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1.4 Le muse della pittura

1.4.1 La «svolta» e I ritratt

La componente libertaria della pittura di Levi, in un primo momento identificata con il genere del ritratto, assume una dimensione più eloquente, allorquando il pittore, dopo essere venuto in contatto con la corrente espressionista di istanza a Parigi, inaugura un nuovo tipo di rapporto con il reale,

26 Cfr. i tre articoli di L. Venturi, Polemica con Ugo Ojetti, in «L’Arte», gennaio/marzo/luglio

1930. Ora in Id., Arte moderna, Roma, Bocca 1956, pp. 85-102.

27 Si veda a questo proposito quanto scrive Gennaro Sasso in relazione all’estetica crociana: G.

Sasso, L’«Estetica» di Benedetto Croce, in Aa. Vv., Il Novecento. 1. L’età della crisi, vol. 4, Torino, Einaudi 1995, p. 7.

28 Questo appare chiaro allorché, a più di trent’anni di distanza dall’esperienza torinese, Levi

ritorna sulle motivazioni di quella pittura che la critica Vivarelli ha definito dal «tono intimista e sottilmente lirico», e rivendica il ruolo, all’insegna degli insegnamenti di Gobetti, di opposizione alla «servitù» e al «conformismo, nell’affermazione della libertà come una realtà da creare e conquistare in tutti i suoi momenti, e i suoi modi, anche in quello del linguaggio pittorico». L’esperienza dei Sei viene così riletta all’interno dell’esigenza comune di riaffermare il principio di autonomia culturale e libertà «in opposizione contro i falsi miti novecenteschi, gli arcaismi, i populismi totalitari, le mistificazioni moderne della retorica e dell’accademia e dell’attivismo e vitalismo futurista». Le citazioni sono tratte da C. Levi, Lo specchio, cit., pp. XIII e 101.

che supera i toni intimistico-lirici della fase idealista di marca crociano- venturiana. Se, infatti, nel periodo compreso tra il 1928 e il 1930 Levi predilige «la purezza – come scrive la Vivarelli – della linea di Modigliani, l'eleganza e la chiarezza della gamma cromatica del postimpressionismo, l'attenzione alle tessiture decorative delle tele di Matisse»29 [Figg. 5-6], a partire dal 1930 accentua il «valore espressivo del colore, con una scelta che matura – ricorda sempre la Vivarelli – a Parigi a contatto con i dipinti, ad esempio, di Van Gogh, Soutine e Bonnard, ma che si rinforza con la conoscenza della pittura di Scipione, Raphaël e Mafai»30_ [Fig. 7].

La novità della pittura leviana31, sottolineata nell'introduzione alla mostra

londinese del 1930 dallo stesso Venturi (che cercando un fattore di denominazione comune32_ a Menzio e a Paulucci la definisce come «un'energia

polemica e drammatica, che sempre più si spiritualizza»33) si sostanzia nella definizione contenuta in una lettera di Menzio allo stesso pittore. In essa si accenna, grazie a una maggiore consapevolezza rispetto allo stesso Levi, a una «teoria del deforme»34, secondo cui nelle tele del pittore torinese si registrebbe un nuovo rapporto con il reale che aprirebbe «il varco – secondo la Vivarelli – alla deformazione e all'assurdo»35_[Fig. 8]. Il reale non è più rappresentato, ora,

secondo un sereno, intimo e idealistico colloquio tra il pittore e le cose, ma con strumenti che provengono dall'espressionismo europeo 36 e dalle recenti

29 P. Vivarelli, Carlo Levi pittore, in Carlo Levi a Matera: 199 dipinti e una scultura, a cura di P.

Venturoli, catalogo della mostra tenuta a Matera nel 2005, Roma, Donzelli 2005, p. 35.

30 P. Vivarelli, Introduzione, in C. Levi, Lo specchio, cit., p. XIII.

31 È lo stesso Ragghianti, uno dei più acuti interpreti della pittura di Levi, a scorgere tra la

produzione del 1930 e del 1931 l’inizio della sua maturità artistica: «La prima e chiara maturità dei suoi mezzi sembra dunque sia stata raggiunta da Levi nel 1930-31. Una maturità ancor piena di trasporti, di ineguaglianze, di veemenze, di indiscipline, se si vuole; ma comunque la identificazione di alcune condizioni più autentiche e individuate dell’espressione, come la pennellata, l’impasto, la selezione cromatica, soprattutto quell’assorbimento dinamico del moto dei piani e delle forme nella stessa vorticosa o fiammante stesura pittorica, che è una delle caratteristiche più personali della sua arte anche ulteriore». In C. L. Ragghianti, Carlo Levi, cit., p. 22.

32 Così anche P. Vivarelli, Il gruppo dei Sei di Torino, in Aa. Vv., Lionello Venturi e la pittura a

Torino 1919-1931, cit., p. 185

33 L. Venturi, Introduzione, in I Sei pittori di Torino 1929-1931, a cura di M. Bandini, catalogo

della mostra di Torino, Milano, Fabbri 1993, p. 197.

34 Lettera, datata 30 ottobre 1930, di F. Menzio a C. Levi, in I Sei pittori di Torino 1929-1931, cit.,

p. 219.

35 P. Vivarelli, Introduzione, in C. Levi, Lo specchio, cit., p. XIII.

36 «Levi, a metà del 1930, sembra – rivela Mario De Micheli – investito da una rivelazione

improvvisa che sconvolge la sua pittura dal profondo. In lui esplode cioè la singolare componente dell’espressionismo ebraico, che aveva in Soutine il proprio vertice e quindi la foga di Kokoschka. Quadri come Il signore del 1930, Il fratello, L’eroe cinese del 1931, il ritratto di Alberto Moravia

acquisizioni nell'ambito della psicanalisi e dell'antropologia. Come dimostra il Ritratto di Leone Ginzburg (Fig. 9), l'uso espressivo del «colore a macchia di leopardo»37_ e la pennellata «ondosa»38, così definita dallo stesso Levi, colgono le

figure nella loro drammatica e ancestrale origine, in cui il soggetto si confonde, ma al contempo si separa dall'ambiente circostante, come se tentasse di fuoriuscire dal caos primordiale per divenire forma in divenire, punto di equilibrio tra ciò che è differenziato e ciò che è indifferenziato. In un appunto del 1933 contenuto in un taccuino ancora inedito, Levi conferma questa prospettiva chiamando in causa gli archetipi junghiani: «Con gli archetipi di Jung si spiega il carattere fortemente emotivo delle forme più indeterminate, e il significato di quanto c’è di caos indifferenziato nella mia pittura. Forse anche la sensualità?»39.

L’appunto conferma la nuova dimensione della pittura di Levi che si avvale ora di rinnovati strumenti interpretativi, non solo strettamente tecnici, ma che afferiscono a quel panorama culturale europeo precedentemente oggetto dell’analisi.

La svolta della pittura leviana investe anche la dimensione teorica che trova una prima e compiuta formulazione nelle lettere40 ai famigliari, durante la doppia carcerazione a Torino e a Roma (primavera 1934 e 1935), e nel Quaderno di prigione41, scritto nel 1935 e portato a termine a distanza di anni nel 1968. Le lettere provenienti dall’esperienza carceraria attestano, innanzitutto, il senso di isolamento percepito dall’artista che, costretto dinnanzi alla bianchezza dei muri della prigione, cade vittima di una sospensione della normale percezione spazio- temporale. «Questi muri bianchi – scrive Levi alla madre in una lettera datata 17 aprile 1934 –, questo silenzio interrotto soltanto da rumori lontani e smorzati, o e la Figura retorica del 1932 sono infatti già completamente estranei al clima dei Sei. In essi, il problema dell’uomo è colto alla radice, la pittura si fa ardente. Inquietudine, struggimento, protesta: ecco ciò che si legge in queste tele. Con tali opere la sua opposizione alla cultura ufficiale e all’ideologia fascista si faceva ormai rovente, tendeva a uscire dalla sua timidezza e a cercare i motivi di un impegno più preciso». In M. De Micheli, L’arte sotto le dittature, Milano, Feltrinelli 2000, p. 84.

37 P. Vivarelli, Carlo Levi pittore, in Carlo Levi a Matera: 199 dipinti e una scultura, cit., p. 36. 38 C. Levi, I ritratti, cit., p. 13.

39 L’agenda è custodita presso il Fondo Carlo Levi di Alassio: FCL, AG 1933 A: Agenda 1933, I

quadrimestre, 18 gennaio.

40 Le lettere sono contenute in C. Levi, È questo il “carcer tetro”? Lettere dal carcere 1934-1935,

cit.

41 La prima notizia dell’esistenza del Quaderno di prigione si ricava da una lettera alla madre e ai

fratelli datata 19 luglio 1935, in cui si legge: «Ho poi il mio quaderno verde, e vado scrivendo il mio libro, molto lentamente a dir vero, perché il non potersi muovere non agevola neppure le cose che si dovrebbero fare stando fermi; ma, mi pare, finora non male». In ivi, p. 129.

dal passo lento di una guardia, questa luce intensa e uniforme fanno pensare a un continuo pomeriggio d’estate, in un addormentato paese di campagna, dalle strade deserte sotto il sole»42.. La descrizione, che sembra anticipare molti quadri di paesaggio di Aliano, trasforma la prigione in un «luogo-non luogo», in un «tempo-non tempo»43_ dove l’impossibilità della vista impone una forma di compensazione fantastica.

A vedermi porgere premurosamente i cibi e le cose necessarie, e curare ogni particolare materiale della vita, mi fa l’impressione di essere in infanzia: e qualche volta, se, la sera, sento da qualche lontana cella giungere un rumore di tosse o di sospiri, non posso fare a meno di ricordarmi quando ero bambino e, la notte, tendevo l’orecchio ad ascoltare i suoni familiari che venivano dalla camera di papà. Se avessi carta, penna e calamaio (e l’ingegno di Proust) questi vaghi rumori mi richiamerebbero sulla strada del tempo perduto almeno altrettanto bene che quel suo famoso biscottino44.

L’anonimità del luogo e del tempo che intensifica il ricorso alla fantasia e all’attività mnestica richiama, passando attraverso i modelli letterari di Proust e di Leopardi, qui evocato dall’aggettivo “vago”, il tempo dell’infanzia che, per mezzo di una percezione acustica, definita familiare, ritorna nel chiuso biancore della cella. La prigione assurge così a luogo deputato al ricordo in cui l’assenza di una stimolazione esterna e l’impossibilità alla pittura ingenerano in Levi l’esigenza di una seria riflessione sul proprio modo di fare pittura e sul suo necessario legame con l’infanzia. Da questa condizione esistenziale origina il Quaderno di prigione, scritto «in caratteri microscopici […] sulla carta rara e preziosa di un quaderno» che vorrebbe evocare «tutto ciò che mi era stato, e mi sarebbe stato per chissà quanto tempo di giorni o di anni, negato e sottratto: le cose reali, i corpi, gli oggetti, la storia, le vicende, le relazioni, i mutamenti, le passioni, i pensieri: tutto

42 Ivi, p. 57. Marzo del 1934 è datata una poesia scritta in carcere in cui l’io lirico riesce ancora a

sottrarsi all’oppressione della prigione, qui personificata: «Prigione, sento camminare / sul mio capo qualcuno / batter ferri, cigolare / porte ignote. Ma tu non mi hai ancor preso: / mia vita sono le note / le forme, e il cielo, sorpreso / di vedermi chiuso. Ore passano, sono altrove / dove non mi porta l’uso / degli affetti. Estranee prove / fan gli uomini stanchi. / Acqua, sveglia, carta, pane, / polvere, muri bianchi; / l’oggi è l’ieri, e la dimane / arida solitudine». In C. Levi, Poesie, a cura di S. Ghiazza, prefazione di G. Sacerdoti, Roma, Donzelli Editore 2008, p. 8.

43 Ivi, p. 54. I versi di questa poesia sono un nucleo germinale di moltissime riflessioni leviane.

Non a caso, essi tornano in quasi tutte le opere di Levi per indicare quei luoghi in cui il tempo abbandona la propria veste teleologica e si trasforma in un attimo eterno e immanente. Così verrà descritta la Lucania, una parte di Roma e di Napoli della metà degli anni Quaranta e, persino, il luogo della Futilità nell’ultima opera postuma, Quaderno a cancelli.

il mondo di fuori»45.

L’esperienza della prigionia, secondo quanto riportato in una lettera, datata 31 maggio del 1935, di pochi mesi precedente al confino, porterebbe l’artista a «una pittura condensata e allucinata e infiammata, come quella del Greco o di Van Gogh»46. A differenza della fine del primo periodo carcerario del 1934, in cui i segni della prigionia potevano essere riscontrati «in una certa nobile e distaccata aridezza in una difficoltà di aderenza agli oggetti che li rendeva perciò ancor più oggettivi e distinti», Levi prevede, come poi avverrà, che la pittura successiva al carcere «sarà invece tutto l’opposto». Sarà ovvero caratterizzata, in primis, da un rapporto tra il soggetto e il reale che chiama in causa la dimensione della memoria, nella misura in cui essa venga intesa come frammento mnestico, archetipico e sacro, condizioni senza le quali non si dà opera d’arte; e, in secondo luogo, la nuova arte leviana sarà contraddistinta da una indistinzione, presente già in alcuni suoi quadri risalenti agli inizi del Trenta, tra le figure e lo sfondo, come se la realtà non potesse essere oggettivata in modo netto e definito, ma colta nel suo drammatico47_ nascere e farsi.

Isolato dagli uomini mi volgo alle immagini, richiamo i ricordi di un passato che pare pieno di luce come a trovarvi una prova della vita, una certezza oggettiva che nulla nel presente mi potrebbe fornire. Ma posso realmente parlare di un passato, di un presente, di un futuro? Tutto è qui ristretto in un punto: sono rotte le leggi e l’idea stessa del tempo […] A qualunque oggetto mi volga, mi si palesa senza corpo; le cose stanno là, una vicina all’altra, in una pallida contemporaneità. Ripensare ad esse, è come accingersi, senza ramo d’oro48, a un viaggio nei paesi grigi dei trapassati: dove non è mai giorno né notte, ma un eterno crepuscolo, e non v’è spazio reale […] Mi pare altra volta che la prigione fosse quasi un ritorno

45 C. Levi, I ritratti, cit., p. 12.

46 È di rilievo in relazione a questo tipo di pittura un’affermazione scritta poche righe dopo quella

citata, in cui Levi disdegna la lettura del Paradiso di Dante: «Non mi disgusta affatto leggere l’Inferno e il Purgatorio, e non mi attrae particolarmente il Paradiso», come se rinnegasse la perfezione della composizione e della struttura del viaggio finale a favore della maggiore carica espressionistica rinvenibile nelle prime due cantiche. In C. Levi, È questo il “carcer tetro”?

Lettere dal carcere 1934-1935, cit., p. 93.

47 Il carattere drammatico della pittura degli anni Trenta è ribadito dallo stesso Levi che, nella

lettera alla madre del 17 giugno 1935, scrive: « È vero che quello che caratterizza quest’ultimo periodo è una visione più alta e serena, più complessa di quella essenzialmente drammatica dei quadri del 1933. Ma a ma pare che quei quadri del 1933 fossero più decisamente concepiti, e, forse anche per la loro maggiore semplicità, privi di contraddizioni e di elementi estranei; e che quel carattere drammatico che da loro era passato in quadri più recenti, non fosse poi in questi ultimi sempre pienamente risolto in modo nuovo: vale a dire che i miei quadri del ’34 mi paiono in gran parte rappresentare un periodo intermediario tra due momenti particolarmente felici: quello del ’33 e quello che dovrebbe essere oggi». In ivi, p. 109.

48 Il richiamo va alla lettura del testo dell’antropologo J. G. Frazer, Il ramo d’oro. Storia del

all’infanzia […] Ma può dirsi che vi sono tutti i segni della vecchiezza […] Pure vi si può trovare il mondo della giovinezza: dello spirito che è ancora tutto potenza, e non può sopportare alcuna determinazione, che sta tutto in sé e fugge dalle cose […] Se nulla mi è dato, io debbo dare tutto, ricostruire, cavandoli di dentro a me, i termini e le distinzioni, e, senza mattoni e senza calce, riedificare la città, e, riedificata, operosamente abitarla. Da dove, se non dalla memoria, potrò trarre i materiali necessari?49

Se dunque nelle lettere la memoria, intesa come vago e famigliare ricordo d’infanzia, richiama più direttamente Proust e Leopardi, ne I ritratti diviene esplicito il nesso tra la memoria individuale e quella collettiva, secondo un’impostazione teorica che vede di nuovo in Jung e in Vico i propri modelli di riferimento. Il titolo, I ritratti, allude innanzitutto al lascito del magistero di Venturi e all’esperienza dei Sei che hanno trasformato il genere ritrattistico in un modello paradigmatico di opposizione al regime culturale fascista e, inoltre, esplicita l’intenzione dell’autore di inserirsi nella vexata quaestio, centrale a partire dal Rinascimento italiano, sul rapporto tra il pittore e il soggetto della raffigurazione:

Si usa dire – scrive Levi – che le figure dipinte non soltanto, come è naturale, rispecchiano lo stile, la forma, il gusto, il carattere del pittore, ma che gli assomigliano, come se egli andasse negli altri ricercando e rintracciando se stesso, e di se stesso proprio le fattezze, l’ovale del volto, il taglio degli occhi, o il sorriso, o la piega della bocca, o la dolcezza o la forza dell’espressione, e così via. E la cosa par vera, e documentabile con numerosissimi esempi, soprattutto negli artisti maggiori, come Raffaello o Leonardo, o Michelangelo, o Tiziano, o Caravaggio, e tutti, o quasi tutti, gli altri50.

L’imitazione di una figura si tramuta, per mezzo di una proiezione del sé nell’altro, in una auto-imitazione, come se «la mimesi scivolasse necessariamente nell’automimesi»51. Ma il «se stesso» che il pittore ricerca nell’atto della raffigurazione dell’altro «[n]on è certo il se stesso di quel particolare momento, il suo naso, il suo orecchio, la sua mano […] E neppure quello che rimane, presenza necessaria, del vagheggiamento di sé, di un idolo narcisistico nel lago delle forme, anche se questa permanenza adolescente sia tutt’uno con la possibilità stessa dell’arte»52. Non riconducibile a un elemento fisico determinato e neppure all’immagine narcissica e adolescenziale del sé dinnanzi allo specchio («nel lago

49 Il testo è stato pubblicato sul numero di «Galleria», dedicato nel 1967 a Levi, pp. 103-104.

Tuttavia, la citazione proviene da G. De Donato e S. D’Amaro, Un torinese del Sud: Carlo Levi, cit., pp. 116-117.

50 C. Levi, I ritratti, cit., p. 9.

51 D. Stazzone, Il romanzo unitario dell’infinita molteplicità, cit., p. 22. 52 C. Levi, I ritratti, cit., p. 9.

delle forme»), la forma ricercata dal pittore si spiega ciononostante per mezzo della figura mitica del giovane Narciso. La distinzione, qui operata e che Stazzone associa all’imago freudiana53, implica che il rispecchiamento di sé nell’acqua, seppur necessario «all’evoluzione psichica del soggetto»54_nella fase della sua

costruzione identitaria, non debba fermarsi all’«amore di sè», bensì è necessario si evolva dopo la «scoperta prima dell’immagine» verso una sua successiva «distinzione dalle acque caotiche e dal nero-verde informe della selva»55. Nonostante il rispecchiamento non debba essere fine a se stesso a causa del pericolo, cui l’uomo incorre, di permanere nel «fluire dell’indifferenziato» (PL, 134) – si noti che la dialettica di “azione”, “fluire” e “avvenimento”, che verrà sviluppata in Paura della libertà, è già qui ampiamente abbozzata – esso costituisce la dinamica attraverso cui l’uomo, dopo aver preso consapevolezza del sé, si avvia verso una forma matura di apertura nei confronti dell’alterità:

Se la prima immagine è quella di sé come altro, il ritratto è l’immagine dell’altro come se stesso, cioè come quella prima immagine fondamentale che è la capacità e la possibilità stessa dell’immagine, che è se stesso come l’altro.

Questo Narciso rovesciato, che ripropone e ritrova quel suo archetipo, quella sua forma prima, in tutte le infinite cose, e vi si rispecchia per dimenticarsi di sé e per comprendersi, deve essere capace di intenderle tutte, di trovare in tutte una precedente esperienza comune, che le colleghi e le unisca, e le faccia reali non per l’amore di sé, ma per l’amore della propria somiglianza56.

Il «se stesso» origina da una primitiva immagine speculare che proietta il sé nell’alterità e definisce per via contrastiva i contorni del soggetto stesso che

53 D. Stazzone, Il romanzo unitario dell’infinita molteplicità, cit., p. 23. 54 Ibidem.

55 In una delle sue prime occorrenze negli scritti teorici di Levi, il termine “selva” simboleggia,

attraverso

una terminologia vichiana, il caos indifferenziato evocato nell’appunto su Jung del 1933.

È evidente che quanto il critico Tagliapietra osserva nelle teorie dedicate alla figura di Narciso possa valere anche per Levi: «Il cardine attorno cui ruotano tutte le varianti del mito è la messa in questione complessiva del rapporto Stesso/Altro […] Anzi, ci sembra particolarmente rilevante che proprio da questo mito, che, in sostanza, non fa che attestare il fallimento del rapporto con l’Altro e la conseguente incapacità di pervenire a qualsiasi “oggetto” – quindi anche alla meta dell’identità con sé – il pensiero occidentale, fino alle recenti prove della moderna psicologia, abbia cercato di attingere i materiali necessari per la costruzione del complesso edificio dell’io. Un edificio che sorge sulle fondamenta di una doppia illusione: l’illusione di Narciso nei riguardi del suo corpo isolato e autosufficiente, l’illusione di Narciso nei confronti della sua immagine riflessa e scambiata per l’Altro». In A. Tagliapietra, La metafora dello specchio. Lineamenti per una

storia simbolica, Milano Feltrinelli 1991, p. 51.

guarda e si vede guardare57. «L’io – scrive J. -P. Richard, citato da Valerio Magrelli – utilizza il proprio riflesso come una mediazione che gli permetterà di fondare se stesso»58. Attraverso il «Narciso rovesciato», che si contempla eteroscopicamente, il soggetto perviene a una provvisoria forma di autocoscienza, che va tuttavia costantemente ri-negoziata e ri-definita. E questo avviene per mezzo di quella «forma» o «archetipo» che è punto di raccordo dell’«esperienza