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LA SICILIA E L'AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA.

1. La Sicilia nel XIV secolo.

Nel 1377 Federico IV, diventato re di Sicilia nel 1348 all'età di circa 5 anni, morì lasciando una giovane figlia, Maria, affidata alle cure di Artale d'Alagona, capo dei Catalani.

Immediatamente si pose il problema della successione e dunque a chi dare in sposa la giovane Maria. Sia Milano che Napoli avevano delle mire di conquista sulla Sicilia, e pure il papa voleva dare in sposa la giovane ad un suo nipote.

Nel contempo, gli appartenenti alle più importanti famiglie baronali dell'isola, in accordo con Artale d'Alagona, decisero di dividere la Sicilia in quattro grandi aree.

La costa settentrionale dell'isola fu affidata a Francesco Ventimiglia, conte di Geraci; Manfredi Chiaramonte possedeva sia la zona del palermitano che quella di Modica, nella zona sud-orientale; Guglielmo Peralta reggeva le zone a sud di Sciacca, ed infine il d'Alagona, dal suo castello di Catania, amministrava la maggior parte della zona orientale dell'isola122.

La Sicilia fu retta, quindi, da quattro “vicari” che imposero tasse e si impadronirono delle terre demaniali.

Contestualmente, d'Alagona decise di dare in sposa sua figlia Maria a Gian Galeazzo Visconti, ma Raimondo Moncada, invidioso per essere stato escluso dai poteri vicariali, rapì Maria. La giovane fu condotta a Barcellona e data in sposa nel 1390 a Martino, giovane nipote del re d'Aragona.

Gli Aragonesi programmarono una nuova conquista della Sicilia, ma i baroni locali, comprendendo il pericolo imminente, si riunirono in un parlamento convocato a Castronovo nel 1391; iniziarono però ad emergere dei conflitti. L'accordo fu reso impossibile per l'acuirsi di uno scontro tra le nuove famiglie terriere e la grande nobiltà siciliana: i d'Alagona, i Peralta, i Ventimiglia; ogni famiglia negoziò privatamente con gli Aragonesi per mantenere i propri privilegi ed ottenere il loro appoggio.

Nel programma degli Aragonesi gli interessi siciliani non furono mai presi in considerazione. Martino raccolse un esercito promettendo feudi e vitalizi a tutti gli spagnoli impoveriti e offrì perdono a tutti i criminali ad esclusione degli eretici. L'operazione poteva rivelarsi remunerativa, per questo si associarono Barcellona e Valenza e lo stesso fece il re di

Castiglia e d'Aragona, mentre Genova e Pisa investirono delle somme nella spedizione con la speranza di usufruire del grano siciliano.

Nel 1392 gli spagnoli sbarcarono in Sicilia guidati dal loro generale Bernardo Cabrera, due dei quattro vicariati si unirono a lui. Il vicariato palermitano con a capo Andrea Chiaramonte fu assediato per un mese, dopo la sua capitolazione il Chiaramonte fu decapitato e le vaste proprietà del vicariato furono prese da Cabrera.

Questa concessione di terre non piacque ai feudatari siciliani, che però gradualmente si sottomisero. Chi oppose resistenza fuggì dalla Sicilia e le proprie terre furono utilizzate per “comprare” il consenso degli altri.

Dopo molti decenni di anarchia non fu facile ristabilire leggi o recuperare antiche tradizioni reali. Il primo passo importante intrapreso da Martino fu quello di auto nominarsi

Rex Siciliae e, approfittando dello scisma papale, ripudiò la signoria feudale del papa e

affermò il proprio diritto di legato apostolico con la potestà di nominare vescovi.

Il re aragonese lasciò ai baroni siciliani una forte influenza sulla vita pubblica, sulle città, sulle imposte. Martino concesse a Cabrera pieni diritti di giurisdizione penale a Modica e lo stesso fece per la famiglia dei Moncada nei territori del catanese.

Il nuovo arrivo spagnolo in Sicilia portò un'ondata di proprietari terrieri destinati a diventare le più eminenti famiglie siciliane e ad occupare la maggior parte dei vescovati e dei poteri governativi.

Due parlamenti, convocati nel 1397 a Catania e nel 1398 a Siracusa, presentarono una petizione al re perché nominasse meno catalani ai posti di governo e non applicasse le loro leggi bensì quelle siciliane. Queste riunioni parlamentari accrebbero l'autorità del governo di Martino, ma i parlamentari non avevano una forza propria. La legislazione non sarebbe stata prerogativa dei parlamentari, al contrario delle loro richieste si introdussero nuove procedure e terminologie spagnole per mezzo delle quali era possibile emanare semplicemente leggi per “prammatica sanzione” o decreto reale.

Martino non riuscì mai ad essere autonomo nelle scelte, fu sempre il re d'Aragona, suo padre, a gestire l'amministrazione della Sicilia.

Martino morì nel 1409 durante una spedizione in Sardegna e la Sicilia tornò in mano diretta al padre. La corona di Sicilia e quella d'Aragona furono nuovamente unite e la regione fu governata direttamente dalla Spagna.

Né Martino I né Martino II lasciarono eredi legittimi e nel 1410 il trono rimase vacante sotto la contrastata reggenza della regina Bianca123.

Il conte de Luna, nipote illegittimo di Martino II, azzardò qualche proposta autonomistica, ma il conte Cabrera di Modica, Gran Giustiziere e il più importante tra i baroni, aveva delle forti ambizioni personali. La corona aragonese non aveva un interesse molto forte nei confronti della Sicilia e se davvero fossero stati in tanti a volerla, l'indipendenza della Sicilia non sarebbe stata difficile da conquistare; ma tanto i baroni quanto le città non avevano alcun interesse a combattersi vicendevolmente.

Il periodo fu nuovamente caratterizzato dall'anarchia: ad alcuni baroni poteva pur andare bene, ma le città avevano bisogno di pace per poter continuare a commerciare. Messina in particolare si diede da fare per la restaurazione dell'autorità centrale e appoggiò la regina Bianca. La confusione regnava sovrana e nel 1412 l'elezione di Ferdinando fu accolta con grande sollievo.

Ferdinando, proveniente da un ramo cadetto della dinastia regnante di Castiglia, aggiunse ai suoi titoli quello di “re di Sicilia per grazia di Dio”.

Un parlamento riunito a Catania nel 1413 chiese al re di mantenere separato il sistema amministrativo e giuridico della Sicilia da quello dei suoi altri domini e di nominare ai posti di governo dei siciliani. Tuttavia nessun potere appoggiò queste richieste e per tali ragioni la dinastia castigliana dovette applicare leggi locali con notevole larghezza di interpretazione.