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Vico e il principio della «vera narratio»

1.2 La dialettica dell’avvenimento come principio di individuazione 1 Brevi precisazioni introduttive

1.2.2 Vico e il principio della «vera narratio»

Il testo incomincia con una breve premessa in cui Levi dichiara che la propria indagine parte «da quel punto inesistente da cui nasce ogni cosa» (PL, 132), dall’origine dunque in cui l’uomo prende e dà forma a ciò che lo circonda. L’incipit, segnato da una congiunzione coordinante («E anche noi dovremo cominciare di là» [PL, 132]), chiarisce la continuità tra il contenuto dell’opera e un preciso modello di riferimento, come se il testo di Levi dovesse riprendere un discorso già avviato da altri. Il titolo, infatti, concorre a rimarcare la discendenza delle riflessioni di Levi da Vico, che costituisce sin da subito il punto di riferimento da cui l’autore si muove15. Ab Jove principium è una citazione, tratta dalla terza ecloga (v. 60) delle Bucoliche di Virgilio, presente nell’esergo della Scienza nuova prima, nella conclusione della Scienza nuova seconda e nel capitolo dedicato alla «metafisica poetica» (SN, §391)16 nell’edizione consultata

da Levi. Per Vico, come per Levi, il riferimento a Virgilio riassume il principio costitutivo della nascita degli uomini e di quella che sarà la loro storia successiva. È infatti la scoperta aurorale della forza della divinità l’essenza fondante della prima forma di evoluzione umana. Dopo il diluvio universale, secondo Vico, il momento della nascita dell’individuo, inteso come auto-coscienza17, prende corpo

15 Il saggio più ricco e innovativo sui rapporti intertestuali tra Levi e Vico è sicuramente quello di

A. Battistini, La presenza di Vico in “Paura della libertà” di Carlo Levi, in Aa. Vv.,

Encyclopaedia Mundi. Studi di letteratura italiana in onore di Giuseppe Mazzotta, a cura di S. U.

Baldassarri e A. Polcri, Firenze, Le Lettere 2013, pp. 3-20. Il richiamo a Vico, in relazione a

Paura della libertà, è stato abbondantemente sottolineato dalla critica. Tuttavia, nessuno prima di

Jørgensen e Battistini aveva tentato di mostrare strutturalmente la vicinanza tra i due pensatori, anche se il saggio della Jørgensen, pur avendo il pregio di soffermarsi sui potenziali paragrafi della

Scienza nuova, letti con intensità da Levi, si limita a una accatastata rassegna che non entra nel

merito del debito vichiano. Per una breve rassegna dei testi critici cfr. C. Jørgensen, L’eredità

vichiana nel Novecento, cit., pp. 131-132. Per quanto riguarda un’analisi strettamente legata al

rapporto tra Vico e la pittura di Levi si rimanda a G. Faleschini Lerner, Carlo Levi’s Visual

Poetics. The Painter as Writer, New Yord, Palgrave Macmillan 2012, pp. 9-11.

16 D’ora in poi le citazioni provenienti dalla Scienza Nuova saranno segnalate dal numero di

paragrafo secondo l’edizione, già citata, curata da A. Battistini.

17 Gianfranco Cantelli scrive a questo proposito: «Nella prima terrificante esperienza del cielo

fulminante, l’uomo fissa in un fenomeno, che per la prima volta avverte come esterno a sé, il proprio sentimento: l’oggetto viene riconosciuto e identificato. […] Un oggetto che, nel suo stesso

quando, in preda a un vagabondaggio ferino e immersi in una selva fitta di vegetazione, i giganti avvertono la forza del fulmine.

[…] il cielo – scrive Vico nella Metafisica poetica, contenuta nel secondo libro – finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi, come dovett’avvenire per introdursi nell’aria la prima volta un’impressione sì violenta. Quivi pochi giganti, che dovetter esser gli più robusti ch’erano dispersi per gli boschi posti sull’alture de’ monti, […], spaventati ed attoniti dal grand’effetto di che non sapevano la cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo. […] si finsero il cielo esser un gran corpo animato, che per tal aspetto chiamarono Giove, il primo dio delle genti dette «maggiori»18.

Il fulmine, permesso dal disseccamento della terra umida molto tempo dopo il diluvio universale, rappresenta la prima forma di linguaggio muto19 della natura,

cui i giganti attribuiscono un’essenza animata e una forza soprannaturale che avrebbe potuto annientarli, ma li ha risparmiati. La grazia concessa viene intesa come necessità di assoggettarsi alla potenza del cielo e di esaudire la sua volontà, le cui manifestazioni vanno interpretate per mezzo della divinazione20.

Levi, invece, dopo aver dichiarato implicitamente la filiazione da Vico, scrive che «Il nostro Giove» non va ricercato «nei cieli, ma là dove sta, nei luoghi più terrestri e oscuri, negli abissi umidi e materni» (PL, 132). Si passa, così, da una manifestarsi costituisce un segno pieno di significato, che si riproduce sempre uguale a se stesso per rivelare sempre la stessa volontà, la stessa potenza. […] riflettere su Giove, accogliere il segno della sua volontà, è per l’uomo riflettere, nel contempo, su se stesso, per rispondere opportunamente a quel segno, a quella rivelazione. Il linguaggio dell’uomo nasce come risposta a quello che gli si è presentato come il linguaggio di una divinità». In G. Cantelli, Mente corpo

linguaggio. Saggio sull’interpretazione vichiana del mito, Firenze, Sansoni editore 1986, pp. 35-

36.

18Ivi, pp. 214-215.

19 Vico suddivide il linguaggio degli uomini in tre stadi corrispondenti alle tre età in cui si divide

la storia dell’uomo: «l’età degli dèi, nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni cosa essere lor comandata con gli auspìci e con gli oracoli […] l’età degli eroi, nella quale dappertutto essi regnarono in repubbliche aristocratiche, per una certa da essi riputata differenza di superior natura a quella de’ lor plebei; – e finalmente l’età degli uomini, nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana, e perciò vi si celebrarono prima le repubbliche popolari e finalmente le monarchie […] Convenevolmente a tali tre sorte di natura e governi, si parlarono tre spezie di lingue […]: la prima, nel tempo delle famiglie, che gli uomini gentili si erano di fresco ricevuti all’umanità; la qual si truova essere stata una lingua muta per cenni o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee ch’essi volevan significare; – la seconda si parlò per imprese eroiche, o sia per simiglianze, comparazioni, immagini, metafore e naturali descrizioni, che fanno il maggior corpo della lingua eroica […] la terza fu la lingua umana per voci convenute da’ popoli, della quale sono assoluti signori i popoli, propria delle repubbliche popolari e degli Stati monarchici». In G. Vico, Princìpi di scienza nuova, cit., pp. 72-73: §§ 31-32.

20 Scrive a questo proposito Vico: «Quivi i primi uomini, che parlavan per cenni, della loro natura

credettero i fulmini, i tuoni fussero cenni di Giove (onde poi da “nuo”, “cennare” fu detta “numen” la “divina volontà”, con una troppo sublime idea e degna da spiegare la maestà divina), che Giove comandasse co’ cenni, e tali cenni fussero parole reali, e che la natura fusse la lingua di Giove; la scienza della qual lingua credettero universalmente le genti essere la divinazione, la qual da’ greci ne fu detta “teologia”, che vuol dire “scienza del parlar degli dèi”». In: ivi, p. 207: § 379.

dimensione in cui predominano le esalazioni secche della terra, che permettono il formarsi di un fulmine21, all’umidità di una madre terra22 in cui si nasconde Giove

che «assomiglia assai più a un verme che a un’aquila» (PL, 132). L’identificazione tra Giove e il verme ribalta, in modo oppositivo, l’associazione di Vico tra aquila, cielo e Giove, il cui predominio sull’uomo si concretizza con un evento imponente come quello di un fulmine. Per Levi, difatti, non è nelle altezze elevate del cielo che vive Giove, ma nella terra insidioso e nascosto come un verme. Ciononostante è necessario rimarcare, come ha fatto Andrea Battistini, lo stretto rapporto, inerente alle origini del mondo, che intercorre tra la lettura di Vico e quella di Levi. Entrambi, infatti, si concentrano – seppur mediante una concezione divergente sull’origine di Giove – sull’importanza dell’istante aurorale nel quale l’uomo si separa dal caos dell’inizio, in altre parole «sul “punto di equilibrio” posto tra l’anarchia del mondo primitivo in cui è affatto assente qualsivoglia coscienza di sé e il sorgere ancora oscuro e barbaro della coscienza che segna pur nella sua confusa condizione l’avvento della civiltà»23. Tuttavia, sia Levi che Vico non intendono considerare l’origine come un punto di inizio che non possa ripresentarsi nell’accadere storico. Difatti, così come l’ha definita il filosofo Roberto Esposito ascrivendo il pensiero di Vico all’anomalia italiana rispetto alla filosofia moderna, la «potenza dell’origine» non si rivela come un unicum, dato il quale la storia si dipana progressivamente attraverso un percorso lineare, bensì costituisce, all’interno del continuum storico, la costante, improvvisa e potenziale irruzione del caos nell’ordine, della barbarie nel dispiegamento razionale della storia.

Il punto decisivo – scrive Esposito – […] è che questo elemento originario – non storico e anzi incompatibile, nella sua dimensione puramente vitale, con il processo di storicizzazione – non viene mai del tutto meno, ma si trasferisce, per così dire in maniera latente, all’interno della stessa storia. […] Nulla, per Vico, è più letale dell’idea – tipicamente moderna – che si possa tagliare il nodo che lega la storia al suo inizio non storico, sciogliendolo in un processo di compiuta temporalizzazione della vita24.

21 «E tanto tempo appunto vi bisognò correre, che la terra, disseccata dall’umidore dell’universale

diluvio, potesse mandar in aria delle esalazioni secche a potervisi ingenerare de’ fulmini, da’ quali gli uomini storditi e spaventati si abbandonassero alle false religioni di tanti Giovi». In: Ivi, p. 77.

22 Cfr. G. Battista Bronzini, Il viaggio antropologico di Carlo Levi. Da eroe stendhaliano a

guerriero birmano, Bari, Dedalo 1996, p. 183.

23 A. Battistini, La presenza di Vico in “Paura della libertà” di Carlo Levi, cit., p. 7.

24 R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Torino, Einaudi 2010,

Sia Vico che Levi, di riflesso, si oppongono strenuamente a tutte quelle forme di pensiero razionalistico e astratto che presuppongono l’analisi dell’esistente per mezzo di una prospettiva geometrizzante che imbriglia ciò che è disforme in una uniformità schematica e rigida e aliena da sé qualsivoglia principio di rottura con il divenire storico. La temporalizzazione integrale della storia, perseguita dalla filosofia moderna, rappresenta «uno dei più potenti dispositivi immunitari della modernità» che Vico rigetta in quanto «c’è un momento della storia che non appartiene al tempo e che, proprio per questo, può letteralmente risucchiarla nel suo vuoto temporale non appena essa immagini di potersene definitivamente emancipare»25. Condividendo con Vico un’idea della storia costituita da fratture e

nuovi inizi, grazie anche all’influenza del pensiero di Nietzsche, di Freud26 e di

Jung, l’intellettuale torinese si oppone allo storicismo hegeliano e crociano e introduce nella propria idea di divenire storico la possibilità di un ritorno dell’indistinto originario, secondo la teoria dei corsi e dei ricorsi27. Tuttavia, tale accadimento non discende da un intervento esterno o provvidenziale che instilla nella storia un momento di frattura, bensì è immanente e insito nelle pieghe stesse della storia; infatti «il processo di immunizzazione non è una linea percorribile all’infinito, perché porta dentro di sé una forza negativa destinata, a un certo punto, a ritorcersi contro se stessa, a bloccare quella vita che pure è ordinato a salvaguardare»28. Dopo aver identificato nel suo presente un conflitto, una faglia interna all’ordine del divenire storico, in cui il dispositivo di immunizzazione della società viene, di fatto, sovvertito dalla violenta irruzione delle forze primigenie dell’umano, Levi, comprendendo grazie a Vico la forza salvifica dei ricorsi, compie per ricercare le cause della fine nell’inizio un cammino a ritroso, durante il quale si accosta non solo formalmente alla ricerca vichiana29, ma ne ripropone anche lo stesso «canone gnoseologico»:

È noto a tutti il principio vichiano del «verum ipsum factum» con il quale, in un luogo memorabile della Scienza nuova, si sancisce

25 Ivi, p. 74.

26 La forza delle origini viene accostata da J. Farrell al rimosso freudiano, con cui coerentemente

può essere messa in relazione. In particolare, lo studioso richiama l’opera di Freud Il disagio della

civiltà (1930), ora disponibile a cura di S. Mistura, Torino, Einaudi 2010. Cfr. J. Farrell, Introduction a Aa. Vv., The Voices of Carlo Levi, cit., p. 14.

27 Si precisa, onde evitare incomprensioni teoriche, che per Vico, al di là della opinione vulgata, il

ricorso storico non prevede mai il ritorno all’indistinzione caotica delle origini, perché tale ritorno sarebbe tragico. In Levi, invece, il ritorno a quelle origini è la fonte salvifica del rinnovamento.

28 R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, cit., p. 83.

29 Si veda la recensione a Paura della libertà di A. Bizzarri, Un saggio di Carlo Levi, in «La fiera

trionfalmente che “questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i princìpi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana» (SN, § 331). Nelle pagine introduttive di Paura della libertà Levi pare echeggiare questo metodo allorché avverte di avere condotto la sua ricerca «nell’animo stesso dell’uomo», cercando «di penetrare nell’interno di quel mondo», di «immergersi in quell’ambiguo inferno» descrivendolo «dal di dentro», con uno «sforzo di identificazione e di unificazione»30.

Introducendo nella struttura teorica della Scienza Nuova il principio del «verum ipsum factum», Vico si distanzia, innanzitutto, dalla posizione filosofica del cogito di Cartesio, al cui razionalismo astratto31 contrappone una cultura umanistica, fondata sul concetto che è conoscibile all’uomo, ciò cui l’uomo stesso ha dato vita32: «apparisce […] – scrive Vico – che questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i princìpi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana» (§331). Essendo la conoscenza del vero possibile solo a Dio che ne è l’autore («intelligere» [SN, §363]), all’uomo permane «la verità di coscienza» o «di certezza» («cogitare» [SN, §359]), così come propone Croce nella sua opera La filosofia di G. B. Vico, che Levi conosceva. «Il certo, la verità di coscienza – scrive Croce –, non è scienza, ma non perciò è falso»33. Il sistema della conoscenza non poggia, dunque, le proprie basi su un metodo matematico, ovvero puramente razionale, bensì su una ricerca filosofico-filologica34 delle origini

30 Ivi, p. 8 . Per le citazioni tratte dal libro di Levi vd. PL, p. 218.

31 «Con un unico gesto, – scrive lo studioso Michael Mooney – Descartes soppresse il mondo del

meramente probabile, quell’arena nella quale, come gli antichi ben sapevano, si devono in gran parte condurre le cose umane. Il vero e il falso erano adesso opposte polarità – fra loro, null’altro che un insormontabile abisso. […] Per Descartes, il bene comune sarebbe stato meglio perseguito se agli uomini fosse stato insegnato a pensare in maniera chiara e ordinata. Non più il discorso effettivo, bensì il pensiero calcolato diventava la chiave del progresso sociale». In M. Moloney,

Vico e la tradizione della retorica, tr. di G. De Michele e intr. di A. Battistini, Bologna, Il Mulino

1999, pp. 30-31.

32 Auerbach scrive in proposito: «la teoria vichiana della conoscenza storica […] si fonda sul

principio che si può conoscere soltanto ciò che noi stessi abbiamo creato. La storia degli uomini, o “mondo delle nazioni” (a differenza del mondo della natura, creato da Dio), è stata creata dagli uomini stessi, e dunque gli uomini la possono conoscere». E. Auerbach, Sullo scopo e il metodo, in

Id., Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina, Milano, Feltrinelli 1960, pp. 14-15.

Sulla questione cfr. anche S. Otto, Giambattista Vico. Lineamenti della sua filosofia, Napoli, Guida Editori 1992, pp. 46-51; e cfr. D. P. Verene, Vico: la scienza della fantasia, a cura di F. Voltaggio, Roma, Armando Armando 1984, pp. 68-99.

33 B. Croce, La filosofia di G. B. Vico, Bari, Laterza 1965, p. 15.

34 «La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia osserva l’autorità

dell’umano arbitrio, onde viene la coscienza del certo. […] Questa medesima Degnità dimostra aver mancato per metà così i filosofi che non accettarono le loro ragioni con l’autorità de’ filologi, come i filologi che non curarono d’avverare le loro autorità con la ragion de’ filosofi; lo che se

mediante una riabilitazione di tutti quei saperi, quali «la storia, l’osservazione naturalistica, la cognizione empirica circa l’uomo e la società, l’eloquenza e la poesia»35, che Cartesio aveva precedentemente degradato. Questi sono finalizzati e utilizzati allo scopo di permettere un progressivo avvicinamento alla raffigurazione di quella irrazionalità fantastica, da cui il mondo delle origini era contraddistinto e che l’uomo moderno ha perduto. In relazione a ciò, Edward Said, nell’opera intitolata Beginnings, riferendosi allo sviluppo della mente umana secondo il pensiero di Vico, scrive: «The human mind in time became less grounded in the body, more abstract, less able directly to grasp its own essential self, less capable of beginning at the beginning, less capable of defining itself»36.

La stessa analisi viene mossa da Levi nei confronti dell’uomo moderno, nel momento in cui si sente sollecitato a descrivere l’idea di “neo-umanesimo” nella cultura del Novecento. Nel brano, Sul nuovo umanesimo, pubblicato per la prima volta in Coraggio dei miti, l’autore rintraccia la necessità di una rifondazione dell’uomo a causa della crisi dei valori e della sua unità. La parola neoumanesimo, infatti, può significare soltanto il ritorno o la riscoperta «dell’unità dell’uomo e dell’uomo come unità». «Tutta la crisi della civiltà contemporanea – scrive – […] non è che la manifestazione della perdita progressiva del senso dell’unità dell’uomo, della sua scissione in facoltà e in attività diverse e senza relazione, della frattura del mondo, e di ciascun individuo, in frammenti sempre più chiusi, isolati, polverizzati e aridamente incomunicabili»37. La crisi, «tutt’altro che provenire dall’esterno, [essendo] implicita nel suo medesimo motore»38, non si manifesta attraverso una improvvisa irruzione nella storia, ma è, come sostiene anche Vico, una lunga parabola discendente, in questo caso costituita dalla «perdita progressiva del senso dell’unità dell’uomo», cui fa da contraltare una nuova ciclicità, un nuovo inizio:

Esaurita la fase creativa e ascendente di questa grande curva, non riuscito il processo di integrazione dell’individuo in una società articolata e in uno stato di libertà, atomizzata l’espressione dell’individuo sempre più isolato e solitario, separata la ragione dal senso e dal sentimento, separato

avessere fatto, sarebbero stati più utili alle repubbliche e ci avrebbero prevenuto nel meditar questa Scienza» (§138-140).

35 B. Croce, La filosofia di G. B. Vico, cit., p. 16.

36 E. Said, Conclusion: Vico in His Work and in This, in Id., Beginnings: Intention and Method,

New York, Basic Books 1975, pp. 347-348.

37 C. Levi, Sul nuovo umanesimo, in Id., Prima e dopo le parole. Scritti e discorsi sulla letteratura,

cit., p. 79. Pur non essendo datato, il testo può essere circoscritto cronologicamente agli anni della guerra o dell’immediato dopo-guerra.

il colore dalla forma e dalla linea, il contenuto dal verso e dalla rima, diventata ogni immagine anziché libera di infiniti rapporti, sacra in se stessa, astrattamente assoluta, separata in una nuova idolatria totalitaria, la grande e brillantissima fase della decadenza, con i suoi eroismi disumani e le sue disumane ambizioni, è andata precipitando di astrattezza in astrattezza. Un nuovo umanesimo non può nascere se non da una riscoperta dell’uomo come unità e come rapporto. Ma gli avvenimenti di questi anni, le tragedie universali che hanno sconvolto la vita di tutti e di ciascuno e hanno spinto con un vento di tempesta milioni di uomini nuovi alla soglia dell’esistenza e della storia, e hanno costretto ciascuno a ritrovare se stesso negli altri, a riconoscersi esistenti come persone in un’epica collettiva, hanno posto le basi necessarie per il rinnovamento totale del senso dell’uomo, per la formazione reale di un nuovo umanesimo39.

In seno alla polverizzazione dell’identità dell’uomo contemporaneo, Levi riscopre nel pensiero di Vico la possibilità di una rifondazione dell’unità dell’uomo attraverso la riconquista delle origini o di una forza vitale e originaria che è rappresentata nel testo dagli «uomini nuovi alla soglia dell’esistenza e della storia»40 e che viene identificata in Paura della libertà dall’immagine vichiana della selva, presente nel fondo oscuro dell’animo umano. «Quella stessa prima foresta informe – scrive Levi – e piena di germi e di terrore, nera nasconditrice di