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A TTO III (1931)

I. 4 M ALIPIERO INTERPRETE DELLA MUSICA ANTICA : UNA QUESTIONE DI POETICA

Stando all’evidenza la rottura tra intuizionismo e oggettivismo si direbbe insanabile. Sia nell’«edizione scenica» dell’Orfeo Monteverdi che in quelle di Vivaldi la pervasiva pratica della «copiatura» viene sconfessata in molti luoghi del testo, i quali dimostrano una fortissima ingerenza del curatore – già ‘reo confesso’ in varie sedi – ed è un’ingerenza che si può ritenere assimilabile a quelle stesse manomissioni e deformazioni dei «musicologi» che Malipiero ha sempre criticato aspramente nel corso della sua vita. «Copiatura» e «intuizione», si direbbe, non possono coabitare: o l’una, o l’altra.

Per meglio dire: il contrasto tra soggettivismo e oggettivismo appare certo insanabile considerando il punto di vista di una critica del testo, di una ecdotica che mira alla restituzione di un determinato testo basandosi su dei principi di coerenza interna; ovvero dei principi che, congegnati in ottemperanza il più possibile alle specificità del caso in questione (o dei diversi casi, trattandosi di un’edizione delle opere), una volta applicati facciano sistema all’interno del testo medesimo. È palese quanto scontato: rispettare le arcate, «copiandole», ma non determinati raddoppi strumentali, non si può dire un principio di coerenza interna.

D’altronde, quanto esemplificato sopra evidenzia da sé che i principi editoriali che regolano le edizioni monteverdiane e vivaldiane non derivano da idee e principi di critica del testo, per quanto ingenui e incipienti essi potrebbero risultare, poiché non fanno sistema, non vi sono logiche di coerenza interna. È lecito dunque ritenere che la critica del testo non abbia niente a che spartire con il

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pensiero di Malipiero, e che il senso delle operazioni effettuate dal compositore debba essere ricercato, necessariamente ed espressamente, altrove.

Le scelte compiute da Malipiero si richiamano, non a principi interni di critica del testo, ma alla sua poetica e al suo pensiero estetico-compositivo, dunque ad idee e concetti meditati ed elaborati nel corso della sua esperienza di compositore, che agiscono e divengono regolativi nelle edizioni di Monteverdi e di Vivaldi né più né meno che in altre opere portate a termine da Malipiero.

Al centro degli interessi di Malipiero non vi è mai il testo, il documento, ma l’opera, viva e rivissuta al presente, sempiterna manifestazione dell’«intuizione», del pensiero di un autore, e scaturigine d’ogni possibilità di rinnovamento della musica, poiché «le grandi manifestazioni d’arte rimangono sempre «MODERNE»142 – proclama non a caso nella prefazione al Primo Libro di

Madrigali di Monteverdi – e «moderni sono tutti quelli che il tempo non condanna all’oblio».143 Al centro di una incessante tensione tra passato e futuro,

l’opera per Malipiero è, sempre al presente: «non potevo che rivolgermi al passato», afferma meditando sulla propria esperienza, «il passato che per me rappresenta il presente e l’avvenire inquantoché segna il ritmo della nostra vita spirituale senza compromettere quello che fummo o quello che saremo».144 Non

si dimentichino su questo punto le riflessioni di Malipiero sul problema dell’originalità, intesa come accordo al presente di elementi «già esistenti» nelle opere del passato – e non il frutto dell’«invenzione». E neppure si dimentichi la ‘lezione’ della musica antica, ovvero quel che questa, secondo Malipiero, lascia intendere: che il pensiero riposto in un’opera sia sempre irreducibile e ulteriore ai mezzi della sua rappresentazione (l’esempio del Monteverdi «sinfonista» rimane illuminante a tal proposito).

La stessa dialettica tra «materia» e «pensiero» (o i loro sinonimi e correlati semantici), quella sbilanciatissima dialettica, si può ora riconfigurare come una dialettica tra documento e opera; laddove al primo afferisce l’archeologia, l’intellettualismo «necrofilo», la rievocazione della prassi esecutiva antica – anche la «musicologia», nell’accezione deteriore di Malipiero – e alla seconda l’interpretazione che vivifica l’opera e la rende presente.

Il contrasto tra intuizionismo e oggettivismo si può dunque ridimensionare, se non sciogliere del tutto, e possiamo comprendere e giustificare le scelte compiute da Malipiero riguardo alla musica di Monteverdi e Vivaldi – giustificare, non sulla base di principi di critica testuale, ma sulla base di idee e concetti della poetica malipierana – come l’unica maniera possibile di interpretare quelle opere, dunque di pensarle, di renderle vive, e anche di trascriverle e «copiarle», accordandole al presente. Torniamo dunque agli esempi monteverdiani (1.) e vivaldiani (2.), dove li avevamo lasciati, per impegnarci in un commento finale

142 in ID.,[Prefazione] in Tutte le opere di Claudio Monteverdi, cit., Tomo I: Il primo libro dei

madrigali a cinque voci, senza numero di pagina.

143 G. F. MALIPIERO, Ti co mi, cit., p. 88. 144 ID., La pietra del bando, cit., p. 31.

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1. Si può ritenere che il lavoro di bisturi sui libretti monteverdiani – un intervento generalizzato, e condotto fino alla soppressione di un’ora di musica nell’Orfeo; un’ora e mezza nella Poppea – sia vòlto al recupero di una precisa idea di «espressione drammatica», la «perfetta fusione tra poesia e musica»,145 qual è

presente secondo Malipiero nella musica antica e, in particolare, nei primi Libri di Madrigali di Monteverdi.146 Si tratta di un livello sovraordinato d’espressione, che

si dà nella musica e attraverso la musica pur non essendo attribuibile ai singoli elementi musicali e/o letterari di cui è fatta una composizione.

Tale idea, dopo essere stata tradìta dai secoli della «tirannide melodrammatica», torna ad essere perseguita dalle forme del teatro contemporaneo. È dunque il ritorno di una precisa sensibilità, che Malipiero individua già nel Pelléas et Mélisande di Debussy – «un’opera d’eccezione», questa; ma non ancora perfettamente integrata in questa nuova sensibilità drammatica.147

Tuttavia, nonostante le sue ostentate origini, nobili e antiche, vi è ben poco di classico o di idealistico in questa «perfetta fusione tra poesia e musica».

Secondo Malipiero essa è il presupposto di un teatro moderno, che tenta di ricomporre una lacerazione che si è consumata nel corso dell’Ottocento, il divorzio tra la «voce» e l’«orchestra» – orchestra può valere qui come metonimia di musica – allorquando o l’una o l’altra veniva sacrificata togliendo al dramma musicale «la sua ragione d’essere».148 Per ottemperare a questo bisogno Malipiero

auspica la nascita di un dramma perfetto, del tutto compiuto in sé, «tutto nutrito di illuminazioni e culmini drammatici»,149 nel quale «la linea del poema

drammatico dovrà essere sintetica, adattarsi alle esigenze musicali, anzitutto rinunziando alla verbosità inutile, e togliendo alla parola l’arbitrio di risolvere le situazioni sceniche»;150 un teatro nel quale la musica recupera indipendentemente

la propria centralità, rendendosi interprete esclusiva e veicolo assoluto dell’azione drammatica, a scapito di ogni altra componente teatrale/letteraria della rappresentazione, che pur può averla originata.

La «perfetta fusione tra poesia e musica» viene sciorinata nelle pagine finali dell’Orchestra come una vera e propria teoria sul dramma moderno. La cosa sorprende ancor più se si riscontra l’anno di pubblicazione del volume, 1920, lo stesso della ‘prima’ delle Sette Canzoni, opera-simbolo della poetica malipierana

145 G. F. MALIPIERO, L’orchestra, cit., p. 6.

146 Cfr. ID., Claudio Monteverdi, cit., pp. 29 e sgg.: «oggi noi troviamo più perfette e moderne le opere

della prima maniera monteverdiana» etc., p. 29; «egli tende, fino dalle opere giovanili, a raggiungere il massimo grado di espressione e non si preoccupa di creare nuove “forme” di musica religiosa, madrigalesca, o teatrale. Egli vuole esprimere soltanto le passioni umane e non è mai né convenzionale né enfatico, quantunque creda di seguire, come un cane fedele, la poesia», Ibidem, p. 35; o anche «la sua espressione musicale rimane sempre ad altissimo livello, e non impoverisce né cambia stile quando scende dal palcoscenico, anzi, non essendo costretta ad accoppiarsi a grossolani poeti-librettisti, si conserva più pura, più alta ed è espressione squisitamente lirica, sovente con forti accenti drammatici, sia negli otto libri dei Madrigali che in molte delle opere religiose»; cit. in L’opera di Gian Francesco Malipiero, cit., p. 331.

147 Cfr. soprattutto G. F. MALIPIERO, L’orchestra, pp. 57-62. 148 G. F. MALIPIERO, L’orchestra, cit., p. 60.

149 PIERO SANTI, La concezione teatrale, in Omaggio a Malipiero, cit., pp. 153-163: 154. 150 G. F. MALIPIERO, L’orchestra, pp. 60-61.

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(confluita poi nel trittico dell’Orfeide), non a caso sottotitolata dall’autore come «sette espressioni drammatiche»:

La soluzione [della lacerazione tra voce e orchestra] non potrà dunque venire dal modo di trattare la voce e l’orchestra, ma dalla valutazione della

parola quale forza drammatica. Difatti perché non ci siamo limitati al teatro

di prosa? Perché la musica ha il potere di rendere, molto più intensamente

della sola parola, lo stato d’animo dei personaggi, creando loro un’atmosfera

che non si lascia imprigionare entro i confini materiali dell’apparato scenico. Perciò più facilmente si può rinunziare a comprendere il senso positivo della parola, anziché alla musica.

Il teatro musicale tende ora verso un’evoluzione che sempre più si stacca dalle “formule” wagneriane e s’intuisce che per non togliere né alla parola, né alla voce, né all’orchestra la loro forza di espressione, la linea del poema drammatico dovrà essere sintetica, adattarsi alle esigenze musicali, anzitutto rinunziando alla verbosità inutile, e togliendo alla parola l’arbitrio di risolvere le situazioni sceniche. La poesia non perde la sua efficacia anche se l’onda musicale che ha suscitato, apparentemente la soffoca.

Non volendo dunque rinunziare al dramma musicale, con un solo mezzo si potrebbe rialzarne le sorti: non dare la supremazia a nessuno degli elementi letterari o musicali di cui si compone, ma alternarli obbedendo alle

esigenze drammatiche e queste, musicalmente, dovrebbero essere attuabili.151

In una lettera del 1939 inviata a Vincenzo Bonaiuto, regista al Teatro Greco di Siracusa, Malipiero fornisce ulteriori indicazioni su come queste «esigenze» debbano essere «attuate»:

Il mistero della creazione musicale sta appunto nella possibilità di assecondare il dramma senza sacrificare la musica e con questo è detto tutti: la declamazione ritmica delle parole s’incunea nella musica ed è la musica che completa la parola assecondandola con tutti i mezzi che il musicista dispone. Non sta in me di dire quali sono questi mezzi, cioè invenzione, espressione, forza ritmica, ecc. ecc.152

Si tratta, a ben vedere, di un ideale che si attaglia del tutto al teatro malipierano degli anni Venti e degli anni Trenta; quel teatro di «sintesi drammatiche», che evitano o riducono al minimo le transizioni ed i raccordi, e così facendo lasciano «intravedere un diverso ed anteriore» – quasi nel senso di archetipico, avantestuale – «contesto poetico».153 È un teatro che muove dal

rifiuto della figura del librettista e si fonda su generi di poesia per musica non tradizionali – Malipiero «non voleva fossero chiamati “libretti”».154 Sono selezioni

151 G. F. MALIPIERO, L’orchestra, cit., pp. 60-61 (corsivi dell’autore).

152 Lettera del 12.III.1939 «a Vincenzo Bonaiuto (segretario dell’INDA [Istituto Nazionale del

Dramma Antico] e regista degli spettacoli siracusani), annunciando la trasformazione delle [musiche di scena] dell’Ecuba in un dramma musicale vero e proprio»; cit. in EMILIO SALA, Malipiero al teatro greco di Siracusa: le musiche di scena per l’‘Ecuba’ di Euripide (1939) e l’ ‘Orestea’ di Eschilo (1948), in Malipiero-Maderna,

cit., pp. 103-134: 111.

153 PIERO SANTI, La concezione teatrale, cit., p. 157.

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e adattamenti di liriche antiche (dalla classicità al medioevo di Jacopone da Todi, dal Poliziano fino al Virgilio tradotto da Annibal Caro: l’Orfeide, San Francesco d’Assisi, La morte delle maschere, Merlino mastro d’organi, Torneo Notturno, Vergilii Aeneis), o frammenti e collages di testi da capolavori del teatro di prosa; dunque di veri e propri tagli e decontestualizzazioni di versi/righe del testo (Goldoni, Pirandello, Shakespeare, Euripide, Calderón; rispettivamente: Tre commedie goldoniane, La favola del figlio cambiato, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Ecuba, La vita è sogno. A questa seconda serie si può aggiungere, quale loro capostipite, il dannunziano Sogno d’un tramonto d’autunno, opera prima del catalogo teatrale malipierano).155

Fuor d’ogni metafora, la «fusione», come si vede, non ha nulla di classico, non rappresenta una simbiosi o una dialettica tra la poesia e musica, quanto semmai un nuovo rapporto di tipo analogico, funzionale: v’è qui un doppio livello, «una doppia colonna», puntualizza Marzio Pieri, «la poesia di Malipiero non si capisce senza la sua musica, pure quella sua musica è indipendente dalla poesia; v’è una doppia colonna (la phonè verbale/il discorso sonoro) in sovrapposizione meno dialettica che schizofrenica».156 Qualcosa che, nel rapporto

voce/musica, sembra prefigurare «quasi la tecnica del missaggio», coglie Emilio Sala,157 o dà quasi il «sospetto» d’una idea di «colonna sonora», chiosa altrove

Pieri.158

La centralità della musica, o meglio, la sua indipendenza, la sua «sfasatura»159 rispetto alla sostanza drammaturgica del teatro, è acquisita anche nei

155 Sul teatro di Malipiero, oltre al saggio di Pieri citato nella nota precedente, risulta imprescindibile

dello stesso «Io nacqui dannunziano…», cit.; quindi (almeno) PIERO SANTI, La concezione teatrale, cit., e

LUCIANO ALBERTI, Interpretazione registica e scenografica, in Omaggio a Malipiero, pp. 55-79; PAOLO CATTELAN, Il «Sogno» dannunziano, ovvero «come sbarazzarsene». Ariele, Bonaventura e il teatro di Malipiero, in Malipiero- Maderna, cit., pp. 25-85. Sul tema dei collages e frammenti, e sulla particolare tecnica dei tagli e delle

decontestualizzazioni, oltre al saggio di Cattelan appena citato (con riferimenti al Sogno dannunziano) cfr. in particolare pp. LAURA ZANELLA, Otto auto-imprestiti per un’opera nuova. Gian Francesco Malipiero e l’epilogo

drammatico degli «Eroi di Bonaventura» (1968), in Malipiero-Maderna, cit., pp. 149-184; e sempre della stessa

EAD,Malipiero lavora alla Favola del figlio cambiato di Luigi Pirandello, in Dopo La favola del figlio cambiato: come rinasce una creatura innocente, Leo S. Olschki, Firenze 2002, pp. 1-56 («Studi di musica veneta. Archivio G. F.

Malipiero», I); G.MORELLI, Di tre ariette (più un coro) per un ‘Regolo’ senza Regolo, smarrite e ritrovate, in ID., La carica dei Quodlibet, cit. Di impianto più generale, cfr. G. FOLENA, La voce e la scrittura di Malipiero, cit.; GIGI

LIVIO, Itesti e le forme del teatro malipierano. “La favola del figlio cambiato”, in G. F. Malipiero e le nuove forme della musica europea, cit., pp. 112-136.

156 M.PIERI, «Io nacqui dannunziano…», cit., p. 6. 157 E.SALA, Malipiero al teatro greco di Siracusa, cit., p. 106. 158 M. PIERI, Sogno d’un teatro di mezz’autunno, cit., p. 69.

159 L. ALBERTI, Interpretazione registica e scenografica, cit., p. 56. Alla base v’è uno scetticismo di Malipiero,

uno scetticismo ‘cosmico’, assunto nei confronti dell’idea di ‘realtà’, quale può essere dunque l’oggettività, la sostanza drammaturgica di un’opera. Si veda il seguente passo, incipit del capitolo Un collezionista dalla

Pietra del bando: «è difficile illuderci che esista realmente tutto quello che appare ai nostri occhi. La realtà

non esiste: la luce e il nostro stato d’animo dominano e mutano ciò che vediamo e crediamo di vedere. Le nostre impressioni sono dunque subordinate a una infinità di avvenimenti che la vita ci presenta, o rappresenta, mentre noi stessi ci trasformiamo in attori, senza che però ci sia concesso di intervenire per mutare lo sviluppo della commedia (o tragedia) che recitiamo automaticamente dinanzi a noi stessi»; cit. in G.F.MALIPIERO, La pietra del bando, cit., p..

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confronti della componente scenico-visiva dello spettacolo, in maniera non meno ‘coerente’.

Nella teoria malipierana la musica prepondera, non per via d’una nuova gerarchia tra le arti ricostituita, ma quasi per una ragione ontologica, poiché «la musica è sempre teatro e l’immaginazione opera nostra malgrado», scrive Malipiero, «perciò l’intensità delle impressioni non oscilla né diminuisce per l’assenza della visione scenica».160 Molto significativo è quel che Malipiero

confessava a Gatti a proposito dell’opportunità di una pubblicazione di alcuni suoi libretti:

perché questa [iniziativa] può dare un’idea di ciò che io intendo per dramma musicale. Sintesi scenica-spiegazione delle situazioni drammatiche attraverso ciò che si vede.

Si canta quando il canto esiste nel soggetto.

La dizione è molto naturale, senza convenzionalismi. […] non ci sono motivi-conduttori e ciò è importante. La musica segue soltanto le vicende sceniche che qui sono sensazioni, null’altro che sensazioni».161

Il dramma dunque si «attua» mediante la musica e questa «intensifica» il dramma, ma non con un intento imitativo o descrittivo, attraverso la mimesis,162

quanto, si direbbe anche qui, tramite un procedimento analogico e funzionale – «la musica segue soltanto le vicende sceniche»:

il fascino della voce quale elemento drammatico mi suggerì le “Sette Canzoni”. L’attore muto, nell’azione non è un mimo, tace perché l’azione vuole così ed il cantante rimane attore perché la canzone è incidentale e l’azione la

esige. Per questo ho creato alcuni quadri, che pur sembrando staccati sono

legatissimi, perché, secondo me, chi li ha concepiti li ha visti sfilare uno accanto all’altro e la musica li ha legati formando un tutto omogeneo, omogeneo perché non erano staccate, ma continuate le sensazioni del musicista. – Dunque niente mimica, niente cantanti, ma azione drammatica

intensificata dalla musica.163

Questa convinzione a Malipiero venne confermata, pare, «dalla rappresentazione della Vergilii Aeneis, cioè di un’opera pensata per il concerto» – in realtà una vera e propria cantata in due parti – e per contro «mandata allo sbaraglio sulle scene veneziane»,164 nel settembre del 1944, divenendo motivo di

un’accesa polemica tra lui medesimo e il regista. Ma già nel 1928 si dava il caso di

160 G. F. MALIPIERO, Ti co mi, cit., p. 73. Si veda anche poco più avanti, dove il concetto viene ripreso

tale e quale: «tutta la musica è teatro, pure quando, ascoltandola ci suggerisce immagini ben precise, ma generate dalla nostra immaginazione, perciò, irreali e corrispondenti soltanto al nostro stato d’animo di un dato momento»; Ibidem, p. 100.

161 Il carteggio con Guido M. Gatti, cit., p. 53 (lettera del 17.XI.1919).

162 «Odio il programma nella musica e la stessa avversione ho per la musica imitativa, chiamata

erroneamente, qualche volta impressionismo. […] il musicista deve essere artista,e se ha qualcosa da dire lo dice sinfonica mante»; cit. in Ibidem, cit., p. 26 (lettera del 15.I.1918).

163 Ibidem, cit., p. 47 (lettera del 5.XIII.1919; corsivi originali). 164 G.F.MALIPIERO, Ti co mi, cit., p. 100.

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Merlino mastro d’organi, che «per la forma, come involontariamente è stato costruito, si può eseguire senza scena, quale «dramma sinfonico con cinque intermezzi vocali».165 Tale convinzione, tutta tesa contro l’idea di un teatro da

vedere (o tutta a favore di uno solo da ascoltare) – «persino la Morte d’Isotta si può sentire senza Isotta»166 – si coglie pure in un commento ai «frammenti sinfonici»

dall’Antonio e Cleopatra, nel quale Malipiero addirittura si lascia scappare detto:

Tanto questi frammenti sinfonici, quanto quelli delle Tre commedie

goldoniane, e gli altri tratti dal Giulio Cesare e da Ecuba, non possono vivere

così, separatamente. Preferibile sarebbe eseguire senza scena tutto il dramma (ah, se ciò si potesse fare con tutto il mio teatro! Ascoltarlo ad occhi chiusi, immaginando il resto).167

A questa innovativa sensibilità drammatica non si può dunque non commisurare il recupero del teatro monteverdiano, quel recupero che Malipiero avrebbe intrapreso in parallelo alla composizione delle opere appena citate: «è appunto nel sintetico [nella forma sintetica]», scrive egli a Gatti «che si può ottenere quel dramma musicale ch’io sogno, e nelle baruffe chiozzotte ho raggiunto una forma di “dialogo” ch’io ho abolito negli altri drammi, e che qui è ridotta ai minimi termini, perché “la sola vista” non può spiegare come nelle Sette canzoni e nell’Orfeo ciò che succede sulla scena».168

Tornando a Monteverdi, tutti quegli interventi di bisturi sul libretto di Striggio, nella versione per l’appunto detta «scenica», del 1943, di contrasto alla «zavorra», alla «verbosità» dei recitativi, o anche quel collage di frammenti di scene che è l’atto terzo della Poppea del 1949, come s’è schematizzato, comportano certo una forma abbreviata, rabberciata, menomata degli originali monteverdiani, ma nondimeno anche una loro espressione «sintetica», «adattata alle esigenze musicali», purificata dalle lungaggini e dalle ridondanze – beninteso, sempre del punto di vista del curatore. Se l’opera è viva, dunque, vive al presente e per il presente viene interpretata.

Molto significativo è un commento di Malipiero proprio sull’interpretazione dei recitativi monteverdiani, nel quale echeggiano forti le istanze di quella nuova «espressione drammatica» professata dal compositore.

Togliendo alla parola «l’arbitrio di risolvere le situazioni sceniche» – si tenga sempre a mente l’atto terzo della Poppea – e interpretando ora i «deprecati recitativi»169 come delle didascalie (!), delle «didascalie cantate» apposte al dramma

165 L’opera di Gian Francesco Malipiero, cit., p. 197. 166 Ibidem, p. 218.

167 Ibidem, p. 265.

168 Il carteggio con Guido M. Gatti, cit., p. 55 (lettera del 9.XII.1919). Malipiero intende qui l’Orfeo, ovvero

l’ottava canzone (1920), terza parte dell’Orfeide.

169 «La linea tracciata con le Sette canzoni, in questi due brevi drammi musicali [Filomela e l’infatuato e

Merlino mastro d’organi] è stata seguita ed ampliata, ché in tutti e due l’azione si svolge regolarmente,