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paradigma della non-storia

2.1 L’opera e il ritratto

Pubblicato per la collana Saggi1 di Einaudi alla fine della seconda guerra mondiale, Cristo si è fermato a Eboli (1945) 2, variamente e ingiustamente ascritto

al canone neorealistico3, è nelle parole del poeta e amico Rocco Scotellaro4, «il

1 Solo nel 1975 il Cristo viene inserito nella collana Gli struzzi di Einaudi.

2 Una sintetica Rassegna della critica dei primissimi anni all’indomani della pubblicazione

dell’opera è stata approntata sempre da Gigliola De Donato. Pertanto senza soffermarsi a lungo e punto per punto sui diversi giudizi critici, se ne riporta una suddivisione schematica e bipartita. Le domande della critica ruotano intorno alla natura dell’opera, ovvero se essa «risponda alla richiesta di una cultura nuova che tagli definitivamente i ponti con le esperienze novecentesche»; o se piuttosto l’opera, proponendo «un tipo di soluzione del problema meridionale di marca conservatrice», nonostante la novità di contenuti, «non sia poi, per molti legami di stile e di atteggiamenti, riconducibile a una matrice decadente (tra D’Annunzio e Lawrence)». Questa dicotomia che rimane meno evidente nelle critiche successive al Cristo si fa più marcata con la pubblicazione de L’orologio, come verrà messo in luce nel terzo capitolo. Ai giudizi positivi di Montale, Vittore Branca, Enrico Falqui, Pietro Pancrazi, Rosario Assunto e di Giovannino Russo che, pur non risparmiando alcune critiche all’opera, ne esaltano l’originalità e la sostanziale distanza dal decadentismo italiano e europeo, si contrappongono quelli di «ispirazione marxista». Carlo Muscetta, Mario Alicata, Giuseppe Petronio e Carlo Salinari rimarcano, in particolare, il «carattere mistificatorio della scoperta leviana del mondo contadino». «[S]e per un verso – scrive sempre la De Donato – la critica marxista non poteva che utilizzare grosso modo, ai fini della battaglia per il rinnovamento della società nazionale, i contenuti dell’opera leviana, per l’altro ne rifiutava sia gli atteggiamenti, arretrati ed equivoci, per quel tanto che in essa sopravviveva di residuo decadente, sia per la “proposta” politica, per l’aristocratismo illuminista e l’utopismo radicalizzante che l’avevano suggerita». Vd. G. De Donato, Rassegna della critica, in Ead.,

Saggio su Carlo Levi, cit., pp. 219-228. Per i diversi giudizi critici vd.: E. Montale, Un pittore in esilio, in «il Mondo», 2 febbraio 1946, ora in Id., Auto da fè, Milano, Mondadori 1996, pp. 34-39;

V. Branca, Lucania magica e desolata, in «La Nazione del Popolo», 21 febbraio 1946; P. Pancrazi, Dove Cristo non è arrivato, in «La Lettura», 28 febbraio 1946; R. Assunto, L’esule in

Basilicata, in «L’Italia libera», 18 agosto 1946; G. Russo, Lucania: stupore e cose nuove, in «La

Voce», 11 settembre 1946. Vd. poi C. Muscetta, Carlo Levi in Lucania, in «La Fiera Letteraria», 14 novembre 1946, e Id., Leggenda e verità di Carlo Levi, in Id., Letteratura militante, Firenze, Parenti 1953; M. Alicata, Il meridionalismo non si può fermare a Eboli, in «Cronache meridionali», 1954, n. II, pp. 585-603. Poi in: Id., Antropologia culturale e questione meridionale, a cura di C. Pasquinelli, Firenze, La Nuova Italia 1977, pp. 175-199; G. Petroni, Cristo si è

fermato a Eboli, in «La Nuova Europa», 24 febbraio 1946.

3 Ancora valide le parole della De Donato che si contrappongono a una semplice inserzione del

romanzo nel canone neorealista: «pur nell’innegabile comunanza di interessi e di problemi, l’esperienza leviana presenta poi dei connotati propri, indicativi della sua specifica qualità di scrittore, troppo spesso genericamente incluso in un’epoca e in un orientamento letterario, di cui, al contrario, non era disposto ad accettare tutto; ad indulgere, per esempio a certa “maniera” neorealistica: al gusto per la prosa dialettale, o a certa crudezza linguistica, confusa genericamente con il realismo, e polemicamente adoperata in funzioni antiaristocratica, all’uso di procedimenti sintattici, rapidi, secchi, dialogati, mutuato dal linguaggio cinematografico». In G. De Donato,

Saggio su Carlo Levi, cit., pp. 117-118. Così anche in tempi più recenti Maria Corti scrive: «[è]

addirittura ovvia l’osservazione che Carlo Levi non fu uno scrittore neorealista». In M. Corti,

Carlo Levi, neorealismo e teoria della letteratura negli anni Ottanta, in Aa. Vv., Carlo Levi nella storia e nella cultura italiana, a cura di G. De Donato, Manduria, Piero Lacaita 1993, p. 24.

4 Per un’analisi del rapporto tra Scotellaro e Levi cfr. G. De Donato, Carlo Levi e Rocco Scotellaro

più appassionato e crudo memoriale dei nostri paesi»5. La narrazione riguarda

l’esperienza confinaria di Levi, imposta dal Tribunale di Roma a causa della sua militanza antifascista. Giunto a Grassano il 3 agosto del 1935, l’intellettuale torinese dovrebbe permanere in Lucania per tre anni. Il 18 settembre6 del 1935

viene, tuttavia, trasferito nel quasi inaccessibile paese di Aliano, chiamato nel testo, Gagliano, secondo la pronuncia orale dei suoi abitanti. Censurato nel Cristo, come la maggior parte degli elementi attinenti alla sua sfera intimo-privata, il movente dello spostamento7 della sede confinaria è rintracciabile all’interno di

una lettera inviata dal Prefetto di Matera al Ministero degli Interni il 30 agosto dello stesso anno:

la nota Paola Olivetti è giunta in Grassano il mattino del 20 corrente, prendendo alloggio in una camera, internamente comunicante, con quella del cugino Levi Carlo […] Dalla corrispondenza censurata da questo Ufficio […] risulta che tra la Olivetti e il Levi Carlo intercorre relazione amorosa. E poiché la Levi Olivetti Paola è sposata a Olivetti Ing. Adriano ritiensi inopportuno che possa venire ulteriormente autorizzata a recarsi a Grassano, e ritiensi anche opportuno l’allontanamento da Grassano del Levi Carlo, perché in quella popolazione non sembri che col consenso delle autorità i confinati nel luogo di confino possano mantenere relazioni contrarie agli indirizzi del Governo Fascista per la tutela della Famiglia. Inoltre il Comune di Grassano, per essere vicino ad importante scalo ferroviario, è il meno adatto per il soggiorno del Levi Carlo amante della straniera Vitia Gurevitch8.

Spostato ad Aliano a causa delle sue condotte sessuali considerate immorali, Levi vi rimane fino al 26 maggio del 1936, quando grazie alla vittoria in Etiopia e alla presa della capitale Addis Abeba il regime offre (il 20 maggio) ai confinati il condono della pena e l’immediata liberazione.

5 R. Scotellaro, L’uva puttanella. Contadini del Sud, Roma, Laterza 2000, p. 53.

6 Nell’opera del Cristo vi è una coincidenza parziale tra la datazione storica e quella fittizia interna

al romanzo, a partire dall’indicazione temporale posta nel primo capitolo, secondo cui Levi sarebbe giunto ad Aliano ad agosto, invece che a settembre. Per una rassegna esaustiva delle incongruenze si rimanda a D. Sperduto, Tra tempo reale e tempo fittizio: «Cristo si è fermato a

Eboli», in «Otto/Novecento», XXIII, n. 2 (maggio/agosto 1999), pp. 227-232.

7 Nell’incipit del romanzo l’autore non indulge sui motivi dello spostamento, glissandoli con la

perifrasi «per un ordine improvviso» (CSFE, p. 5); un accenno meno velato alla presenza di una donna, seppur incomprensibile senza la lettura della lettera del Prefetto, compare nel capitolo in cui don Carlo ritorna a Grassano. Il narratore a questo proposito ricorda quando Antonino giunse a salutarlo «dopo una visita furtiva» (CSFE, p. 144).

8 Carlo Levi. Documenti dal confino 1935/36, a cura di A. Manupelli, in «Basilicata», Matera,

marzo 1986, p. 11. La citazione è contenuta anche in D. Sperduto, L’imitazione dell’eterno, cit., pp. 97-98

La stesura dell’opera non è, tuttavia, immediata ma avviene dopo quasi otto anni dal termine dell’esperienza confinaria tra il dicembre 1943 e il luglio 19449,

quando i miti di Paura della libertà si concretizzano divenendo «oggetto di una precisa scoperta sul piano storico-reale»10. Ricercato a causa della sua militanza

antifascista, Levi trova riparo, a Firenze, presso la casa di Annamaria Ichino, «anonima impiegata e affittacamere», cui viene dedicata, in segno di riconoscimento per l’ospitalità, l’opera stessa. Centro dell’intellighenzia italiana, la casa dell’Ichino è occasione di incontro di importanti personalità antifasciste11

e il luogo dove prende vita il progetto del giornale, afferente al Cln toscano, de «La Nazione del Popolo»12, di cui Levi diviene condirettore e attivo articolista.

9 Falaschi solleva qualche perplessità a riguardo della veridicità delle dichiarazioni di Levi in base

alla presenza sul manoscritto di differenti datazioni. Cfr. G. Falaschi, Cristo si è fermato a Eboli di

Carlo Levi, in Aa. Vv., Letteratura italiana. Le Opere. Il Novecento, a cura di A. Asor Rosa, vol.

4, n. II, Torino, Einaudi 1996, p. 470. Sulla questione è tornata anche Gigliola De Donato che, in seguito a un attento e approfondito studio sull’autografo, scrive: «Azzardiamo qui un’ipotesi abbastanza credibile, vale a dire che le date “ufficiose” corrispondano alle annate delle agende su cui Levi aveva l’abitudine di annotare quotidianamente, non solo la dimensione, i soggetti e i titoli dei quadri che man mano dipingeva, ma anche occasionalmente quello che andava pensando, come attesta la ricca raccolta di agende che va dai lontani anni Venti fino al ‘74». In G. De Donato, Autografo, intertestualità e varianti del Cristo si è fermato a Eboli, in Ead., Le parole del

reale. Ricerche sulla prosa di Carlo Levi, cit., pp. 113-114. In tempi più recenti, anche Vitelli è

tornato sulla questione, compendiando le tesi delle Grignani e di Maria Welss che hanno chiuso definitivamente la questione: «Troppi e troppo forti sono gli elementi di diversa natura che depongono per la conferma della cronologia apposta in chiusura (“Firenze, dicembre 1943-luglio 1944”) per essere inficiati dalla presenza “accidentale” di date (tre in tutto), che possono trovare in altro modo spiegazione: dal riferimento a eventi importanti che tornano in mente – come vuole Maria Welss – al richiamo di poesie in pari data (sinora disperse) che servirono da guida e ricordo per la stesura, secondo l’ammissione dello stesso Levi. […] Le Grignani adducono anche una spiegazione strettamente filologica, ipotizzando che si tratti di “un foglio di reimpiego” in quanto appunti sul verso hanno attinenza con Paura della libertà e non con il Cristo». In F. Vitelli, Il

“proemio” del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, in «Forum Italicum», Spring 2008, p. 70.

Vd. anche M. X. Welss, Carlo Levi e la Lucania: la parola e l’immagine, e M. A. Grignani e M. C. Grignani, «Cristo si è fermato a Eboli»: il lungo silenzio del manoscritto, in C. Levi,

L’invenzione della verità. Testi e intertesti per Cristo si è fermato a Eboli, cit., pp. 160-163 e 167-

179.

10 G. De Donato e S. D’Amaro, Un torinese del Sud: Carlo Levi, cit., p. 161.

11 Così Linuccia Saba: «Nelle stanze di questa casa di fronte a Palazzo Pitti passarono tutti gli

intellettuali antifascisti che a Firenze vissero minacciati, lottando per la liberazione. I loro nomi erano Eugenio Montale, Carlo Ludovico Ragghianti, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Mario Luzi, Giorgio Settala, Manlio Cancogni, Ottavio Cecchi, Natalia Ginzburg, Willi e Arrigo Cavalieri, l’architetto Detti, Manlio Rossi Doria, Maria Luigia Guaita, Romano Bilenchi, che con Barbieri e Susini stampava “l’Unità” clandestina». Intervista di Berenice (Jolena Baldini) a Linuccia Saba, in «Paese Sera», 24 aprile 1975. Citata anche in G. De Donato e S. D’Amaro, Un torinese del Sud:

Carlo Levi, cit., pp. 158-159.

12 Sul periodo di direzione del giornale da parte di Levi cfr. F. Benfante, Carlo Levi direttore della

«Nazione del Popolo» (Firenze, 1944-45), in «Mezzosecolo: materiali di ricerca storica», n. 14

(2001/2002), pp. 247-262. Sugli anni fiorentini si rimanda sempre a F. Benfante, «Risiede sempre

Così come Paura della libertà nasceva in una condizione di esilio fisico- esistenziale sulle coste atlantiche, mentre la storia europea varcava le porte della tragedia bellica, il Cristo si origina durante la prigionia fiorentina imposta dall’occupazione tedesca. Come Levi ricorda nella lettera L’autore all’editore, premessa all’edizione del 1963,

[o]gni momento, allora, poteva essere l’ultimo, era in sé l’ultimo e il solo: non v’era posto per ornamenti, esperimenti, letteratura: ma soltanto per la verità reale, nelle cose e al di là delle cose. E per l’amore, sempre troncato e indifeso, ma tale da tenere insieme, lui solo, un mondo che, senza di esso, si sarebbe sciolto e annullato.

La casa era un rifugio: il libro una difesa attiva, che rendeva impossibile la morte. Non l’ho mai più riletto, intero, poi: del tutto obiettivato, mi è rimasto nella mente come un’immagine giovanile di pura energia, indistruttibile delle cose su cui si volge, melanconico e amoroso, il giudizio e lo sguardo (CSFE, pp. XVII-XVIII).

Come nelle precedenti esperienze carcerarie, Levi trasforma le tragiche contingenze, qui segnate dall’invasione nazi-fascista di Firenze e dall’indefessa ricerca degli ebrei, nella possibilità di un riscatto culturale e di un’attività poetico- creativa che avviene per mezzo dell’atto sublimante della scrittura. Questa, infatti, va intesa come uno strumento di «difesa attiva» nei confronti del reale, come un punto di fuga da cui svincolarsi dalla presa del presente. Nel tentativo di preservare l’io, Levi dà così adito a una de-storicizzazione del piano del presente su cui si innesta un meccanismo memoriale che sovrappone a esso il ricordo del passato, come se quest’ultimo, attraverso un atto d’amore, potesse esorcizzare la ferocia del presente, svolgendo una funzione salvifica e di redenzione.

Tuttavia, il Cristo non è in alcun modo un’opera improvvisata, poco meditata, sebbene sia stata scritta in pochi mesi e con pochi apporti correttorii, come dimostra la collazione dell’autografo con il testo a stampa. In essa si assommano esperienze multiformi e diversi tentativi di approccio al reale. È lo stesso Levi a indicarne il percorso, sempre all’interno della menzionata lettera L’autore all’editore: «Cristo si è fermato a Eboli fu dapprima esperienza, e pittura e poesia, e poi teoria e gioia di verità (con Paura della libertà), per diventare infine e

fiorentini 1941-1945, catalogo della mostra di Firenze (luglio-agosto 2003), a cura di P. Brunello e

apertamente racconto, quando una nuova analoga esperienza, come per un processo di cristallizzazione amorosa13, lo rese possibile» (CSFE, p. XIX). Nel

corso di questo lungo processo di sedimentazione, le numerose esperienze biografiche continuano, rimandandosi tra loro, a specchiarsi e ad accrescersi rispetto a quel primitivo e mitologizzato incontro. Come il confino in Lucania rappresentava il luogo in cui il pregresso sentimento leviano di non appartenenza o di rifiuto della storia ufficiale coincideva simpateticamente con il senso di esclusione dalla medesima da parte del popolo lucano, così la prigionia coatta del 1943 attiva l’esigenza di una fuga memoriale dal presente, risintonizzando circolarmente l’autore sulle frequenze di quanto vissuto nel 193514: la guerra,

l’invasione e il nascente fronte resistenziale si impastano nel tessuto narrativo con il ricordo del confino in Lucania conferendo alla narrazione, che ne sgorga, un inconfondibile sapore di vita che si dibatte con la morte. La memoria ha agito, quindi, sulla costruzione narrativa dell’opera, «operando – come scrive Massimiliano Mila – quella scelta non intenzionale che è piuttosto una decantazione spontanea e da cui dipende la dote suprema d’ogni narrazione: la naturalezza»15. Si spiega pertanto come la rappresentazione dell’esperienza

confinaria, decantata lungo otto anni e maggiormente idealizzata dalle intemperie del presente, non sia descritta in modo traumatico, come accade a Pavese16, ma

positivamente rivalutata e integrata in un sistema teorico di più ampio respiro che, dopo aver assunto una forma provvisoria nella pittura e nella poesia del confino, uniche testimoni di una sua immediata rappresentazione e avantesto poetico- pittorico dell’opera in oggetto, trova poi una sua concreta e teorica esplicitazione

13 L’importanza del processo di «cristallizzazione amorosa» trova una sua semplice, ma efficace

definizione nell’incipit di un editoriale, firmato da Levi e intitolato Cristallizzazione artificiale: «L’amore, secondo Stendhal, è un processo di “cristallizzazione”. Alla coscienza confusa, al sentimento vago, una immagine si fissa, e il mondo intero si determina in quella, isolata e unica». In «L’Italia libera», 6 ottobre 1945, s. 3, n. 239.

14 Giulio Ferroni a questo proposito sottolinea la coincidenza tra «tempo della storia e tempo del

discorso», «entrambi tempi di prigione, tempi in cui l’io è per motivi diversi chiuso in una piccolissima porzione di mondo». In G. Ferroni, Il “Cristo” libro di frontiera, in Aa. Vv., Carlo

Levi. Il tempo e la durata in “Cristo si è fermato a Eboli”, cit., p. 19.

15 M. Mila, Esplorare l’Italia, in Id., Scritti civili, Torino, Einaudi 1995, p. 15.

16 Sul confino di Pavese a Brancaleone Calabro e il mare come quarta parete di una prigione cfr. C.

Pavese, La prigione, Torino, Einaudi 1990 e D. Stazzone, Il romanzo unitario dell’infinita

in Paura della libertà e si trasforma, dapprima, in racconto orale17, e da ultimo

nell’opera che ancora oggi viene letta.

Tuttavia, traspare nelle pagine del Cristo un certo disorientamento nell’animo del protagonista allorché giunge nelle lande lucane: «Chi era – si chiede l’autore nel 1963 – dunque quell’io, che si aggirava, guardando per la prima volta le cose che sono altrove, nascosto come un germoglio sotto la scorza dell’albero, tra quelle argille deserte, nella immobilità secolare del mondo contadino, sotto l’occhio fisso della capra?». Come un «giovane ignoto e ancora da farsi», liberato dall’isolamento introspettivo ed esasperante della prigionia romana, egli deve ora confrontarsi con la realtà oggettiva del mondo, trovandosi «nell’altrove, nell’altro da sé», per poter scoprire «se stesso, fuori dello specchio dell’acque di Narciso».

Certo, l’esperienza intera che quel giovane (che forse ero io) andava facendo, gli rivelava nella realtà non soltanto un paese ignoto, ignoti linguaggi, lavori, fatiche, dolori, miserie e costumi, non soltanto animali e magia, e problemi antichi non risolti, e una potenza contro il potere, ma l’alterità presente, la infinita contemporaneità, l’esistenza come coesistenza, l’individuo come luogo di tutti i rapporti, e un mondo immobile di chiuse possibilità infinite, la nera adolescenza dei secoli pronti ad uscire e muoversi, farfalle dal bozzolo; e l’eternità individuale di questa vicenda, la Lucania che è in ciascuno di noi, forza vitale pronta a diventare forma, vita, istituzioni, in lotta con le istituzioni paterne e padrone, e, nella loro pretesa di realtà esclusiva, passate e morte (CSFE, p. XVIII).

Il Cristo, «Bildung retroversa»18 nel mondo ipostorico della Lucania, come

sostiene Giuseppe Bonifacino, svela il volto liberatorio di due adolescenze distinte che maturano con pari energia19: quella dell’esiliato, da una parte, che, dopo

essersi specchiato nell’abisso dell’indistinzione e nel mondo degli «uomini nuovi», giunge (per contrasto) a una nuova definizione della propria identità; e quella dei lucani che, secondo l’autore del Cristo, in seguito a secoli di vessazioni e soprusi, si affacciavano allora per la prima volta alla Storia: «Così – scrive Levi,

17 È nota la frequenza con cui Levi intratteneva gli amici, raccontando gli episodi principali del

Cristo, poi realmente confluiti in seguito nell’opera. Cfr. C. Muscetta, Leggenda e verità di Carlo Levi, in Id., Letteratura militante, Napoli, Liguori 2007, p. 82.

18 G. Bonifacino, scrittura come utopia. In margine al Cristo di Levi, in «Quaderni di didattica

della scrittura», 1/2013, gennaio-giugno, p. 29.

19 Così commenta la De Donato: «La stessa giovinezza, tesa in un impulso di straordinaria energia,

tutta lume e intelligenza, che egli vede rifulgere nell’immagine del suo amico e maestro Piero Gobetti, vero antesignano di quel processo di formazione». In G. De Donato, Le parole del reale.

parlando di se stesso – egli si trovò a essere adolescente con un mondo adolescente e ineffabile, e giovane con un mondo giovanile di drammatica e pericolante liberazione, e adulto col farsi adulto di quel mondo, in tutti gli esseri fraterni di tutte le Lucanie di ogni angolo della terra» (CSFE, p. XIX). L’identificazione del percorso esperienziale del soggetto esperiente e dell’oggetto esperito20, accomunati dal medesimo rifiuto per la storia ufficiale, impone almeno

due ordini di riflessioni tra loro strettamente connessi21.

Innanzitutto, l’incontro con la Lucania costringe il confinato alla rottura del circolo narcisistico «come un Narciso cioè – specifica la Galvagno – che si è dovuto confrontare con lo spazio malinconico e desertico dell’al di là della superficie risplendente dello specchio»22. In termini psicanalitici, dunque, la

fuoriuscita del soggetto dalla fase di auto-contemplazione, rivolta a una primaria costruzione dell’identità, dà adito a un investimento oggettuale che, in Levi, si concretizza in una dinamica relazionale in cui il «se stesso», teorizzato ne I ritratti, dopo essere venuto in contatto con l’oggettività arida delle terre lucane, riconosce in esse un fattore di profonda comunanza. Riconosce cioè in quelle terre desolate e umiliate dal dolore l’infanzia del mondo, chiuso in una dimensione archetipica su cui predomina una materna vitalità primigenia, che, così come ha

20 Lo stesso incontro, letto in particolare in una prospettiva antropologica, è stato intravisto da

Maria Antonietta Grignani all’interno delle poesie del confino: «Le poesie di Levi danno ragione