrandina. Ad una ad una si avvicinavano alla fontana, e aspettavano pazienti che l’esile filo d’acqua riempisse gorgogliando la botte: l’attesa era lunga. Il vento muoveva i veli bianchi sui loro dorsi diritti, tesi con naturalezza nell’equilibrio del peso. Stavano immobili nel sole, come un gregge alla pastura; e di un gregge avevano l’odore. (CSFE p. 45)

Quello che preme sottolineare, oltre all’assenza di qualsiasi forma di analisi psicologica, risiede nella rappresentatività dei personaggi che assolvono, come ha asserito la De Donato, «a un ruolo figurale e tipico, come momenti emblematizzati dell’anima collettiva»13. Infatti i personaggi quali il sanaporcelle,

lo zoppo, il barbiere e la stessa Giulia sono inquadrati sotto il profilo sociologico come rappresentati delle diverse categorie cui appartengono, e più in generale sono paradigmi di una comunità tradizionale contadina che fa da sfondo al loro apparire.

L’idea origina nel Cristo non solo da una certa propensione stilistica, ma soprattutto dalla forma stessa dei personaggi all’interno delle storie contadine. Oltre alla loro tipicità derivante dal fatto che «esprimono una condizione dell’uomo: il debole, il forte, l’astuto […], tutti questi personaggi – conferma Levi – hanno una certa fissità poiché essi sono dei modi dell’esistenza, dei modi di una esistenza che prende per la prima volta, nel racconto, coscienza di sé, e che perciò ha bisogno di essere fermata perché non torni a dissolversi nella confusione»14.

Non vi può essere analisi psicologica laddove il personaggio ha preso per la prima volta coscienza di sé, non vi è nessuno sviluppo, nessuna capacità di addentrarsi nella perversione dello psicologismo, ma solo il tentativo di mostrare mimeticamente gli albori dell’individualità. La tipizzazione appartiene piuttosto all’epica in cui i personaggi sono descritti secondo formule che fissano l’immagine in base a una precisa caratterizzazione. Non è tuttavia da sottovalutare

13 G. De Donato, Saggio su Carlo Levi, cit., p. 84. Cfr. anche G. De Donato, “Cristo si è fermato a

Eboli”: incrocio di culture e di stili narrativi, in: Aa. Vv., Carlo Levi e il Mezzogiorno, a cura di

G. De Donato e S. D’Amaro, Atti della giornata nazionale di Studi, Foggia, Claudio Grenzi Editore 2003, pp. 110.

a questo proposito l’influenza della Bibbia, che Levi aveva con sé in Lucania, come modello di una certa fissità dei personaggi, e neppure l’origine ebraica dell’autore che poteva attingere come costante modello di riferimento ai canti dell’Haggadah15.

Se i personaggi sono delle entità fisse che appaiono e scompaiono sul palcoscenico della narrazione, assume un ruolo centrale per il dipanarsi della storia la figura del narratore, vero e proprio collante delle diverse vicende. È sempre Benjamin nel saggio già citato de Il narratore a tratteggiare la linea di demarcazione tra due forme distinte di narratori che corrispondono a due diverse forme di memoria e di esperienza. In seno all’epos il romanzo e la narrazione erano «in stato per così dire d’indifferenza», cioè la memoria non si era ancora distinta in «memoria epica» (Gedächtnis) e in «rammemorazione» (Eingedenken). Questa, ravvisabile già nell’epica nei «luoghi solenni», è «la memoria eternante del romanziere […] [che] è dedicata a un solo eroe, a una sola traversia o a una sola lotta». Mentre il romanziere (Benjamin cita Flaubert dell’Educazione sentimentale) è intento a tessere le fila di una singola storia che «attesta ed esprime il profondo disorientamento del vivente», il narratore accoglie nella sua trama i «molti fatti dispersi» frutto del lungo sedimentarsi della saggezza popolare dell’uomo primitivo, in cui è racchiuso, nella forma immanente della morale della storia, il suo primo accostarsi alle variegate vicende del mondo. Infatti, il filosofo apporta, come modello di questo narratore, Sheherazade che nelle Mille e una notte racconta al sultano, per salvarsi dalla morte, le storie della propria tradizione.

Lo stesso Levi, parlando del confino, dimostra l’influenza del modello sulla propria narrazione. Dopo aver raccontato una breve novella tratta dal repertorio lucano, rivela come questo fosse «uno degli infiniti racconti, favole, poemi, aforismi, interpretazioni della realtà naturale e storica che si ascoltano ad ogni

15 Scrive in relazione a ciò Vanna Gazzola Stacchini: «La Haggadah indica ciò che si deve fare in

forma di narrazione: dove entra la parabola, la leggenda, il particolare storico, l’aneddoto, la predicazione morale, ma anche la distrazione, il lato piacevole della vita. […] Mi sembra che di questa atmosfera sia restato qualcosa nel modo di narrare di Carlo Levi. […] E se Levi non ereditò lo spirito religioso ebraico, ne accolse tuttavia quel senso etico della vita e quei modi della coscienza che si erano formati attraverso una storia religiosa: il bagaglio più sostanziale e basilare della coscienza ebraica stava “naturalmente” dentro di lui». V. Gazzola Stacchini, Forme di

momento se soltanto si hanno le orecchie per intendere, se si ha quella piccola chiave che apre il segreto delle cose». E infatti avrebbe potuto «passare non un’ora, ma una notte, anzi mille una notte per raccontare analoghe novelle, ed in tutte ritrovereste la stessa capacità di fare, immediatamente, della realtà, un mito»16. Una volta conquistata la «chiave di magia» che permette di accedere

‘miracolosamente’ al mondo contadino, il narratore lo attraversa con la stessa avida curiosità di un collezionista che sottrae i racconti al fine di attribuirgli un valore di autenticità e unicità. L’operazione di Levi ricorda così quanto Hannah Arendt scrive di Benjamin nel suo noto saggio Il pescatore di perle: Walter Benjamin. Sul fondo del mare, come un «pescatore di perle» il narratore del Cristo raccoglie le cose che, ammaliate da un «sortilegio del mare», «sopravvivono in nuove forme cristallizzate immuni agli elementi, come se aspettassero solo il pescatore di perle che un giorno scenderà da loro per condurle al mondo dei vivi – quali “frammenti di pensiero”, cose “ricche e strane” e forse, addirittura, Urphänomene»17. Ecco dunque che nell’«inviolato fulgore delle

origini» la realtà è «come apparsa e fissata al suo stato nascente, sospesa in una immobilità catafratta ad ogni modernistico delirio, protetta e illuminata dallo stupore di chi, “guardando per la prima volta le cose che sono altrove”, ne raccoglie l’“esperienza intera” e ne fa “pittura e poesia”»18.

L’esperienza dell’origine è racchiusa nei racconti favolosi della Lucania che narrano il primordiale rapportarsi dell’uomo nei confronti della natura e di se stessi. Lo stesso autore come ha chiaramente evidenziato la De Donato cala mimeticamente nel romanzo una realtà favolosa atta a imprimere sulla pagina il senso dell’autenticità di quei racconti. L’utilizzo di incipit temporali indeterminati («c’era in quel tempo; cent’anni fa; era sera; una notte» etc.), di verba movendi tipici «dell’andamento fiabesco», la topicità di figure e oggetti («la quercia; la notte; il buio; il diavolo» etc.), «i gruppi semantici legati alle procedure narrative della fiaba: la notte era nera; dal burrone una voce bestiale lo chiamava; gli vietava il passaggio» etc., «l’aggettivazione elementare» e «l’uso di numeri

16 C. Levi, Il contadino e l’orologio, in Id., Prima e dopo le parole, cit., p. 27.

17 H. Arendt, Il pescatore di perle:Walter Benjamin 1892-1940, Milano, Mondadori 1993, pp. 91-

92.

convenzionali»19 concorrono alla creazione di una atmosfera fiabesca e magica

che evoca, per dirla con Benjamin, le «prime disposizioni prese dall’umanità per scuotere l’incubo che il mito le faceva gravare sul petto»20. Ed è proprio questo il

ruolo cui la parola magica e il racconto orale degli exempla assolvono all’interno della Lucania leviana. Si deve, pur con le dovute differenze21, a Ernesto De

Martino un’analisi più accurata di quello che lui stesso definisce, nell’opera Sud e magia (1959), «crisi della presenza» e «protezione magica»22. Secondo

l’antropologo italiano, la presenza del negativo, nella società lucana, nasconde il rischio che «la stessa presenza individuale si smarrisca come centro di decisione e di scelta, e naufraghi in una negazione che colpisce la stessa possibilità di un qualsiasi comportamento culturale»23. Contro la negatività opprimente del reale e

della storia, i contadini oppongono la protezione della magia, delle leggende, degli exempla della secolare tradizione orale o delle cosiddette historiolae, che producono una de-storicizzazione della «negatività storica»24, spostando su un