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Politiche repressive nei confronti del banditismo siciliano.

LA SICILIA E L'AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA.

8. Il sistema giudiziario siciliano nel XVI secolo.

8.3 Politiche repressive nei confronti del banditismo siciliano.

Se nella scala gerarchica della repressione del crimine i delitti contro la religione, contro il sovrano e contro la moralità sessuale hanno ricevuto il crisma sovrano della atrocitas dal Cap. 149 del Rito alfonsino, nella fase di strutturazione del potere un posto di non secondaria importanza occupano anche tutti gli altri crimini largissime publica, quelli che l'ordinamento deve fronteggiare ad publicam utilitatem.

“Uno delos principales remedios” che pemette di “tener y conservar nuestros vassallos y subditos en paz, y quietitud” è la “buena y recta administraction de justicia”. I sovrani spagnoli tendono a centralizzare al potere centrale lo ius puniendi, che si realizza con la “...punicion e castigacion delos crimines, y eccessos”, con il concreto o quantomeno desiderato obbiettivo di punire, colpire, eliminare “los hombres malos y facinoros”190.

Il viceré decide di intervenire in maniera incisiva perché furti, rapine, omicidi, porto d'armi proibite minacciano l'ordine pubblico.

Nei primi decenni del Cinquecento in Sicilia il dilagante fenomeno della ricettazione dei

banniti e dei fuoriusciti richiede attenzione e interventi continui. La commissione materiale

dei delitti è l'apice di un fenomeno più complesso, che nasconde uno strato di illegalità. Povertà e miseria mescolata all'astuzia e ai comportamenti non sempre legali della famiglie baronali, che vivono forti dei loro poteri e privilegi, creano una miscela esplosiva.

Dopo le norme promulgate da Ferdinando, sia Carlo V che Filippo II si sono trovati nella condizione di dover renovar le prammatiche in tema di “ricettazione” di banditi e latrones «...crescendo l'abuso, e la necessità e bisogno, che cresca ancora il rimedio...»191. Il rinnovo

della prammatiche testimonia il clima di forte tensione che avvolge l'intera isola.

Il fenomeno del banditismo non riguarda più soltanto le campagne, ma si è ormai trasferito anche nelle città: banditi responsabili di crimini gravi e atroci passeggiano impuniti per le strade centrali di Palermo al seguito dei loro protettori, in segno di sfida verso i rappresentanti

190 Cumia J., In Ritus, fol. 310A, in Sorice R., “...quae omnia bonus iudex considerabit...”. La giustizia

criminale nel Regno di Sicilia (secolo XVI), Catania, 2010.

191 Cit., Pragmaticarum Regni Siciliae, I.49 banniti et delinquentes non accedant ad Curiam fol. 288, in Sorice

R., “...quae omnia bonus iudex considerabit...”. La giustizia criminale nel Regno di Sicilia (secolo XVI), Catania, 2010.

dell'ordine e della giustizia. L'esempio più eclatante è quello della scandalosa passeggiata per le vie di Palermo del Conte di Caltabellotta accompagnato dai due servi cui aveva appena commissionato l'assassinio del giudice De Avena.

La repressione del banditismo si scontra con i privilegi delle famiglie baronali: vaste aree di territorio sono soggette alla giurisdizione di potenti famiglie e di signori che godono del mero e misto imperio, che diventano allettanti luoghi di impunità per banditi o fuoriusciti che godono del favore di tali signori e si arruolano al loro servizio in un rapporto di vicendevole convenienza.

Sono le faide tra opposte famiglie, la necessità di intimorire i vassalli e la crisi economica che portano il baronaggio ad organizzare forme autonome di difesa che hanno il loro punto di forza nel reclutamento di malfattori. «Nella Sicilia del secolo XVI non esiste un divieto alla guerra privata, le norme criminalizzano solo gli eccessi delle vendette private, i duelli anonimi e le anonime offese dirette ai rappresentanti del potere laico o ecclesiastico»192.

Le norme promulgate nei primi anni del Cinquecento seguono un andamento repressivo crescente e tentano di colpire fermamente i segmenti più influenti della società. All'inizio, infatti, hanno un carattere quasi timoroso e prudente nei confronti della nobiltà: «aliquando

evenit quod Marchiones, Comites Barones...prout maiestati nostrae relatum fuit delinquentes aut crimine fatigatos guidare, seu fidare praesumunt»193.

Nel 1570 la prudenza sparisce: “essendo cresciuta la temerarietà et audacia di detti

ricettatori...”. Il generico divieto di protezione e rifugio si trasforma in un dettagliato elenco

di proibizioni: si fa divieto di fornire medicine, cure, armi, polvere da sparo, cavali e qualsiasi forma di vettovagliamento; si proibisce, inoltre, di ricevere, anche solo in custodia robba o

denari da coloro che sono stati banniti e fuorgiudicati, o da delinquenti notori.

La repressione si inasprisce negli anni del regno di Carlo V e soprattutto grazie all'azione del viceré Juan de Vega, fermo oppositore della nobiltà e del ceto togato. Le richieste del parlamento non vengono accolte e nei decenni successivi la situazione comincia a farsi sempre più critica, si tenta l'utilizzo di uomini spagnoli nell'offensiva contro banditi e ricettatori. La bancarotta e la peste del 1575 amplificarono le proteste e le violenze.

Gli anni del viceregno di Marco Antonio Colonna saranno segnati dal conflitto aperto tra la politica del Viceré e il baronaggio: in mezzo il ceto togato, incerto e restio a prendere qualsiasi tipo di decisione.

192 Tali caratteristiche sono presenti anche in Catalogna. Cit., Manconi F., Banditismi mediterranei. Secoli XVI-

XVII, Roma, 2003, p. 46.

L'offensiva del viceré inizia con una sorta di dichiarazione di guerra a banditi e

receptatores: «Fra le cose più importanti, e necessarie al governo e al quieto vivere di questo

fidelissimo Regno è tenerlo purgato di persone maligne...perché trovano con facilità auxiliatori, e fautori, li quali fanno da spalla e li son badetta, e se l'intendano, con loro tengono intelligenza, e partecipano di furti, compositioni e rapine, che commettono, perché altramente sarebbe impossibile a trattenersene, e non essere presi, tanto più con la diligenza, quale ci habbiamo usata in loro prosecutione...»194.

Con questa prammatica, promulgata nel 1578, Colonna cambia sostanzialmente il sistema di acquisizione delle prove nella convinzione che i ricettatori siano sempre più audaci.

La ricettazione consiste nel dare refugium o qualsiasi possibilità di nascondersi ai malfattori, il delitto si perfeziona previa pronuncia della sentenza di bannum o forgiudica. Devono essere considerati ricettatori coloro i quali volontariamente informano il bandito della sentenza di banno, perché il criminale avvertito del bannum ha possibilità maggiori di nascondersi e organizzare la propria fuga. La punibilità è estesa anche a coloro che intrattengono rapporti epistolari con i banditi195.

Il receptares bannitos è un delitto difficile da provare, per la punizione del ricettatore è necessario cercare una prova che in animo consistit, provare una piena e cosciente consapevolezza della commissione del reato, ossia giungere al gradino più altro del sistema probatorio, alla vera scientiae probatio; in questi termini trovare la prova risulta quasi impossibile. Il giudice, quindi, si trova spesso ad applicare delle pene ridotte sulla base della

scientia praesumpta.

La dimensione politica del banditismo in Sicilia non può prescindere dalla dimensione giuridica del fenomeno. Riconoscere nelle sue numerose sfaccettature la figura del bannitus significa per i giuristi tentare di focalizzare le fattispecie di reato ad esse legate.

«È la sentenza del bannum emessa nei confronti dell'accusato contumace a qualificare processualmente e stigmatizzare pubblicamente l'accusato come bandito. Di regola il provvedimento del giudice deve essere preso entro quattro mesi dalla mancata costituzione in giudizio, e trascorso un anno senza che il bannum sia stato purgatum il giudice pronuncia la fuorgiudica»196.

194 Pragmaticarum Regni Siciliae, I.48, fol. 292, in Sorice R., “...quae omnia bonus iudex considerabit...”. La

giustizia criminale nel Regno di Sicilia (secolo XVI), Catania, 2010.

195 Riflessioni del giurista A. De Ballis jr., Variorum Tracatatuum libri sex, omnem fere materiam criminalem

indiciorum et torturae...adiunctis adnotationibus ipsius Regis Alphonsi n. 363 et 364 de sindicatu officialium,

Panormi 1606, in Sorice R., “...quae omnia bonus iudex considerabit...”. La giustizia criminale nel Regno di

Sicilia (secolo XVI), Catania, 2010.

196 Cit., Sorice R., “...quae omnia bonus iudex considerabit...”. La giustizia criminale nel Regno di Sicilia

Capita spesso che nell'opera di costruzione dei giuristi il termine bannitus perde la sua coloritura tecnica per assumere un significato generico con riferimento all'omicidio. Assassini e omicidi, coloro i quali si sono macchiati di crimina atrociora possono essere uccisi alla stregua del bannitus nel senso più tecnico del termine, perché ad esso sono equiparati anche se nei loro confronti non è stata mai emessa una sentenza di bannum.

Ladri, discorritori di campagna, adulteri, falsari, verranno accomunati e racchiusi con il termine bannitus. Questa assimilazione semantica del termine bannito o forgiudicato al sostantivo generico di malvivente o delinquente è evidente anche nelle disposizioni normative.

I giuristi siciliani si occuperanno, inoltre, di un problema al centro della riflessione della

scientia iuris: l'uccisione dei banditi. La dottrina siciliana converge sulla comune posizione

che qualifica i banditi come hostes publici o rebells e il loro status giustifica impune l'uccisione per il bene comune e per supplire al mal funzionamento del sistema.

Chiunque uccida banditi o transfughi considerati al pari dei disertori, dei latrones pubblici e dei depopulatores agrorum nocturnum, è giustificato dall'utilitas del gesto.

Come si è visto nel corso del Cinquecento numerosi e continui sono stati gli interventi normativi, ma che riuscirono soltanto ad arginare temporaneamente il dilagare del fenomeno criminale.

CAPITOLO III