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La pittura ondosa del confino e Paura della pittura Nel 1973, in un testo dedicato alle feste di paese, Levi riconduce miticamente

1.4 Le muse della pittura

1.4.2 La pittura ondosa del confino e Paura della pittura Nel 1973, in un testo dedicato alle feste di paese, Levi riconduce miticamente

la nascita della sua pittura ai primi segni posti negli spazi bianchi di due volumi

ottocenteschi80 che durante l’infanzia usava come strumento per apprendere a scrivere e a disegnare: «i loro margini erano pieni del mio primo scribbling, dei gomitoli di curve apparentemente insensate secondo il gesto della mano infantile»81. Gli scarabocchi sarebbero, nella ricostruzione simbolica, un importante antecedente di quella che è la cifra stilista peculiare della sua opera: la «grafia ondosa», che dagli anni Trenta in avanti caratterizza i suoi lavori e raggiunge nel periodo del confino la sua massima esemplarità.

Ragghianti, infatti, in un celebre saggio del 1970, L’umanesimo e l’arte di Carlo Levi, identifica nel periodo del confino lucano l’inizio della maturazione artistica del pittore per mezzo dell’acquisizione di uno stile originale, meno dipendente dai modelli francesi e più autenticamente leviano: «Se van Gogh trovò il “suo” paesaggio in Provenza, Levi trovò il “suo” paesaggio in Lucania»82. La

Lucania dagli aridi calanchi e dalla brulla vegetazione segna anche nel percepito di Levi un punto di passaggio: – come ricorda nel 1968 sempre all’interno de I ritratti – la scoperta oggettiva del paese, «dove ogni cosa valeva per sé, e il pane era pane, la miseria miseria», dopo la lunga gestazione immaginifica della cella, modifica la «grafia ondosa» («che mi pareva fosse la forma prima della mia pittura» e che possedeva una «qualità sensuale e materna») dando vita «al racconto, alla aridità della prosa, al colore della terra». Tuttavia, l’elemento materno che sembra venir meno dinnanzi alla oggettività di quella terra desolata ricompare prepotentemente perché «quel mondo era […] così profondamente e assolutamente materno, che quella forma prima […] si faceva inconsapevolmente più forte, più vera, indissolubilmente legata a tutte le cose. Aveva perso cioè certi caratteri troppo espliciti, o simbolici, o mitologici (il gesto, la conchiglia femminile, l’atteggiamento), e, allontanandosi dalla superficie della coscienza, la riempì totalmente»83. Rapportata sul piano tecnico, la sgargiante grafia ondosa, visibile nel ritratto dedicato a Leone Ginzburg, diviene ne Il prete o L’arciprete di Aliano del 1936 (Fig. 12) più asciutta, strutturante, unitaria. È sempre Ragghianti a registrare acutamente l’evoluzione del linguaggio pittorico:

80 F. De Bourcard, Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti (1853-1858), Napoli,

Reprints editoriali 1976.

81 La citazione è tratta dalla C. Levi, Prefazione a Aa. Vv., Chi è devoto. Feste popolari in

Campania, foto di M. Jodice, testi di R. de Simone, Napoli, Edizioni Scientifiche 1974, p. III.

82 C. L. Ragghianti, L’umanesimo e l’arte di Carlo Levi, in: Aa. Vv., Carlo Levi, Roma, Carte

segrete 1970, p. 58.

La «visione dominante» si adegua ora ai grandi spazi, ai grandi orizzonti, agli ondulati anfiteatri delle montagne; plana sopra maree e risacche telluriche, respira e spazia in una natura natura senza tempo, in cui nulla è schermo o artificio o illusione, ma è struttura o scheletro di verità essenziale. Con la preparazione precedente, con l’ampia prova delle risorse avvenuta, l’identificarsi col ritmo vitale di quella natura, di quel cosmo nudo, integro, tutto forza elementare e profonda di sentimento, doveva costituire per il pittore forse la scoperta più definitiva84.

Anche Pia Vivarelli, rintracciando nell’esperienza del confino il «punto di arrivo maturo della pittura leviana», sottolinea in riferimento alla tela dedicata all’Arciprete di Aliano «la sicura tensione ad afferrare un nocciolo di verità in sé dell’oggetto esterno»85, come se la pittura più propriamente lirico-espressionista degli anni 1931-’33 avesse lasciato il posto a una più chiara ed essenziale narrativizzazione della forma pittorica, manifesta nell’uso di tonalità di colore più chiare, meno sgargianti, e in una composizione più asciutta, che rispecchia i colori e i piani del paesaggio lucano86. Così il Paesaggio con la luna (ottobre 1935) [Fig. 13], Dietro Grassano (dicembre 1935) e La fossa del Bersagliere (aprile 1936) [Fig. 14] sono paradigmatici di quanto lo stesso pittore confesserà nel 1954 ad Aldo Garosci:

Nei quadri di prima, il soggetto ero io, un io nel suo farsi e specchiarsi nelle cose […] e nel suo concludersi di ogni cosa su sé stessa, rispecchiata in ogni altra […] La Lucania è stata la rottura di questo cerchio magico. Quelle terre, quelle persone […] avevano una esistenza che rifiutava ogni specchio, ogni magica metamorfosi. Così cominciò il distacco, che è la libertà, la comprensione e l’amore87.

Se è vero che la Lucania costituisce la rottura del circolo narcisistico e segna l’apertura del pittore alla realtà oggettiva delle cose, nondimeno è necessario ricordare che l’atto poetico coinvolge, come è deducibile dal testo I ritratti, una parte narcisistica, quel se stesso originario e materno, che, presenza necessaria, è inalienabile ai fini della creazione artistica. È lo stesso Levi in riferimento ai ritratti dedicati alla madre, nel 1968, a sottolineare come le due parti costituenti il

84 C. L. Ragghianti, L’umanesimo e l’arte di Carlo Levi, cit., p. 58.

85 P. Vivarelli, Diario pittorico del confino, in: Carlo Levi e la Lucania: dipinti del confino, 1935-

1936. Mesola Castello Estense, 28 ottobre-2 dicembre 1990, Roma, De Luca edizioni d’arte 1990,

p. 24.

86 «Questa tendenza – precisa sempre la Vivarelli – non è certamente univoca e molti altri dipinti

successivi saranno costruiti secondo l’abituale dinamismo di stesura del colore; ma questo affiorare di una pacatezza gestuale insolita per l’artista si accompagna alla parallela ricerca di strutture compositive e di accordi cromatici semplificati fino alla essenzialità». Ivi, p. 27.

ritratto, cioè il se stesso e l’altro, possano in modo diverso prevalere l’una sull’altra:

Talvolta – scrive Levi – prevale il se stesso proprio quando la pittura ha un’apparenza più freddamente obiettiva, o l’Altro quando l’oggetto è sottoposto più esplicitamente alla deformazione fantastica. Come le onde di un mare, i due atteggiamenti si alternano, e rispecchiano, in modi diversi, quell’alternarsi del cuore, e quel ritmo ondoso, che parte da molti centri di energia e di attenzione e si propaga all’infinito, creando le forme reali dove le onde si intersecano e si sovrappongono88, ripetendo in forma e colore

l’infinita propagazione di ogni punto vitale, le infinite individuazioni, esistenti soltanto negli infiniti rapporti della contemporaneità89.

In questa convivenza (talora asimmetrica) tra una forma «lirica» e una «epica e narrativa», Levi perviene implicitamente a dialettizzare il polo materno del se stesso con quello paterno dell’alterità, di cui la «grafia ondosa» è la summa visiva.

Non a caso le spiegazioni retrospettive della sua nascita sono sempre collegate alla sfera mitizzata dell’infanzia. Oltre al testo relativo allo scribbling e all’incipit del romanzo L’Orologio, su cui si tornerà nel terzo capitolo, l’autore tra il 1969/1970, allorché ritorna alla tecnica della pittura ondosa, scrive Il naufragio del Piloro90, testo inaugurato da un nostalgico ricordo del padre morto nel 1939, mentre Levi è confinato in Francia a La Baule. Nella ricostruzione della morte, egli sottolinea la decisione da parte del padre di morire a causa della promulgazione delle leggi razziali. L’emorragia gastrica che colpisce il piloro

88 Levi sta qui riproponendo quanto scritto ne Il futuro ha un cuore antico. Viaggio nell’Unione

Sovietica, dopo aver visto le opere di Rembrandt all’Ermitage di Leningrado, in riferimento alla

stretta connessione tra il bagliore di luce materno e la presenza nella tela di una «quarta dimensione»: : «Ma il vero e il maggior esempio di quello che in me chiamavo e simboleggiavo col nome di «Lamento», era il Ritorno del Figliuol Prodigo. Rinacquero in me vecchi pensieri. Avevo un tempo ideato una teoria della pittura dove, ai sistemi della giustapposizione paratattica o a quelli della sintassi prospettica, si sostituisse un modo che non avevo allora saputo definire meglio che quello di un sistema di fuochi e di onde, dove la composizione nascesse da una serie di centri di attenzione da cui partissero e intrecciassero e si frapponessero in cerchi successivi le vibranti onde della pittura; e che solo più tardi chiamai pittura della contemporaneità o del giudizio (quella quarta dimensione, che in Rembrandt è luce, non essendo altro che giudizio). Ecco nel Figliuol Prodigo un esempio chiaro, con i suoi centri apparentemente lontani e slegati, la figura di donna in alto a sinistra in ombra, la donna in semiombra nel centro del quadro, il viso mezzo illuminato dell’uomo in piedi con il bastone nella destra ancora più illuminato e a sinistra il padre e il figlio, nella piena luce dei cenci orientali e sfavillanti: quella schiena del figlio in quegli stracci di fango e d’oro, la pittura larghissima dei piedi e delle pantofole, la figura del giovane inginocchiato dai capelli tignosi: ognuno di questi punti, di questi centri violenti e separati di intensità si irradia tutto attorno nell’ombra variata e avvolgente e si lega a ogni altra parte come le increspature di un mare mosso da venti discordi. È una invenzione unica, un’apertura su un altro modo che raramente è poi stato ritrovato (e potrebbe anche, forse, da un momento all’altro, essere niente, una cosa grassa e unta, di fronte al colore puro e acido di un raggio di sole)».In C. Levi, Il

futuro ha un cuore antico. Viaggio nell’Unione Sovietica, Torino, Einaudi 1956, p. 230.

89 C. Levi, I ritratti, cit., p. 14.

duodenale con conseguente decesso porta alla rievocazione di un disegno predittivo, creato dal padre e riprodotto da Levi negli anni ’70 [Fig. 15]. Ancora infante, il padre Ercole inscena dinnanzi agli occhi del figlio un tragico naufragio, accompagnato dalla parola «piloro»:

Mio Padre (la cui aspirazione delusa era stata la pittura – compagno di scuola di Pelizza da Volpedo; emigrato a 16 anni in Scozia, Huddersfield) (solo ora, per la prima volta, e con stranezza, associo alla sua immagine la parola emigrante), era un disegnatore eccellente, e un calligrafo raro. Per intrattenere noi bambini (avrò avuto 4 o 5 anni) eseguiva a penna disegni meravigliosi, racconti che si scrivevano-disegnavano a mano a mano che con la parola erano illustrati. Uno solo è rimasto vivissimo, sempre, nella memoria. Un oceano artico, con balene, iceberg, gabbiani, pesci, foche, e poi onde nascenti, fino alla tempesta; e una nave, prima dolcemente navigante nella calma del mare, con tutte le sue vele gonfie; e poi il vento, il fulmine, l’albero maestro spezzato, le barche di salvataggio inutili, gli uomini vanamente cercanti scampo nel mare terribile, la poppa che si sollevava mentre precipita nell’abisso91.

Agli occhi del bambino, il Padre92 era «un vero Re» che «doveva scrivere una parola incomprensibile (per quanto priapescamente grottesca) della lingua incomprensibile e ripugnante dei Re: PILORO»93. La sublimità della scena viene infranta dunque da una parola estranea al lessico del bambino e posta sul disegno come «anticlimax». La volgarità della scena genera nel figlio un sentimento di rifiuto e di ripudio del Padre, «come si odia nel Padre la propria sempre vergognosa (perché transitoria, fuggevole, temporanea) condizione di figlio»94. Dal momento che ogni analisi «non è più vera della sua interpretazione letterale» si può intravvedere nel racconto leviano e nel disegno di Ercole, riletto dal Levi adulto, la raffigurazione simbolica e letterale (in quanto profetica) della morte del Padre, rappresentata nel dipinto dalla nave/Piloro che affonda e viene risucchiata dalle acque del mare. «Il piloro – scrive Levi – era l’essere Padre, era la rozzezza falsamente bonaria e gaia di Saturno»95. L’associazione Padre, Re, Saturno, Pilota

e Piloro è sufficientemente esplicativa di un richiamo psicanalitico, in particolare freudiano, alla necessaria morte del padre per la nascita della libertà figliare.

91 Ivi, p. 38.

92 Si mantiene la lettera maiuscola per fedeltà alla valenza simbolica attribuitagli dall’autore. 93 C. Levi, Il naufragio del Piloro, in Id., Le tracce della memoria, cit., p. 40.

94 Ivi, p. 38.

Opposto al ruolo della madre, vicina alla natura, alla sacralità e all’indistinto originario, la cui protezione embrionale verrà persino evocata nel postumo Quaderno a cancelli, il ruolo paterno, destinato a tramontare, dà vita, nell’atto della sua morte, alla fine del tempo della legge e all’inizio della libertà. La fluidità dell’arte mantiene il suo statuto di libertà solo se non viene cristallizzata in una forma non più espressiva, ma religiosa. Coincidente con un attimo estatico, l’arte è, in sintesi, pura forma libera, energia vitale che rompe le inferriate delle prigioni e si struttura in un atto di autonoma auto-determinantesi espressione mitopoietica. Il naufragio della nave disegnata dal padre rappresenta dunque – come ha supposto un po’ forzatamente Donato Sperduto96 – la nietzschiana morte di dio, o

meglio la morte di tutto ciò che limita il gesto artistico in una codificazione preesistente e fortemente inclusiva all’interno di un dato sistema culturale97:

«Quel disegno – ricorda Levi – fu l’origine della mia pittura: mi accorsi della sua infinita possibilità di creazione del reale, vidi, con estasi e rapimento, la realtà farsi, sotto le mani, forma e figura […] con quel Naufragio mio Padre mi aveva dato tutto, la Pittura e la libertà»98. Le onde, raffigurazione del sacro originario e della maternità, distruggono l’albero maestro della legge divenendo la cifra stilistica più consona al sentire dell’artista.

Che la curva a dispetto della linea retta o segmentata sia profondamente materna, lo suggerisce sempre Levi in un testo dedicato alla pittura contemporanea di Mondrian. Le due grandi innovazioni primo novecentesche sono, infatti, state rappresentate da una parte dalla linea retta e dalla geometria cubica di Picasso e Braque e, in antitesi, prima dalla linea curva di stampo futurista, Balla e Boccioni, e poi dal biomorfismo di Kandinsky che oppone, al modello duro e squadrato dell’angolo, la mollezza e fluidità della cellula99.

96 D. Sperduto, Agire o lasciar fluire? Emanuele Severino e Carlo Levi a confronto, in: «Koinè»,

Anno XVI, Petite Plaisance, Pistoia Gennaio-giugno 2009. Cfr. anche Id., Carlo Levi e

l’invenzione della verità, in: «Critica letteraria», XXXII, 125, Loffredo Editore, 2004, pp. 789-

796. La tesi centrale dei numerosi saggi di Sperduto dedicati al rapporto Severino-Levi è tesa a dimostrare l’importanza della ‘futilità’ nell’ultima opera leviana, Quaderno a cancelli, in sintonia con alcune posizioni del pensiero del filosofo bresciano. Per una lettura più approfondita della filosofia ‘futile’, si rimanda al saggio seguente: Id., Sull’utilità e sulla futilità della filosofia:

Emanuele Severino tra Spinoza e Carlo Levi, in: «Per la filosofia», XXIII, 68, Serra Editore,

Milano 2006, pp. 61-76 e a Id., Maestri futili? Gabriele d’Annunzio, Carlo Levi, Cesare Pavese,

Emanuele Severino, Aracne, Roma 2009.

97 Non si può non sottolineare il fondo crociano che sopravvive nell’estetica di Levi. 98 C. Levi, C. Levi, Il naufragio del Piloro, in Id., Le tracce della memoria, cit., pp. 38-39.

99 Guido Sacerdoti scrive a questo proposito: «Attraverso traiettorie e zigzag allucinati, che

Esemplare è Mondrian che ottiene i suoi risultati più alti quando, nella serie degli Alberi, tenta di soffocare la linea curva nel sistema geometrico e rigido del quadrato.

In fondo alle sue teorie, e perciò alla sua pittura, c’è – scrive Levi nel 1957 – una posizione ascetica di rifiuto del mondo fenomenico, considerato per sua natura un male, una approssimazione, un peccato, una servitù. […] In pittura, gli elementi puri che debbono essere liberati dall’oppressione della forma particolare sono, è noto, la linea e il colore. San Luigi, si racconta, arrossiva alla presenza di sua madre. Il diavolo è abilissimo, maestro di trasformazioni, sta nascosto in tutte le cose, e soltanto il segno della croce ce ne può difendere. È un segno semplice: un angolo retto. Anche in pittura l’angolo retto è la sola forma che il diavolo non può toccare. Molto saggiamente, Mondrian abolì la linea curva, la più materna e diabolica delle linee. Chiusi nelle sacre difese degli angoli retti, i rettangoli di colore splendono di per sé, incontaminati100.

Gli ammiratori delle tele di Mondrian giungono attraverso le sue opere alla purezza astratta cui non può che seguire il silenzio, «come all’apparizione paradisiaca ineffabile». Tuttavia, dopo una breve citazione dantesca (Par. XXXIII, vv. 100-105), in cui Dante tenta di osservare l’insostenibile bellezza dell’Eterno, elemento che anticipa in modo ancora implicito l’idea della visione di Dante come quintessenza della teoria del ritratto, Levi si chiede se si sia giunti finalmente all’«Astrazione assoluta che è insieme l’assoluta Concretezza»101. In realtà, la risposta non può essere che negativa: «Altri ha fatto questo viaggio», non di certo è possibile riscontrarlo nei «quadri “neoplastici” di Mondrian» che non raggiungono né «Dio» né «l’uomo», ma solo il «boogie-woogie di Broadway»102.

L’ostilità nei confronti della pittura contemporanea da Cezanne in avanti è radicalmente esplicitata nel testo di chiusura del saggio di Paura della libertà che viene letto a Radio Firenze dallo stesso autore la sera del 25 ottobre del 1944. «[L]a pittura contemporanea, che ha inizio con la molteplicità cezanniana, che guerra, che repellono a Levi, se non altro per la tradizione familiare di un socialismo anti- interventista. D’altra parte, l’avventura cubista di Braque e di Picasso, che rappresenta l’estrema esaltazione della linea retta e dell’ordine geometrico, ancorché mettere in crisi il vecchio universo borghese, anticipa, in pittura, secondo Levi, un ordine ferale di diversa natura. Quello, astratto e alienato, dei regimi totalitari di massa. L’ordine rettilineo delle adunate, degli edifici dell’Eur, delle periferie di Sironi, delle piazze vuote di De Chirico». G. Sacerdoti, I transeunti dei del nostro

tempo, in: Aa. Vv., Oltre la paura, a cura di G. De Donato, Roma, Donzelli Editore 2008, p. 47.

100 C. Levi, Mondrian, in Id., Coraggio dei miti, cit., p. 327. 101 Ibidem.

splende di disperata energia con Picasso, e che si spegne, caduta la sua Capitale, con il realizzarsi nei fatti dei suoi vaticinii, è stata lo specchio divinatorio della crisi del mondo e dell’uomo, l’oracolo, misterioso nella sua semplice chiarezza, di un pericolo mortale» (PL, 205). Assurto a emblema della modernità, la pittura di Picasso rappresenta il «tentativo gigantesco […] e gigantescamente impossibile, di uscire dai limiti disumani dell’astrazione, di rompere l’incanto con la violenza, per ritrovare dei limiti umani». Nella sua pittura «tutto è uno», grido chiuso in se stesso, paratassi di forme astratte, simboli di un mondo alienato, in cui il due, il numero della relazione, è soffocato dal sacro «terrore» dell’uomo per l’uomo stesso. «Picasso103 – affonda Levi –, e gli altri, hanno creato le immagini della

desolazione contemporanea, le immagini della Paura; e, senza timore del loro aspetto, ci hanno dato le forme mutevoli dei transeunti Dei del nostro tempo».

Nonostante la paura prenda il sopravvento sulla pittura contemporanea, Levi, a dimostrazione del fatto che Paura della libertà è anche un grido di speranza, chiude l’opera supponendo la nascita di un nuovo pittore che «prepara, nei quadri, l’annuncio della fine della separazione, l’amoroso sorgere di una pittura senza terrore» (PL, 209). Pare congruente con una certa forma di narcisismo quasi messianico, come ha supposto la critica, ritenere che, dopo aver denunciato e messo a nudo i meccanismi oppressivi e religiosi dell’esistenza, Levi proponga la propria pittura come modello paradigmatico di liberazione dagli idoli mostruosi della contemporaneità.

Tuttavia, al culmine della parabola discendente della civiltà occidentale, oltre a proporre se stesso, Levi disegna una figura di artista, la cui fisionomia è definita inequivocabilmente in alcune riflessioni conclusive. L’artista è colui che riesce a far convivere il pensiero con la vita, trasformandosi egli stesso in un’opera d’arte, in cui il suo agire coincide e nell’esistenza e nell’arte con la libertà:

Il senso dell’esistenza come creazione, dell’identità dell’uomo col mondo, di ogni relazione come atto d’amore, fa, di ogni segno, pittura. La libertà crea e suppone le passioni umane: la vita è come un albero turgido di succhi, ricca di una pienezza felice dove soltanto vi è posto, senza contraddizione, anche per il dolore e l’angoscia e la morte. L’individuo è opera d’arte: luogo di tutti i possibili rapporti; non ha dunque limiti se non infiniti (PL, 209).

103 Le riflessioni saranno ribadite nel 1970 in C. Levi, Riflessioni su Paura della pittura, in Id., Lo

– Capitolo 2 –