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paradigma della non-storia

2.2 Proemio: la Lucania e l’Occidente

Il romanzo è suddiviso in ventiquattro1 capitoli non numerati, introdotti da un

breve scritto, la cui natura ha spinto la critica a considerarlo, in termini genettiani, come una «“prefazione integrata”2 che ha il suo modello principe nei poemi epici

e prende più propriamente il nome di proemio»3. Dei poemi, il testo possiede un

linguaggio retoricamente sostenuto e tragico scandito dal battere anaforico della parola Cristo che accompagna il lettore in una terra ignota4 in cui Cristo,

paradossalmente, non è mai approdato. Il proemio rappresenta così un luogo liminare oltre al quale si dischiude un mondo, dipinto come l’umano e umiliato inferno dantesco, in cui la figura del narratore5, paragonabile a quella di un

novello Dante6, ricerca le tracce dell’origine della storia e soprattutto della propria

storia.

Dopo aver ribadito l’esclusione della Lucania dalla «Storia e [d]allo Stato», «immobile civiltà» serrata «nella presenza della morte», l’autore chiarisce che,

1 Michel Arouimi segnala che nel manoscritto come nella traduzione francese curata da Jeanne

Modigliani i capitoli sono ventiquattro (ventitré più il proemio), dal momento che il dodicesimo capitolo «che gioca un ruolo strategico nell’equilibrio e nell’economia poetica del racconto» non viene diviso in due parti. «Questa ambiguità – continua il critico – richiama quella della composizione del primo Faust, alla quale Levi pensa paragonando un personaggio al famoso cane di Goethe: il quadro raddoppiato dello “Studio” genera incertezza nel conteggio dei quadri, tra ventiquattro e venticinque…». Suggestiva più che criticamente fondata la tesi che da questa constatazione filologica discende: i ventiquattro capitoli sarebbero raggruppati in tre gruppi («l’arrivo della sorella, il viaggio a Grassano e il ritorno a Gagliano») di otto capitoli ciascuno. «la chiave di questa armonia di costruzione sembra affidata enigmaticamente al capitolo introduttivo. La presenza di otto menzioni del nome di Cristo appare come la cifra stessa di questa costruzione letteraria, che d’altra parte si conforma, con le sue tre parti, al simbolo della croce». In M. Arouimi, Il rosario di Levi, in Aa. Vv., Carlo Levi. Il tempo e la durata in “Cristo si è fermato a

Eboli”, cit., p. 220. Cfr. anche Id., Les harmonies de la peur, in «Strumenti-Critici», IX, 3,

settembre 1994, pp. 363-386.

2 Cfr. G. Genette, Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi 1989, p. 24.

3 F. Vitelli, Il “proemio” del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, in «Forum Italicum», Spring

2008, p. 69.

4 Il tema del viaggio in una terra straniera avvolta dalla magia ha come modello il Ramo d’oro di

Frazer il cui viaggio antropologico si avvia a partire dal santuario di Nemi. Cfr. G. B. Bronzini, Il

viaggio antropologico di Carlo Levi, cit., pp. 11-12. Nonostante Levi sia più legato

all’antropologia pre-moderna, Pietro Clemente ha mostrato alcuni punti di contatto del Cristo con la prima monografia di terreno Argonauti del Pacifico Occidentale di Bronislaw Malinowski (1922). P. Clemente, Oltre Eboli: la magia dell’etnografo, in Aa. Vv., Il tempo e la durata in

“Cristo si è fermato a Eboli”, cit., pp. 261-264.

5 Lo statuto dell’Io interno al romanzo si ramifica in una forma duale che ricorda la suddivisione

operata da Dante nella Commedia: all’io narrante si accompagna l’io vivente.

6 G. Lupo, Tra inferno contadino e paradiso americano: Carlo Levi, Dante e la Bibbia, in

«tante volte», ha ascoltato dalla bocca dei contadini la «frase proverbiale»: «Noi non siamo cristiani […] Cristo si è fermato a Eboli» (CSFE, p. 3). Questa suggerisce che i contadini, schiacciati dal peso del «mondo dei cristiani, che sono al di là dell’orizzonte», sono considerati alla stregua delle «bestie da soma» (o dei «fruschi» o dei «frusculicchi») più che come uomini e cioè «cristiani». Tuttavia, nella realtà storica della Lucania il proverbio, che identifica in Eboli il confine immaginario della civiltà occidentale, non esiste, esso è frutto piuttosto di un’alterazione adottata dallo stesso autore7 e divenuta poi celebre grazie alla

diffusione del romanzo.

La modifica apportata, che enfatizza consapevolmente – scrive Marziano Guglielminetti – la «sostanza “omerica” del libro»8, intende così porre in evidenza

non solo che il cristianesimo non ha varcato Eboli, ma che letteralmente, insieme a Cristo, non sono arrivati «il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia» (CSFE, p. 3). La Lucania preservando la propria verginità originaria e preistorica è immune dai valori della civiltà occidentale. Infatti, «[n]essuno degli arditi uomini di occidente ha portato quaggiù il suo senso del tempo che si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su se stessa. Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo» (CSFE, p. 4).

Nessuno, ovvio, eccetto Levi, il cui riferimento alla propria esperienza filtra in negativo dalle parole enfatiche del proemio. Solo lui è andato al di là per raccogliere col «cuore»9, scrive Guido Dorso, la testimonianza del mondo

contadino e per lenire le storiche, ma anche mitologiche ferite delle conquiste perpetrate in quella terra. Sono le stesse prove filologiche a documentare, infatti,

7 Il proverbio, che contiene nozioni geografiche e logiche estranee all’ambiente contadino

dell’epoca, sembra essere modellato sulla nota affermazione dei contadini meridionali: «E che non siamo cristiani noi, siamo animali». Cfr. F. Vitelli, Il “proemio” del Cristo si è fermato a Eboli di

Carlo Levi, cit., p. 74.

8 Il riferimento è qui a Mimesis di Auerbach attraverso cui l’autore riscontra nell’opera di Levi una

linea omerica, in contrapposizione a quella biblica. Cfr. M. Guglielminetti, L’io che scrive: Cristo

si è fermato a Eboli di Carlo Levi, in Aa. Vv., Carlo Levi: le parole sono pietre, a cura di G. Ioli,

Atti del convegno internazionale di San Salvatore Monferrato (28-30 aprile 1995), San Salvatore Monferrato, Edizioni della Biennale «Piemonte e Letteratura» 1997, p. 81.

9 G. Dorso, Cristo si è fermato a Eboli, in Id., L’occasione storica, a cura di C. Muscetta, Torino,

grazie agli studi della De Donato10, che l’incipit del primo capitoletto («Sono

arrivato a Gagliano un pomeriggio di agosto») costituiva nel manoscritto l’explicit del proemio. Ciò avrebbe non solo prodotto un effetto comico/straniante sul tono tragico del brano, ma avrebbe altresì accentuato quella dose di narcisismo caratteriale, sempre opportunamente velata ma mai compiutamente tolta11, che

rivela una ferma consapevolezza dell’importanza culturale della riscoperta lucana da parte dell’autore e del suo ruolo interno alla comunità locale12.

Da uomo “occidentale”, Levi oltrepassa il limite immaginario di Eboli e penetra in una realtà che, ai suoi occhi13, è inviolata dai cinque pilastri

antropologici su cui poggia la società occidentale: il tempo vettoriale segnato dal ticchettio degli orologi, lo stato nazionalistico fondato sulla divinizzazione della figura del capo, il progresso come cieco incedere verso il futuro che oblia il passato, il linguaggio caratterizzato da una struttura comunicativa, non più poetica, e infine la logica raziocinante che opposta all’irrazionale estirpa le credenze magico-animistiche di origine pagana.

L’idea di un tempo ciclico, contrario a quello aristotelico-matematico, riveste fin dal proemio una posizione centrale nella struttura narrativa dell’opera. «Le stagioni – annuncia il narratore – scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo» (CSFE, p. 4). In un tempo immobile segnato dallo scorrere naturale delle stagioni e cadenzato dal ritmo regolare delle ore di luce e di buio, la Lucania non solo acquisisce l’aspetto di un mondo refrattario al progresso, ma diviene il cronotopo dell’immobilità. La percezione dello scorrere del tempo, infatti, si annulla in un angoscioso ed eterno ripetersi dell’uguale che informa di sé anche la spazialità. Così non solo il tempo e lo spazio risultano

10 Cfr. G. De Donato, Autografo, intertestualità e varianti del Cristo si è fermato a Eboli, in Ead.,

Le parole del reale. Ricerche sulla prosa di Carlo Levi, cit., pp. 127-128.

11 Ivi, p. 132.

12 Fabre legge il narcisismo interno al Cristo come riscrittura acritica da parte dell’autore del

sentire degli abitanti di Aliano: «Levi accede a ciò che pensa essere la verità dal punto di vista indigeno, mentre i suoi interlocutori elaborano su di lui una forma di mito eroico che lo scrittore trascrive, quasi senza commenti, quasi fosse una prova, un’attestazione che è proprio così che pensano e agiscono le persone di Aliano». In D. Fabre, Passioni e conoscenza nel Cristo si è

fermato a Eboli, in Aa. Vv., Il tempo e la durata in “Cristo si è fermato a Eboli”, cit., p. 274.

13 Bronzini, a questo proposito, pone in rilievo il rischio di allontanamento dalla «specificità

storica» a causa del processo di «mitizzazione della civiltà contadina» a tal punto da costituire il modello «di altre Lucanie, come la Sicilia, la Sardegna, la Germania, il Vietnam, luoghi occasionali e referenti simbolici del wandern antropologico di Levi». In G. B. Bronzini, Il viaggio

immobili, nullificando qualsiasi moto di speranza, schiacciando il passato sul presente e proiettandolo su un futuro pieno di dolore, ma anche le persone stesse e gli animali sono rappresentati come pietrificati nella loro arcaicità14. Immobili sono le lucertole «sul muro assolato» (CSFE, p. 20), le contadine descritte come un «gregge alla pastura» (CSFE, p. 37), gli occhi neri e rotondi dei falchi (CSFE, p.59), i bambini circondati dalle mosche (CSFE, p. 103), la stessa Gagliano è immobile nella sua «atmosfera borbonica» (CSFE, p. 145).

In questa landa atemporale, il dialetto – rivela il protagonista del Cristo – possiede delle misure del tempo più ricche che quelle di alcuna lingua; di là da quell’immobile, eterno crai, ogni giorno del futuro ha un suo proprio nome. Crai è domani, e sempre; ma il giorno dopo domani è pescrai e il giorno dopo ancora è pescrille; poi viene pescruflo, e poi maruflo e maruflone; ed il settimo giorno è maruflicchio. Ma questa esattezza di termini ha più che altro un valore di ironia. Queste parole non si usano tanto per indicare questo o quel giorno, ma piuttosto tutte insieme come un elenco, e il loro stesso suono è grottesco: sono come una riprova della inutilità di voler distinguere nelle eterne nebbie del crai (CSFE, p. 160)

Gli stessi indicatori del tempo, mai precisi ma sempre sospesi in un vago riferimento temporale, concorrono nell’opera a rinforzare l’atemporalità della Lucania. La frattura del tempo matematico impone così l’affermarsi di un tempo primigenio, scrive Bonifacino, «irretito e intangibile nella sua stasi ancestrale, colmo di una buia e pulsante tensione vitale che non può per sé essere svolta, ma solo evocata in figura»15. Questa forma primigenia, pura potenzialità, convive con

il presente astorico della Lucania e provoca una sovrapposizione temporale, che è anche spaziale, in cui il passato ancestrale convive con il presente, si confonde in esso, smagliando quella superficie piatta cui dona la vertigine della profondità arcaica. L’idea di una «infinita contemporaneità», che affiora nella citata lettera L’autore all’editore, permette di rileggere il Cristo sulla base di una concezione

14 In un recente contributo, il critico Luca Clerici scorge nel romanzo odeporico del Cristo due

forze contrapposte: una centrifuga, l’altra centripeta. In particolare, quest’ultima mostrerebbe come la Lucania sia continuamente attraversata dal mondo esterno, a tal punto da minarne la sua essenziale immobilità: «Questo mondo chiuso, autoriferito e immobile, in effetti è unito al resto della penisola non solo da una fitta serie di dettagliati collegamenti geografici e movimenti di personaggi, ma anche tramite frequenti allusioni alla storia nazionale e alla cronaca locale». Cfr. L. Clerici, La vocazione nazionale di Cristo si è fermato a Eboli, in Aa. Vv., Cristo si è fermato a

Eboli di Carlo Levi, cit., p. 19. La tesi di Clerici, nonostante appaia suggestiva e criticamente

fondata, non può essere accolta per quanto segue nelle prossime analisi.

del tempo e dello spazio, pienamente sviluppata a partire da L’orologio, che tuttavia l’autore intravede già nel romanzo in oggetto. Infatti, nella rilettura del 1963 Levi accentua il concetto di contemporaneità proprio perché capisce a posteriori che questa idea, per ora intesa come coesistenza di forme opposte (si pensi solo alla compresenza di animalità e individualità), costituisce il fil rouge di tutta la sua produzione narrativa:

Per questo, il Cristo si è fermato a Eboli mi pare oggi il primo momento di una lunga storia, che è continuata modificandosi, e continua diversa, in me e nelle cose e nei fatti e nei cuori degli uomini, e in tutti i libri che ho scritto, e in quelli che scrivo e scriverò (e che tu pubblicherai), fino a quando sarò capace di vivere la contemporaneità e la coesistenza e l’unità di tutto il reale, e di intendere, fuori della letteratura, il senso di un gesto, di un volto, e della parola, come semplice, poetica libertà. (CSFE, p. IV)

Sebbene il termine «contemporaneo» e i suoi derivati compaiano all’interno del Cristo, escludendo la lettera iniziale che presenta ben sei occorrenze, solo due volte e nessuna nell’accezione qui sottolineata 16 , una prima forma di

contemporaneità dei tempi è ravvisabile già nella descrizione del paese di Gagliano come un enorme cimitero di ossa, a causa del quale si produce una stratificazione temporale per cui le «vecchie ossa bianche e calcinate» convivono con quelle più recenti dai «brandelli secchi di carne o di pelle incartapecorita». «Qui, - specifica Levi – dove il tempo non scorre, è ben naturale che le ossa recenti, e meno recenti e antichissime, rimangano, ugualmente presenti, dinnanzi al piede del passeggero» (CSFE, p. 35). L’immobilità del tempo perviene così a una stretta connessione con l’immagine della morte, a tal punto che le oscure parole del becchino di Gagliano, «il paese è fatto delle ossa dei morti» (CSFE, p. 43), possono essere interpretate, come chiosa il narratore, sia in senso simbolico che letterale.

Che Gagliano sia contraddistinto da un’atmosfera mortuaria, lo si evince fin dal primo capitoletto in cui don Carlo, dopo il trasferimento dalla vicina Grassano, giunge alle pendici dei calanchi su cui si allunga il paese. Al contrario del primo,

16 «la veste brillante della poesia contemporanea» (CSFE, p. 78) e «[è] questa la sola forma statale

che possa avviare a soluzione contemporanea i tre aspetti interdipendenti del problema meridionale» (CSFE, p. 139).

descritto come una «piccola Gerusalemme17 immaginaria nella solitudine di un

deserto» (CSFE, p. 5), Gagliano «si snodava come un verme attorno ad un’unica strada in forte discesa». Non solo l’onnipresenza della morte è ribadita dal richiamo al verme che in Paura della libertà indica la morte nel «fluire nell’indifferenziato», ma è accentuata dall’aggettivazione del colore nero, assai frequente nell’opera, che diviene correlativo oggettivo di una situazione esistenziale18. Neri sono gli stendardi alle porte «sì che tutto il paese sembrava a

lutto, o imbandierato per una festa della Morte» (CSFE, p. 7), neri gli occhi dei contadini, nere le vesti delle donne e nere le «migliaia di mosche [che] anneravano l’aria e coprivano le pareti». «“Nero” e “chiuso” – scrive Miccinesi – sono gli aggettivi che con il loro costante riapparire nelle pagine del libro attuano per il lettore la trasduzione dell’ambito puramente fisico-esteriore a quello di una oscurità della coscienza che è necessaria chiusura»19.

Nella chiusura del mondo lucano, la morte che accompagna fin da subito il razionale confinato torinese dilata lo spazio del visibile e apre il varco a una dimensione ctonia e arcaica pullulante di presenze oltremondane. Difatti, la costanza della morte annulla lo scorrere del tempo in una unità immobile e tramuta il piano del presente in un punto di intersezione tra diverse e comunicanti realtà che contemporaneamente interagiscono tra loro. Si capisce così che la contemporaneità dei tempi non è strutturata secondo un modello vettoriale del tempo, ma in base al concetto di durata inteso «come lo stadio – specifica Falaschi – delle infinite possibilità perché la società non ha ancora iniziato la sua evoluzione nel tempo storico»20. Nel mondo preistorico della Lucania, dunque,

dove l’azione individualizzante della coscienza non ha ancora serrato l’individuo nelle squadrate e geometriche forme della mente occidentale, l’esistente è fluido e

17 Il paragone tra Grassano e Gerusalemme richiama, qui, come ricordano più critici, un contatto

diretto con l’iconografia dantesca. «Levi – scrive Giovanna Faleschini Lerner – explicity reformulates the comparison between Grassano and Jerusalem in the description that opens Cristo si è fermato a Eboli, highlighting in this way the visual nature of his narrative inspiration, which finds its referent not directly in Dante’s poem but in its iconography. By means of this analogy, Levi implicity establishes a parallel between his own journey in Lucania and Dante’s infernal itinerary» In G. Faleschini Lerner, Carlo Levi’s Visual Poetics. The Painter as Writer, cit., p. 28.

18 M. Miccinesi, Come leggere Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, Milano, Murisa 1979, p.

60.

19 Id., Invito alla lettura di Carlo Levi, Mursia, Milano 1973, p. 63. 20 Falaschi, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, cit., p. 475.

pertanto si può metamorfizzare in diverse nature, divenendo partecipe di una mescolanza che lega gli uomini agli spiriti, alle piante e agli animali attraverso una potente forza magica.

Centrale nell’orizzonte mitico di Levi è l’unione intercorrente tra il contadino lucano e i suoi animali. Oltre a condividere con essi gli stessi spazi vitali, l’uomo non ancora distintosi partecipa della loro natura, vive secondo il ritmo naturale della vita primordiale in continuità con essi. Percependo il tempo in modo differente rispetto all’uomo, gli animali sono – secondo il critico Franco Cassano – incapaci di qualsiasi forma di progresso assurgendo così a monito e rivelazione di tutto ciò «che il nostro procedere teleologico affannato e progressivo ci fa dimenticare»21. Essi, dunque, comunicano da uno spazio al quale l’uomo

occidentale non ha più accesso, in quanto ha perduto quelle origini ancestrali di comunione panica, tipica invece del contadino lucano. L’attenzione per il mondo degli animali tuttavia non nasconde, nella concezione leviana, il «desiderio di regressione» verso l’informe, bensì assolve al compito «di aiutare l’uomo contemporaneo ad acquistare una cultura più ricca e più ampia, di andare al di là dell’esaltazione delle magnifiche sorti e progressive del progresso tecnologico»22.

Paradigma della distanza dalla civiltà moderna della terra lucana, in cui coesistono differenti modi dell’essere non ancora strutturati in una identità definitiva e univoca, è la concezione degli animali, alcuni dei quali assumono le fattezze di veri e propri totem. La capra che compare a più riprese nell’opera del Cristo non è più intesa come «modello del dolore universale» (che Saba le aveva conferito secondo la tradizione ebraica23), ma come simbolo del mistero e

dell’ambiguità. Essa ha le fattezze di una figura demoniaca che incarna in sé non soltanto il diavolo della tradizione cristiana, ma anche il demone (maligno o benigno) delle culture pagane. Essa è il simbolo della mentalità prelogica degli abitanti locali, o meglio della volontà dell’autore di raffigurare un ambiente prelogico e animistico, in cui si crede ancora nella possibilità di sconfinamento

21 F. Cassano, La compresenza dei tempi, introduzione a C. Levi, Le ragioni dei topi. Storie di

animali, a cura di G. De Donato, con postfazione e bestiario di G. Sacerdoti, Roma, Donzelli

2004, p. XV.

22 Ivi, p. XXII.

23 M. A. Bazzocchi, L’Italia vista dalla luna. Un paese in divenire tra letteratura e cinema, cit., p.

della natura umana verso quella animale e viceversa. «Agli occhi del primitivo – scrive l’antropologo Lévy Bruhl – l’uomo e l’animale (preso nel senso più largo) sono dunque, secondo la felice espressione del Roth, “intimamente permutabili”»24. La capra, a metà, a metà strada tra l’umano e il bestiale, come conferma l’associazione con la figura del Satiro, si mostra dinnanzi al protagonista nel tragitto che congiunge il paese al cimitero, in cui incontrerà la figura mitologica e stregonesca del becchino.

I contadini – commenta l’autore – dicono che la capra è un animale diabolico. Anche gli altri fruschi sono diabolici: ma la capra lo è più di tutti. Questo non vuol dire che sia cattiva, né che abbia nulla a che fare coi diavoli cristiani, anche se talvolta essi scelgano il suo aspetto per mostrarsi. Essa è demoniaca come ogni altro essere vivente, e più di ogni altro essere: poiché, nel suo aspetto animale, sta celata un’altra cosa, che è una potenza. Per il contadino essa è realmente quello che era un tempo il Satiro, un Satiro vero e