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LA SICILIA E L'AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA.

2. Alfonso d'Aragona e l'inizio della crisi economica.

Con l’avvento di Alfonso d'Aragona i nobili siciliani si fecero convincere ad attaccare la Corsica e a fare della Sicilia una base per la sua conquista dell'Italia meridionale, sebbene in entrambi i casi si trattasse di interessi spagnoli e non siciliani.

In cambio di questo appoggio Alfonso concesse dei privilegi all'aristocrazia siciliana. Ai baroni fu riconosciuto che terre e privilegi goduti per trent'anni, gli venissero attribuiti per legge anche se acquisiti in maniera illegale. Essi ebbero il permesso di far prestare giuramento di fedeltà ai loro concessionari e di imporre loro delle tasse private. Gli stessi baroni protestarono per i prezzi troppo alti dei tribunali reali e per questo ottennero il permesso di giudicare nei propri tribunali un maggior numero di reati.

Nel 1430 Alfonso, ad esempio, diede al barone Ventimiglia il privilegio più ricercato, ossia il diritto di piena giurisdizione penale nella sua contea di Geraci e quello di lasciare in eredità ai suoi successori tale diritto. In questo modo i principali baroni stabilirono un'autorità talvolta

assoluta sul governo locale.

Alfonso aveva la fama di grande mecenate, ma di denaro ne aveva davvero poco. Le fonti di reddito erano quelle derivate dalle terre della Corona, che erano diminuite drasticamente rispetto al periodo normanno e un certo reddito proveniva dalla vendite dei cereali o dalla pesca. Meno importanti diventarono le imposte feudali che si pagavano all'atto della successione di un feudo, più alte diventarono quelle del servizio alle armi; infatti, tale servizio veniva più comunemente sostituito con un pagamento in denaro di una certa entità.

Per coprire i deficit che potevano svilupparsi dai cattivi raccolti di grano, Alfonso fu costretto più volte a prendere denaro in prestito dai baroni. Altro mezzo per raccogliere denaro era quello della collecta: un'imposta che, per tradizione feudale, poteva essere riscossa in determinate occasioni di emergenza.

Alfonso continuò ad alienare le proprietà e le prerogative della Corona. Nel campo della giustizia, nessun reato era considerato così grave che il criminale non potesse comprarsi il perdono. Si istituirono nuove imposte e nuovi uffici al solo scopo di poterli vendere ed i privati trassero grossi guadagni dall'acquisto del diritto di coniatura. Tanto il fratello di Alfonso, il re Navarra, quanto suo figlio, il futuro re di Napoli, ottennero il prezioso privilegio di esportare il grano siciliano senza pagare dazio ed esercitarono tale diritto anche quando la Sicilia fu colpita da una grossa crisi e il viceré cercava di bloccare tutte le esportazioni.

Un'amministrazione efficiente non poteva esistere dato che i baroni riuscivano a compensare con il denaro qualsiasi loro illegalità. L'economia siciliana, sopravvissuta “all'anarchia” del XIV secolo, fu portata molto vicino al disastro a causa dell'ambizione politica di Alfonso.

L'economia siciliana nella metà del XV secolo attraversò una fase molto complessa. Le guerre imperiali spagnole, la caduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi nel 1453, il progressivo ridursi del commercio col Mediterraneo orientale e con l'Africa musulmana, contribuirono a rendere l'isola più vulnerabile di prima.

La grande masseria della Sicilia del grano serbava ancora nel tardo Quattrocento caratteri e organizzazione non solo di centro produttivo, ma di “luogo forte”; rappresentava l’articolazione essenziale del territorio, più che il castello signorile, come punto di aggregazione di una più vasta comunità.

«Da almeno un secolo in questa Sicilia “vuota”, il problema sociale più importante è rappresentato dal controllo fisico e territoriale della forza lavoro rurale: un controllo che, in una situazione di scarsità demografica, si può esercitare con qualche efficacia solo dalla città, e attraverso la città. Perciò la resa attorno alle licensie populandi, e le nuove fondazioni che si

aggiungono ai nuovi centri “albanesi”; e l'aspra tensione che insorge con le città vicine,le demaniali specialmente, da cui si prelevano famiglie con ogni mezzo purché efficace, dalla concessione enfiteutica all'asilo di debitori o criminali. Perciò il controllo politico e amministrativo delle città, al fine di scongiurare il pericolo di un “blocco urbano” di mercanti e di populares che alla città riserba la crescita demografica, impone alla campagna sul surplus e il prezzo della materia prima, e ghettizza i signori entro entro le loro case-torri cittadine»124.

Fin dal 1420 l'isola era mercato privilegiato per mercanti e banchieri catalani favoriti da Alfonso; erano loro a gestire per il sovrano aragonese le frequenti operazioni, finanziarie e politiche, di vendita e di ricompra delle città del demanio; attraverso tali operazioni si costituiva e si consolidava un blocco di interesse tra potere e finanza che favorì in parallelo l'inclinazione oligarchica di famiglie, di mercanti-esattori, di magistrati e di ufficiali regi.

Le condizioni in cui, per la determinata resistenza dei populares, il processo maturò, furono tali che nessuna vittoria era possibile senza l'intervento della nobiltà feudale.

Il trasferimento a livello cittadino dei conflitti della campagna siciliana, in una fase tanto complessa della sua storia, accelera il processo di consolidamento delle consuetudini civiche e al tempo stesso impone uno sviluppo importante, anche sul piano teorico, della giurisprudenza feudale125.

Il governo talvolta cercava di proteggere i contadini dalle estorsioni arbitrarie, ma i baroni avevano tribunali e prigioni private per sostenere le loro cause. Le vittorie sui baroni erano rare, come nel 1446 quando il barone di Calatabiano interdisse ai pastori il pascolo sulle terre comuni; gli abitanti del villaggio fecero ricorso al tribunale del re e vinsero, ma visto che i documenti si potevano distruggere e molte sentenze si basavano sulla consuetudine, gli atti furono immediatamente eliminati.

La particolare politica economica di Alfonso, concentrata prevalentemente al resto del sud Italia e poco sulla Sicilia, oltre a far aumentare il potere locale dei baroni, impose dazi sui cereali che colpirono duramente i contadini. Troppo poco denaro fu lasciato per le spese di polizia e di difesa, con il risultato che il banditismo incoraggiò la tendenza dei contadini a concentrarsi in grosse borgate lontane dal loro posto di lavoro e la pirateria minacciò la produttività della fertile costa siciliana.

Molti abbandonarono le zone centrali della Sicilia, quelle che nei secoli passati erano state il granaio del mediterraneo, per spostarsi nella zona costiera.

Il baronato si andava, quindi, rafforzando a discapito dell'autonomia municipale; solo i

comuni di Palermo e Messina godevano di una discreta indipendenza. Il controllo effettuato dal governo o dai proprietari terrieri lasciava poco spazio allo sviluppo di un “terzo stato” cittadino con interessi diversi da quelli dei baroni.

Nel corso degli anni alcuni re, avendo bisogno di denaro, alienavano molte città ai baroni. Essi rilevarono il potere effettivo anche nella maggior parte del demanio reale, perché avevano bisogno di controllare il mercato per i prodotti delle loro proprietà.

La monarchia non aveva grande interesse a promuovere la libertà municipale, non aveva bisogno che si costituisse un partito contro i baroni. Anche quando i cittadini avevano la possibilità di riscattarsi, il re poteva venderli di nuovo: Vizzini fu venduta sette volte, Siracusa, Lentini, Sciacca, Corleone, Cefalù furono tutte vendute in servitù feudale da Alfonso, sebbene precedentemente Martino avesse dichiarato illegale questa pratica. In tutte le città siciliane occasionalmente si verificarono delle rivolte. Spesso si trattava di lotte per il potere, causate dall'insufficienza delle forniture alimentari e da una pressione fiscale eccessiva, ma mai furono espressione di un interesse comune per il raggiungimento di un'autonomia municipale.

Sono le città e il nuovo patriziato urbano, che si afferma dopo il 1460, i veri protagonisti della vicenda siciliana del secondo Quattrocento tra Alfonso il Magnanimo e Ferdinando. Fin dal 1420 l'isola era mercato privilegiato per banchieri e mercanti catalani favoriti da Alfonso126. Saranno loro a gestire il sovrano aragonese con frequenti operazioni finanziarie e

politiche, di vendita e di ricompra delle città e del demanio. Attraverso tali operazioni si costituisce e si consolida un blocco di interessi tra potere e finanza che favorisce in parallelo l'inclinazione oligarchica di famiglie di mercenari-esattori, di magistrati e di ufficiali regi.

La storia sociale e politica della città siciliana del Quattrocento non si caratterizza per un conflitto tra città e campagna, ma per il contrasto tra populares e oligarchia cittadina, di cui la nobiltà feudale è componente essenziale.

«Tra il 1440 e il 1460, si chiude con la disfatta dei populares, la travagliata vicenda della Sicilia “demaniale” inaugurata dalla politica dei Martini. Gli ultimi parlamenti di Alfonso sono teatro di un singolare gioco della parti: il sovrano ottiene cospicui donativi per operazioni politiche e militari, e ricompra terre demaniali o cespiti fiscali alienati.

Taluni cespiti fiscali sono ricomprati per essere ceduti ai baroni, i quali estendono la loro già cospicua capacità impositiva; poiché non sembra possibile operare sul livello dei salari, si estendono l'area e la durata delle corvées; le corti baronali ottengono il giudizio d'appello, e il

126 Del Treppo M., I mercanti catalani e l'espansione della Corona d'Aragona nel sec. XV, Napoli 1972 in

signore esalta i suoi poteri di polizia sino allo jus necis.

Si è parlato di “reazione feudale” nella campagna siciliana. Definizione insufficiente di un processo certo più ampio e profondo, che accompagna la crescita demografica e l'emergere di una provincia siciliana attrezzata nel controllo di un territorio ove le isole demaniali appaiono ridotte e di numero e di estensione. È a questa nuova struttura che il blocco dominante consolidato nell'alleanza delle nuove oligarchie con il baronaggio vorrà dare, alla morte di Alfonso, una definitiva legittimazione politico-istituzionale con la scelta di un re “nazionale”»127.