• Non ci sono risultati.

1.3 Sacrificio e rituale: la religione come schiavitù dell’individuo e della massa

1.3.2 Lo stato e la massa

L’opera di Vico, che si innerva nella reticolata trama del saggio di Levi, costituisce il motivo principale per cui il suo pensiero filosofico non può essere definito in toto irrazionale. Nonostante le sue riflessioni discendano in parte, sia per consonanza dei tempi che per sensibilità, da una certa visione che, ergendosi su un fondo pessimistico e irrazionale, caratterizzava la cultura europea tra le due guerre, Levi oppone alla cosiddetta «cultura della crisi» la “funzione Vico” che funge da antidoto o repellente nei confronti delle punte di quella cultura irrazionalistica e misticheggiante. Vico, dunque, preserva il pensiero di Levi dalla tentazione di sprofondare in una concezione irrazionalistica e nichilistica dell’esistenza, come può anche essere dedotto dalla interpretazione razionale del mito che non è accostabile a quella, dalle tonalità fosche, buie e irrazionali, del

64 «L’espressione primitiva, – scrive Levi – quella del mondo immediatamente nato dalla caduta

dell’impero e del latino, è, come abbiamo intravisto, intrisa di religiosità. La sua sintassi è perciò paratattica, cioè ogni parola, ogni immagine è chiusa in sé, completa, senza relazioni, e ha perciò un valore identico ad ogni altra. Le immagini, che sono tutte ugualmente simboliche, stanno una vicina all’altra, senza legami di implicazione o relazioni di differenza: il discorso è un mosaico. L’accento cade su tutte le parole; tutte sono su uno stesso piano: non può esistere prospettiva. Di più, mancano un rapporto sintattico la singola parola deve esaurire in sé l’intero concetto: perciò le riflessioni sono abbondanti e complicate (duale, futuri terzi, ecc.)» (PL, 169).

pensiero di Pavese65. La critica Chiara Bauzulli, in particolare, ha di recente messo in evidenza che le riflessioni leviane possono essere divise in una posizione gobettiana, risalente al periodo compreso tra gli anni Venti e la prima metà degli anni Trenta, e in un «orientamento di tipo latu sensu anti-razionalista»66 , databile tra la seconda metà degli anni Trenta e gli anni Quaranta. Nella parabola enucleata dalla critica, al «Levi illuminista» subentrerebbe, in un secondo momento, il disincanto nei confronti del progresso e di una concezione razionale dell’esistenza. Tuttavia, sottolinea sempre la studiosa, non è possibile al contempo scorgere in lui «un atteggiamento anti-storico e irrazionalistico. Una siffatta critica viene mossa (non sorprendentemente) dalla critica militante: Falaschi67, non

diversamente da Alicata e Muscetta, vede in Levi “il tipico intellettuale borghese che parla di moralità invece che di economia [con] lo stile oscuro e il tono profetico” propri del pensiero irrazionalistico»68. Sebbene la posizione della Bauzulli non possa essere accolta pienamente, dato che nel saggio di Levi i concetti di autonomia e libertà sono sempre ascrivibili all’«aura gobettiana» che non verrà mai meno nella produzione degli anni Trenta e Quaranta, si può concordare con l’idea di una coesistenza dell’elemento razionale e di quello irrazionale, la cui ambiguità si riflette anche nella forma del testo. La prosa metaforica, ellittica e dal tono profetico e sacrale della Bibbia69 è, infatti, associata a un contenuto che, nel complesso, può definirsi razionale e rigoroso nella sua strutturazione logica. Se l’impostazione metodologica razionalizzante del saggio è l’eredità più viva del colloquio che Levi intrattiene con Vico e Gobetti, quella irrazionale consegue dalla sua parziale partecipazione alla «cultura della crisi». Questa posizione intermedia tra razionalismo e irrazionalismo viene rispecchiata anche dall’equidistanza del suo pensiero rispetto alle due correnti interne alla letteratura della crisi. Levi non abbraccia, come specifica la Bauzulli, né il pensiero di coloro che, al pari di Spengler, Jaspers e Heidegger, intravedono il fattore della decadenza socio-culturale nel predominio del pensiero razionale, né

65 Si veda in particolare l’opera di Furio Jesi, Letteratura e mito, Torino, Einaudi 2002. E di

Pavese in particolare Del mito, del simbolo ed altro, in Id., Feria d’agosto, Torino, Einaudi 2007.

66 C. Bauzulli, Carlo Levi filosofo, cit., p. 54.

67 Falaschi, in riferimento a ciò, scrive: «Paura ha come centro d’indagine “l’animo stesso

dell’uomo”, si fonda su proposizioni di una filosofia irrazionalistica e metafisica». In G. Falaschi,

Carlo Levi, cit., p. 9.

68 C. Bauzulli, Carlo Levi filosofo, cit., p. 85.

69 Così anche Faleschini Lerner: «written in a Biblical style». In G. Faleschini Lerner, Carlo Levi’s

viceversa quello di chi, come Freud, Mannheim o Weber, legge nell’oscuramento del pensiero razionale il motivo di crisi della cultura europea70.

Gli anni tra le due guerre rappresentano per l’Europa il culmine della concezione illuministica del progresso sempre tendente al miglioramento civile e morale dell’individuo71, cui si contrappongono invece «un andamento ciclico nello sviluppo delle civiltà, una serie di morti e rinascite che periodicamente si ripetevano»72. L’approdo a Vico dunque non è casuale, ma dettato dalla necessità del tempo di aderire a un nuovo modello di storia73 e di combattere il mondo sacro e mitologico dei nazi-fascismi con una rilettura di quegli stessi elementi al fine di veicolare, tuttavia, le forze sotterranee verso un approdo differente da quello di sangue e morte, da loro inaugurato e promosso. Questa posizione, innovativa rispetto al retroterra culturale di matrice gobettiana, è una delle possibili risposte, intraviste anche da altri pensatori, come i già citati Bataille, Pierre Klossowski e Callois, alla crisi delle liberaldemocrazie. Al pari di quanto denuncia Bataille nel saggio La structure psychologique du fascisme74, datato 1933 e già indicato da D. Bidussa75 come uno dei possibili testi di riferimento di Paura della libertà, Levi rielabora l’idea che il sacro sia il presupposto del potere e che i due siano

70 C. Bauzulli, Carlo Levi filosofo, cit., p. 104. La letteratura della crisi è molto ampia e ai nomi

proposti potrebbero esserne aggiunti molti altri, come quelli di Mann, Valery, Schweitzer, Berdjaev, Musil ed Evola. Nonostante sia difficile ricostruire con certezza tutti i legami che Levi ebbe con quella cultura, è dimostrato che essa influenzi radicalmente la sua opera e lo spinga a tenerne conto in modo non secondario.

71 È in particolare Huizinga nella sua celebre opera, Crisi della civiltà, edita in Italia nel 1935 e

letta molto probabilmente da Levi prima della stesura di Paura della libertà, come sottolinea la maggior parte dei commentatori, a evidenziare con forza che «solo il superficiale ottimismo dei nostri antenati del secolo XVIII e XIX riuscì a confondere la fiducia nel “più grande e più buono” col concetto puramente geometrico del procedere innanzi. […] Non è affatto paradossale affermare che una civiltà, con un “progresso” realissimo e innegabile, potrebbe arrivare alla sua rovina». In J. Huizinga, Crisi della civiltà, Milano, Pgreco 2012, p. 23.

72 M. Nacci, Tecnica e cultura della crisi (1914-1939), Torino, Loescher 1982, p. 13.

73 Levi desume da Spengler, oltre alla già analizzata opposizione tra “civilizzazione” e “civiltà”,

«la critica dell’evoluzionismo lineare e dei disegni progressistici di sviluppo dell’umanità, la sostituzione di questi con una concezione ciclica della storia che vedeva espansioni, crolli e rinascite delle civiltà […] Spengler […] significava guardare alle civiltà come a organismi naturali che decadono quando divengono meccanismi artificiali; significava non nutrire nessuna speranza sul futuro dell’Occidente, ritenere che esso fossi già entrato in un’epoca di “civiltà” caratterizzata dal prevalere dello Stato sugli individui, dal dominio della tecnica, della politica, della grande città, del denaro, della borghesia, dello spirito analitico, del razionalismo». In M. Nacci, Tecnica e

cultura della crisi (1914-1939), cit., pp. 45-46.

74 G. Bataille, Scritti sul fascismo 1933-34. Contro Heidegger. La struttura psicologica del

fascismo, cit., pp. 20-25.

75 «Le influenze – scrive Bidussa –, o almeno le suggestioni che Carlo Levi deposita nelle sue note

di finis terrae, andranno individuate anche altrove e forse non impropriamente in quell’ambiente al margine del surrealismo che si muove intorno a Georges Bataille e che fin dal 1933 propone una riflessione sullo Stato e sulla sacralità e che dà particolare rilievo alla dimensione del sacrificio nel vissuto della politica». In D. Bidussa, Prima di Eboli, cit., p. XXX.

inestricabilmente interdipendenti. Vicino dunque alle posizioni di quegli intellettuali, perlopiù di origini francesi, che gravitavano attorno alle riviste di «Acephale»76, le «Minotaure»77 e al Collegio di Sociologia, l’autore di Paura della libertà intreccia la politica e il sacro fin a partire dal concetto di religione, intesa come strumento politico di regolazione degli uomini, in sintonia anche con la posizione vichiana, espressa dalla vicinanza etimologica, già citata, di ius e Ious78. «È dalla loro congiunzione – scrive Esposito a proposito di Vico – che origina quella figura decisiva dell’auctoritas senza il cui impulso ordinativo “la società umana non può reggere nemmeno un momento”»79. Nella società di quegli anni, secondo l’analisi di Bataille lette da Esposito, l’impulso regolativo era stato surclassato dalla «disgregazione atomistica […] imperativamente ricomposta nella brutale repressione militare» dei totalitarismi che ricorrono al sacro per creare «un movimento controfattuale che ha al proprio esito esattamente quell’omologazione di massa in chiave totalitaria»80. Per quanto gli sforzi teorici di Levi siano maggiormente indirizzati, come si vedrà a breve, verso l’analisi del modello di Stato nazi-fascista, non di meno si scorge in Paura della libertà una netta presa di distanza anche dal modello di Stato americano-occidentale, contraddistinto proprio da una disgregazione atomistica degli individui. La spiegazione delle due polarità può essere riassunta attraverso uno schema contenuto nell’autografo del testo. In uno dei margini bianchi delle pagine dedicate al capitolo Massa, l’autore riporta: «Massa infinita | Stato – Religione | Individuo astratto Finitezza assoluta»81. Lo specchietto costituisce una efficace rappresentazione visiva di tutta la rielaborazione, attuata da Levi, dei temi legati all’individuo e alla società. Se lo Stato identificato con la religione, e quindi al suo legame con il sacro, è il perno attorno a cui ruota l’intera organizzazione sociale, ai due poli, dialetticamente opposti, si situano la massa informe e il suo contrario l’individuo astratto, che

76 Gli articoli della rivista sono ora contenuti in G. Bataille, La congiura sacra, cit..

77 La copia anastatica della rivista è stata pubblicata nel 1981 in tre volumi presso Albert Skira di

Ginevra, con il titolo Minotaure.

78 «Oltre che la fine dell’“erramento ferino” e l’avvento di una condizione stanziale, alla religione

– scrive Andrea Battistini – si deve, nella diagnosi vichiana, il sorgere della società perché fece nascere la convivenza, da quando, con “l’infrenar il moto de’ corpi” (SN, § 340), indusse alla pudicizia e all’istituzione del matrimonio, che comportò unioni altrettanto fisse e stabili (SN, § 388), come dimostra l’etimo di «conjugium», designante il giogo comune sotto cui si pongono gli sposi (SN, 513-514).

79 R. Esposito, Pensiero vivente, cit., p. 80.

80 R. Esposito, La comunità della perdita: l’impolitico di Georges Bataille, cit., p. XX.

81 La citazione è contenuta all’interno dell’autografo di Paura della libertà nella pagina datata 23

sono già stati identificati come il momento del permanere nel sacro indistinto e del separarsi totalmente da esso82. A questi due momenti corrispondono due forme di Stato, che sono nell’ottica di Levi due non-Stati, in cui si manifesta la crisi dell’unità dell’uomo: la prima, quella dello stato totalitario, fondata sulla paura e sulla massa; la seconda, quella delle democrazie occidentali, insieme di atomi parcellizzati e non comunicanti tra loro. «L’opposto di ciò è l’individualismo astratto, dove è perso ogni senso di comunità, e ove non solo lo Stato non è deificato, ma neppure esiste, poiché non esistono passioni. Questo ateismo è altrettanto mortale di quella idolatria» (PL, 134). Le due differenti civiltà poste tra loro antiteticamente, in realtà, come si evince già da questa breve citazione, sono contigue e l’una può essere il presupposto dell’altra. Questa idea viene sviluppata in modo più coerente in un articolo del 1944, scritto sulle pagine de «La Nazione del Popolo», di cui Levi era direttore. In un mondo dominato da un «vigoroso individualismo», in cui «l’idea di individuo, che ne era la base, era diventata puramente razionalistica», il nazismo e il fascismo «furono una rivolta interna delle forze irrazionali». Dinnanzi a una società «di sola ragione» essi contrapposero «la massa amorfa, […], l’atroce uniformità dello Stato totalitario». L’eccessiva parcellizzazione e distinzione costituiscono dunque il terreno su cui fiorisce il germe dell’irrazionalismo che rovescia l’individuo astratto nel suo contrario, la massa. «Era il rovescio della medaglia: - commenta Levi in chiusura – il mondo sotterraneo degli istinti caotici e della disperazione senza forma che si agitava sotto quell’altro mondo tutto determinato, ottimista e progressivo. Erano le due facce complementari della stessa civiltà dissociata, che ora muore del suo stesso dissidio»83. La contiguità tra l’astrattismo dell’individuo e la massa amorfa dei nazionalismi, che nel testo di Levi permane alquanto oscuro, si spiega a partire dalla riflessione leviana sulle passioni. In un passo centrale di Paura della libertà, Levi sottolinea con forza:

Lo Stato-idolo è dunque il segno insieme del bisogno di rapporti umani veri, e della incapacità a istituirli liberamente – della natura sacra di questi rapporti e della incapacità a differenziarli senza inaridirli: è il segno del terrore dell’uomo che è nell’uomo. Terrore di sé, che ne fa la più radicata delle idolatrie, poiché la fonte ne è sempre presente, la più mostruosa perché tutta umana. Ma essa presuppone il senso di una assoluta identità degli

82 Vd. paragrafo 1.2.

83 C. Levi, Crisi di civiltà, in «La Nazione del Popolo», I, 12-13 settembre 1944, p. 14. Ora in C.

uomini, e lo spavento della impossibilità di distinguersi come persone: il senso della massa, dell’umanità informe, ove ogni limite individuale è arbitrario, perché gli individui non hanno confini reali. L’opposto di ciò è l’individualismo astratto, dove è perso ogni senso di comunità, e ove non solo lo Stato non è deificato, ma neppure esiste, poiché non esistono

passioni. Questo ateismo è altrettanto mortale di quella idolatria. Non serve

essere liberi dalle passioni, ma liberi nelle passioni. Poiché la passione è il luogo del contatto dell’individuo con l’universale indifferenziato. (PL, 137)

Secondo la critica Pulcini84 che riprende il pensiero di Tocqueville, la nascita della democrazia apporta un indebolimento delle passioni, generando una massa amorfa di individui che hanno perduto il contatto tra loro e che sono alla ricerca di una felicità, in realtà, sempre sfuggente. L’homo democraticus è, così, stretto tra la dimensione dell’atomismo e della massificazione. «In esso è possibile riconoscere la genesi del narcisismo patologico descritto dalla riflessione contemporanea, in cui un illimitato desiderio di autorealizzazione appare come l’effetto speculare di un vuoto emotivo, di una perdita di páthos che chiude l’Io in una logica identitaria responsabile sia dell’indebolimento dell’identità individuale sia della crisi del legame sociale»85. Estraneo alle passioni, l’uomo moderno si chiude in una forma di individualismo narcisistico che distrugge la dimensione comunitaria della società e provoca come «fenomeno opposto e complementare» la rinascita di passioni «regressive e distruttive»86. Pertanto, suggerisce Levi è necessario essere liberi non dalle passioni, ma nelle passioni, per trasformare quella che può essere definita «un’antropologia della mancanza» in una philía tocquevilliana, in «un desiderio dell’altro quale oggetto della propria tensione relazionale, del proprio bisogno di legame e di appartenenza»87:

Struttura arcaica e permanente, rimossa dalla modernità e sacrificata, secondo la lettura di Mauss e Bataille, alla logica dell’utile, il dono riaffiora dentro le patologie dell’individualismo con la forza e la cogenza di una passione, che si propone qui di definire passione per l’altro: tensione emotiva di un individuo debole e carente, che anela alla condivisione, al

cum, alla comunità in quanto riconosce nell’altro il donatore di senso della

propria esistenza88.

84 Le riflessioni che seguono sono estrapolate da E. Pulcini, L’individuo senza passioni.

Individualismo moderno e perdita del legame sociale, cit., pp. 15 e sgg.

85 Ivi, p. 16. 86 Ivi, p. 17. 87 Ivi, p. 18. 88 Ivi, pp. 18-19.

Nella società di massa, dunque, l’individuo si spersonalizza e si standardizza divenendo «non più persona, ma ingranaggio della perfetta macchina di produzione che è la società moderna»89. È all’interno di questa corrente critica che si situa il capitolo dedicato alla Massa tratteggiata come polo oppositivo rispetto all’individuo libero e autonomo di gobettiana ascendenza. «I panettieri – scrive Levi – chiamano massa la pasta, che attende di essere divisa in parti e di diventare pane nel forno» (PL, 189). La massa viene così descritta come l’insieme indeterminato in cui ogni divisione si risolve nell’indistinzione, ogni caratterista diviene uniforme. Dunque, essa non è l’individuo, ma il «non-io, inesistente e necessario», è la «non-qualità, origine negativa di ogni qualità», e dunque, se lo Stato è costituito da rapporti autonomi e liberi tra gli individui, essa è «un non- Stato». «È l’indeterminata materia umana, che è una, e perciò incapace di relazioni, ma che serba in sé, nella sua inesistenza, tutte le possibili future relazioni» (PL, 190). La massa, specifica sempre l’autore, non può essere ricondotta al «popolo» o alla «sua parte più bassa, la plebe», dal momento che coincide con «la folla indeterminata, che cerca, con l’angoscia del muto, di esprimersi e di esistere».

Secondo l’indice dell’autografo di Paura della libertà, il capitolo inizialmente doveva essere intitolato Agosto; tuttavia, il titolo, scritto a matita rossa, viene sbarrato e sostituito successivamente dal titolo Massa con l’aggiunta del nome di Faulkner90. È, dunque, chiaro che il titolo originario rimandava al romanzo pubblicato in Italia nel 1939, Luce d’agosto, e tradotto da Elio Vittorini per Mondadori91. Il dato viene confermato da un passo contenuto nel medesimo capitolo, in cui Levi associa i personaggi del mondo di Faulkner al concetto da lui elaborato di massa:

I personaggi americani di Faulkner sono massa – esseri umani di forma ancora mutevole, che potrebbero, materialmente, avere aspetti mostruosi, che cercano invano di distinguersi l’uno dall’altro, sotto la luce di agosto che uguaglia le cose nella sua crudezza, e, spinti da un oscuro sangue

89 M. Nacci, Tecnica e cultura della crisi (1914-1939), Torino, Loescher 1982, p. 18.

90 A Faulkner Levi dedica un breve accenno anche in C. Levi, L’arte e gli italiani, in Id., Le mille

patrie: uomini, fatti, paesi d’Italia, a cura di G. De Donato con introduzione di L. M. Lombardi

Satriani, Roma, Donzelli 2000, p. 31.

91 Per l’edizione originale s. v. W. Faulkner, Light in August, New York, Smith & Haas 1932. Per i

rapporti tra Elio Vittorini e la letteratura anglo-americana s. v. F. Cogo, La ricezione delle

traduzioni anglo-americane di Vittorini (1933-1943), in «Otto Novecento», XXXVI, n. 2, 2012,

pp. 183-193. Per quanto riguarda invece la ricezione dei romanzi di Faulkner in Italia, cfr. N. Turi,

Quei ruggenti anni Trenta e Le armi il furore: l’effetto Faulkner, in Id., Declinazione del canone americano in Italia tra gli anni Quaranta e Sessanta, Roma, Bulzoni 2011, pp. 23-51 e 173-213.

comune e da una feroce ribellione, tendono a staccarsi dalla materia indifferenziata nella quale sono arbitrariamente tagliati – come affogati gondi d’acqua che risalgono verso il dorso del mare. (PL, 190)

Levi elegge, dunque, i personaggi del mondo dell’autore americano a emblemi della sua rappresentazione teorica del concetto in questione e identifica nella accecante «luce di agosto» il loro principio di indeterminazione, che li costringe al vano tentativo di distinguersi. I numerosi personaggi che affollano il romanzo sono distribuiti lungo le due direttrici razziali, l’essere bianco e l’essere nero, al cui centro si stagliano le figure di Lena Grove e Joe Christmas, che né bianco né nero è alla costante ricerca di una sua fisionomia identitaria. È lo stesso Faulkner a indirizzare i critici verso questa lettura, allorché spiega i motivi di fondo del romanzo: «La sua tragedia [di Joe Christmas] era che non sapeva che cos’era, e così non era nulla. […] Questa è per me la condizione più tragica nella quale si può trovare un uomo: di non sapere chi è e di sapere che non lo saprà mai»92. Levi è così attratto, più che dalla questione razziale, dall’indeterminatezza dell’identità del protagonista cui qualsiasi tentativo concreto di distinzione è inaccessibile. «Nel pullulare della folla, - continua Levi – non possono parlare realmente, e stabilire rapporti umani, perché ciascuno di loro non ha confini, e non è ancora veramente nato. Le loro espressioni sono grida, uccisioni, preghiere – e l’atmosfera è un continuo spavento, di quello che avviene e di quello che non può avvenire, e dell’incomprensibilità del continuo conato» (PL, 191). Joe Christmas è sottoposto al tragico destino delle astrazioni, delle convenzioni umane basate sul