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I NTORNO ALLE « EDIZIONI » DELLE OPERE DI M ONTEVERDI E DI V IVALDI Nell’età contemporanea, così s’è detto, ogni concessione alla materia è un

tradimento, una deformazione del pensiero medesimo, o ancor peggio un’insensatezza, poiché «è assurdo sperare che l’esperienza possa, riducendo a sistema ciò che è frutto dell’intuizione, dettar regole concrete e positive».93

Questa critica, già presente nella dialettica sopra descritta come un’istanza generale e astratta in sé – contro i trattati, le «regole», i «critici musicali» d’ogni epoca, etc. etc. – viene rapportata ora al problema dell’interpretazione, in termini concreti. Si declina, anzi, nei toni accesi e veementi di un j’accuse rivolto contro l’accademia, la «musicologia», l’intellettualismo, l’«archeologia» della musica (talvolta scaduta al livello di una macabra necrofilia)94 – tutte declinazioni di un

medesimo concetto, oltremodo astratto e ideologizzato – colpevoli agli occhi di Malipiero di favorire interpretazioni deformanti di tanta musica, non solo antica; e dunque di mistificare il pensiero di importanti compositori. L’argomento è diffusissimo e ricorsivo negli scritti malipierani, ed aumenta di peso (e di ostinazione) parallelamente allo sviluppo delle opere di «elaborazione» e di «edizione», trovando forse in Una voce nel deserto il suo maggiore acuto:

L’entusiasmo per la musica romantica compromise la musica del passato; per meglio penetrare nell’anima degli entusiasti ascoltatori essa aveva semplificato l’espressione armonica e per non frenare l’ispirazione aveva

92 Per una critica nel merito dell’edizione monteverdiana – cosa che qui non ci si propone affatto di

formulare – si rimanda a MARIA CARACI VELA,La filologia musicale, Lim, Lucca 2005, Vol. I: Istituzioni, storia, strumenti critici, pp. 137-138 e p. 184; o anche EAD, Madrigali-nel-tempo: diasistemi monteverdiani, in Atti del Convegno Claudio Monteverdi. Studi e Prospettive, Mantova, Accademia Virgiliana, 1993, Leo S. Olschki,

Firenze 1998, pp. 133-143.

93 ID., L’orchestra, cit., p. 34.

94 Cfr. ID., La pietra del bando, cit., p. 80 (si parla di «esumazioni»); ID. Claudio Monteverdi. Commiato, cit.,

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adottato una grammatica severissima, ma molto semplice. […] L’origine di tutta la sapienza dei musicologi del secolo scorso, soprattutto di quelli tedeschi, si limitò a dimostrare che nella musica antica i compositori avevano dimenticato quei segni (per una strana coincidenza chiamati «accidenti» che aggiunti trasformarono il nostro grande Monteverdi in un diminuito Beethoven.95

Non tutte le colpe, beninteso, sono imputate alla ‘musica teorica’ dei «musicologi», ma anche alla ‘musica pratica’ di musicisti e colleghi, che si accodano ai primi nella mistificazione del pensiero – il «mondo dello spirito» – degli autori del passato:

Le deformazioni [delle opere musicali del passato] sono tuttora in vigore e si realizzano in due modi: scientificamente e praticamente.

Scientificamente, dottori in lettere e filosofia svolgono le loro tesi inventando inesistenti difficoltà d’interpretazione della scrittura musicale allo scopo di rendere più sapienti le loro pubblicazioni, le quali purtroppo non entrano a far parte della vera cultura musicale.

Praticamente, certi compositori non disdegnano di elaborare tanto da renderle irriconoscibili, le opere del passato; o, per legge, più essi aggiungono del proprio e più aumentano i diritti d’autore. Tutti sono però d’accordo di non approfondire lo studio di quei fenomeni musicali che hanno lasciato solchi profondi, rendendo pericolose le vie di comunicazione col mondo dello spirito.96

Il problema dell’interpretazione deformante è dunque sensibilissimo per Malipiero, quale esempio il più tangibile di quella tecnocrazia della materia (o del segno) che accomuna tante esperienze disparate della modernità; dunque di un pensiero totalmente limitato, o corrotto in questo caso, dalla «materia».

Gli esempi di questa traviante sensibilità moderna sono sotto gli occhi di Malipiero. Il raffronto incessante con le edizioni di Monteverdi e Vivaldi fatte dai «musicologi», ad esempio, ne fornisce innumerevoli prove; e con insistenza il curatore individua che questi travisamenti si concentrano attorno a due elementi cardine dello «stile» dei compositori:

1. per quel che riguarda Monteverdi, come traspare già dall’ultima citazione, è l’adeguamento dell’armonia dei «modi antichi» a quella di un linguaggio emendato (o arricchito, a seconda) di determinati

95 Cfr. ID., Una voce nel deserto, cit., p. 255 (corsivo dell’autore). Ma su questo argomento si

confrontino anche ID., Claudio Monteverdi, cit., p. 38; ID.,La pietra del bando, cit., p. 80; i pensieri IV («La

invadenza dell’elaboratore distrugge un grande musicista portando in primo piano un piccolo compositore») e VII dall’Opera di Gian Francesco Malipiero, cit., pp. 330-331, 335-336; ID. Antonio Vivaldi. Il prete rosso, cit., pp. 32-34; ID., Ti co mi, cit. pp. 27; ID. Claudio Monteverdi. Commiato, cit., pp. 96, 103-104,

109-111; ID.,Antonio Vivaldi, in ID., Il filo d’Arianna, cit., pp. 118-122: 118-119 («la musicologia divenne

allora l’unica risorsa per i compositori falliti, i quali per non fallire una seconda volta, vestirono alla moda corrente i compositori del passato»); ID., La Cornacchia di Asolo, cit., pp. 153-154; ID. Pensieri, cit. in ID., Il filo d’Arianna, pp. 275-284, in partic. pp. 279-280; Così parlò Claudio Monteverdi, cit., pp. 10-11 («la

musicologia è forse un istituto di bellezza a rovescio?»). Si veda infine la voce «musicologo» dal Vocabolario

italiano della critica musicale, cit., p. 116.

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«accidenti», poiché, come ne ebbe a dire lo stesso Malipiero, «il sistema diatonico adottato nel XIX° secolo ha cancellato il senso dei modi, [laddove] le alterazioni servivano al passaggio da modo a modo e l’accidente serviva soltanto per la nota dinanzi alla quale veniva a trovarsi».97 È dunque il livellamento della varietà armonica e

della ricchezza di modulazioni, proprie della musica antica, e la sua normalizzazione alla stregua di un linguaggio più povero, temperato, grossomodo diatonico, e disprezzatamente tipo ottocentesco: la cosiddetta «armonia cadenzata».98 Termini di paragone utilizzati

(pretestuosi quanto basta) sono talvolta Beethoven, ma anche Wagner, Ponchielli ed altri operisti.99

2. Riguardo a Vivaldi, invece, sciolti i principali dubbi sulle tachigrafie e le abbreviazioni dei manoscritti, si tratta della questione delle legature di fraseggio e di espressione, che secondo Malipiero sono elementi centrali dello «stile» vivaldiano: nel diciassettesimo secolo, «e prima», spiega questi in una lettera a Eugenio Clausetti, direttore di Casa Ricordi, «l’arco più corto creò uno stile brillante (negli allegro) e più accentuato nei tempi lenti, dobbiamo rispettarlo». «Gli elaboratori (non parlo della nostra edizione, ma di tutti quelli che hanno pubblicato Vivaldi) seguirono lo stile delle arcate del XIX

97 Si trascrive da una lettera del 22.V.1967 inviata ad Annibale Gianuario, riprodotta

fotograficamente nel libello Gian Francesco Malipiero e l’arte monteverdiana: Annotazioni tratte da un carteggio, [a cura di Annibale Gianuario], Centro Studi Rinascimento Musicale, Firenze 1973, senza numero di pagina.

98 ID., Orchestra ed orchestrazione, cit., p. 103. Lo stesso concetto, detto «stile cadenzato», si trova

esemplificato in ID., Pietra su pietra, cit., pp. 485-486, n. 1.

99 La nota introduttiva (1926) dell’edizione degli Opera omnia monteverdiani, così come quella di

chiusura (il celebre Commiato, 1942), insistono molto su questo aspetto. Si veda la prima: «In questa edizione non si troveranno né amputazioni, né deturpazioni dello stile. L’originale si riproduce integralmente e fedelmente. La prodigiosa sensibilità armonica di Claudio Monteverdi viene rispettata perché non si considerano errori di stampa quegli “accidenti” che rappresentano l’espressione grafica di un musicista che non ha vissuto nel 1848»; cit. in ID.,[Prefazione] in Tutte le opere di Claudio Monteverdi, a cura di Gian Francesco Malipiero, Universal, Vienna 1954, Tomo I:Il primo libro dei madrigali a cinque voci (ed. or. Tutte le opere di Claudio Monteverdi, nuovamente date alla luce da G. Francesco Malipiero, s. e., Asolo 1926). Ed ecco la seconda: «Sulle deformazioni tonali e modali siamo intransigenti. L’aggiunta arbitraria di accidenti non è giustificata da nessuna regola, né legge, solo dal bisogno di cui sono vittime certi musicisti musicologi, di volgarizzare la musica»; cit. in ID., Commiato, in Tutte le opere di Claudio

Monteverdi, nuovamente date alla luce da G. Francesco Malipiero, Nel Vittoriale degli Italiani, Gardone Riviera 1942, Tomo XVI:Musica religiosa: III, p. 526; o anche «Monteverdi [usava] correntemente quei modi gregoriani che la maggior parte dei trascrittori, con l’aggiunta di arbitrari accidenti, distrugge in onore dell’ottocentesco sistema temperato e cromatico»; cit. in Prefazione, in Tutte le opere di Claudio Monteverdi, cit., Tomo XVI:Musica religiosa: I. «Se si alterano le armonie come hanno fatto tutti gli elaboratori

di Monteverdi, che rimane della sua espressione originale che ci è necessaria per respirare aria pura?»; cit. in L’opera di Gian Francesco Malipiero, cit., p. 333 (corsivi di Malipiero). Cfr. anche gli stessi argomenti in ID.,

La pietra del bando, cit., p. 110; ID., Così parlò Claudio Monteverdi, cit., p. 25; ID., Critica, cit., p. 231; ID.,Da venezia lontan…, cit., p. 50 («Perché si chiama moderna la tonalità dell’ottocento? Confrontato coi modi

antichi il diatonico non si può considerare una evoluzione spontanea. Se n’è approfittato per viepiù allontanare da noi la musica antica e creare la musicologia?»). Sui paragoni pretestuosi, oltre ai già citati riferimenti a Beethoven, si trovano paragoni a Ponchielli sempre in Critica, cit., p. 231; a Wagner in Claudio

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secolo».100 Dunque l’alterazione, la manomissione di tali legature in

base alla prassi contemporanea, o anche la loro integrazione non segnalata pedissequamente in parentesi quadra nel testo, equivale al traviamento del pensiero del compositore, né più né meno delle alterazioni del basso continuo e degli accidenti per il caso di Monteverdi.

Coerente con l’idea di un’interpretazione fedele al pensiero del compositore (che non è mai equivocabile, a meno che non lo si voglia travisare in maniera deliberata, come s’è visto nel paragrafo precedente), Malipiero giustifica così il proprio ideale di edizione, messo in pratica in tutti i suoi recuperi della musica del passato: «evitai», scrive in una lettera ad Antonio Fanna, direttore amministrativo dell’Istituto Vivaldi, «evitai di pubblicare una scelta di opere fatta seguendo i miei criteri e il mio gusto personale e corrispondente alla mia epoca».101

E soprattutto Malipiero si adopera in questo: una semplice opera di «copiatura». È un ideale che si richiama alla sua esperienza diretta, al suo vissuto, con tanto di un atto di nascita, sembrerebbe, all’inizio della sua formazione di compositore, nel 1902. Ricorda infatti che ventenne, alla Biblioteca Marciana:

copiai (sottolineo copiai perché non immaginavo si potessero introdurre

arbitrarie modifiche nella riproduzione della musica del passato: essa raramente presenta difficoltà nel decifrarla, le difficoltà le inventavano coloro che cercavano un pretesto per montare in cattedra) vi copiai dunque molti madrigali, cantate, sonate e brani dell’Incoronazione di Poppea del divino Claudio.102

Nell’anniversario monteverdiano del 1967, con ancora più chiarezza si rivolgeva ad Annibale Gianuario, futuro direttore del Centro Studi Rinascimento Musicale di Firenze, sciorinando una caustica sintesi dei problemi dello studio della musica antica:

Sono sempre più convinto che dal XVI° secolo in poi lo studio delle opere, cioè la copia delle opere che con Monteverdi entrano nel XVII°

100 Citiamo da una lettera del 5.X.1960 inviata ad Eugenio Clausetti, amministratore di Casa Ricordi,

conservata presso l’Archivio G. F. Malipiero della Fondazione Cini, Istituto della Musica,Venezia (AGFM); si veda tra i carteggi di Malipiero e Casa Ricordi. Cfr. anche: «nell’edizione di tutte le opere di Antonio Vivaldi vennero religiosamente rispettati gli originali, prima di tutto nel fraseggio delle arcate. Alla tentazione di mutare le arcate devono resistere i trascrittori e gli esecutori. Eliminare un assurdo abuso è di capitale importanza perché l’archetto, fino a due secoli fa era molto più corto di quello d’oggi e non rappresentava una deficienza per quei compositori che non lo conobbero com’è ora. Scrivevano le loro musiche adatte all’archetto di quelle proporzioni, dunque mutando le legature si compromette lo spirito delle opere per archi, non solo di Vivaldi ma di tutti i compositori che operarono prima dell’invenzione dell’arco più lungo (1780). Gli interpreti che aggiungo legature, cadono nel più deplorabile e deformante anacronismo»; cit. in G. F. MALIPIERO, Antonio Vivaldi: il prete rosso, cit., pp. 32-36;

argomentazione ripresa tale e quale in ID., Antonio Vivaldi, cit., p. 121 («è stolido anacronismo l’aggiunta

delle legature per il fatto che oggi si fabbricano archi più lunghi di allora»).

101 Lettera del 17.VIII.1950 inviata ad Antonio Fanna, conservata presso l’AGFM tra i carteggi di

Malipiero e Casa Ricordi.

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secolo, non presentano difficoltà, sono correttissime (specialmente le edizioni veneziane) [...].

Riconoscersi semplici copisti, dimenticare le modulazioni, capire la bellezza dei modi e rifiutare il titolo di musicologo, ecco quello che dovrebbero fare i monteverdiani.103

Da Monteverdi passando a Vivaldi la lezione appresa non muta, ma è riproposta scrupolosamente: «un musicista che interpreta Vivaldi deve essergli legato spiritualmente, comprendere la sua musica e per pubblicarla non occorre il medico chirurgo, basta l’umile copista, fedele, attento e diligente».104

Si ripropone, ancora una volta, quel che si diceva all’inizio. L’interpretazione della musica è un legame istintuale tra ‘intuizioni’ e ‘pensieri’ all’opera, diversi e distanti nel tempo; la «materia» è invece è un dato intangibile, da restituire nella maniera più rigorosa e oggettiva possibile – le edizioni «sono correttissime», del resto – senza intromissioni di qualunque sorta. (Oggi gli opera omnia di Vivaldi e di Monteverdi si direbbero un’edizione d’uso improntata a criteri di trascrizione semidiplomatici).

La presente contraddizione, riferita all’interpretazione della musica (antica) tra un intuizionismo dichiarato e un oggettivismo all’opera, si attaglia perfettamente anche al caso della performance, dunque all’esecuzione, tanto che Malipiero rigetta e disconosce a priori ogni interpretazione di Monteverdi eseguita sulla sua edizione, poiché la «volgarizzazione» apportata alla musica consiste in una deformazione dell’originale né più né meno che un’edizione a stampa del passato.105 E soprattutto perché anche in tale ambito Malipiero

persegue un analogo intento «oggettivista», evidentemente deluso tante volte:

l’esecutore è un più o meno perfetto apparecchio trasmittente che deve rinunziare alla propria personalità per compiere la missione che gli è stata affidata. Purtroppo molti esecutori si ribellano, deformando le opere che interpretano, si illudono di creare. Nasce da questa deformazione quella degli ascoltatori che reagiscono contro la monotonia dei programmi appassionandosi per gli esecutori “originali”. Dalla loro forma mentale e da un insieme di cose assurde abbiamo il diritto di dubitare, anche dal punto di

103 Lettera riprodotta in Gian Francesco Malipiero e l’arte monteverdiana, cit. (sottolineatura originale); vedi

n. 97 di questo capitolo.

104 ID.,Antonio Vivaldi, cit., p. 121. Di «chirurgia», negli stessi termini, si parla anche nel secondo

capitoletto di Così parlò Claudio Monteverdi, cit., pp. 17-22, intitolato appunto Chirurgia musicale. Si veda anche l’introduzione a Vivaldiana (28 ottobre 1952): «Più di cento Concerti di Antonio Vivaldi ho dato alle stampe. Mi vanto solo di aver fatto opera di umile copista, tanto corretti, precisi e indiscutibili sono i manoscritti vivaldiani. Non mi sono mai lasciato tentare dalle correzioni a scopo speculativo»; cit. in ID.,

Vivaldiana, per orchestra, Ricordi, Milano 1953.

105 «È per questa volgarizzazione che deploriamo le esecuzioni, trascrizioni, ripubblicazioni e

registrazioni fonografiche fatte sulla nostra edizione, grazie al cielo però non compromessa dal fatto che trascrittori ed esecutiori non hanno indicato la fonte. Se da un lato questa omissione ci conforta, dall’altro temiamo che la nostra fatica non abbia servito a rimettere in luce il vero e grande Claudio Monteverdi quando lo spirito speculativo continui a dominare: “mors tua vita mea”»; cit. in ID., Commiato, cit., p. 526.

Cfr. anche ID., Da Venezia lontan…, cit., p. 50 («Io ho potuto, leggendolo, capire tutto Monteverdi, mai ho voluto distruggere le mie impressioni assistendo a esecuzioni pubbliche delle quali indovinavo le arbitrarie deformazioni»).

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vista esclusivamente musicale, sulla sensibilità e comprensione degli interpreti.106

Ora, lo stridore del pensiero malipierano, sconvolto tra un intuizionismo professato e un dilagante oggettivismo di facciata è talmente forte che, si direbbe, deflagri a un certo punto, e dalla sua esplosione incomincino ad affiorare le tracce possibili di una sua ricomposizione, di un suo riordinamento.

La rottura, il traboccamento del pensiero ha forse, più d’altri, due luoghi privilegiati dove si produce, e ancora una volta riguarda la coppia Monteverdi- Vivaldi:

1. l’edizione delle opere teatrali di Monteverdi, qui con particolare riferimento all’Orfeo e alla Poppea;

2. l’edizione di alcuni concerti di Vivaldi per archi e strumenti a fiato; i concerti per fagotto ad esempio. Circoscrivendo tra le decine dei titoli in questione, editi dall’Istituto Vivaldi tra il 1947 e il 1958,107

possiamo considerare (almeno) quelli appartenenti alla serie nona della collana (tomi 201-225; pubblicati nel 1955), e cioè i tomi 214, 223, 224 e 225;108 i quali fornirono a Malipiero l’occasione per una

chiarificazione di alcuni principi interpretativi della musica vivaldiana, oltreché dei criteri editoriali preposti alla restituzione dei testi.

1. «Fino al quinto libro dei madrigali (1605) nulla si deve toccare, basta rendersi degni di comprendere il primo Monteverdi»,109 scrive Malipiero, ma «i

melodrammi non si reggono se non si purificano poeticamente».110 Poco dopo è

proprio Monteverdi in persona a ripeterlo, in una delle più note prove di «metempsicosi alla rovescia»: «I miei libretti vanno corretti da quei difetti che derivano dal poeta dilettante che attraverso la musica sfrutta la moda per mettersi

106 ID., La pietra del bando, cit., p. 108.

107 Si tratta dell’intera serie F. VIII del catalogo Fanna, che consta di trentasette «concerti per fagotto,

archi e cembalo», curati rispettivamente da Angelo Ephrikian (Tomi 12, 28, 34, pubblicati tra il 1947 e la fine del 1948) e Ugo Amendola (il solo Tomo 47; anch’esso del 1948). I rimanenti trentatré concerti vennero pubblicati a cura di Malipiero, a partire dal Tomo 67 (1949); in larga parte concentrati nel biennio tra il 1956 e il 1958 (ventiquattro titoli dei trentasette totali). Cfr. Opere strumentali di Antonio Vivaldi (1678-1741): catalogo numerico tematico secondo la catalogazione Fanna, cit., pp. 100-109 (Concerti per fagotto).

108 ANTONIO VIVALDI,Concerto in Sol minore per fagotto, archi e cembalo [Rv 496], a cura di G. F.

Malipiero, F. VIII n. 11, Ricordi, Milano 1955; ID.,Concerto in La Minore per fagotto, archi e cembalo

[Rv 499], a cura di G. F. Malipiero, F. VIII n. 12, Ricordi, Milano 1955; ID.,Concerto in Do Maggiore per

fagotto, archi e cembalo [Rv 477], a cura di G. F. Malipiero, F. VIII n. 13, Ricordi, Milano 1955; ID., Concerto in Do Minore per fagotto, archi e cembalo [Rv 480], a cura di G. F. Malipiero, F. VIII n. 14, Ricordi, Milano 1955; rispettivamente «Istituto Italiano Antonio Vivaldi», Tomi, 214, 223, 224 e 225.

109 ID., Così parlò Claudio Monteverdi, cit., p. 11. 110 Ivi.

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in vista».111 È invece in Claudio Monteverdi. Commiato che la contraddizione

intuizionismo-oggettivismo appare palese, e si dà proprio nella formulazione retorica dell’antitesi: «Una ripresa del teatro monteverdiano non è possibile, se non si restituisce alla musica il suo carattere originale, senza vandalici ritocchi e se non si ritoccano invece i libretti, perciò ho assunto le mie responsabilità rimettendo a nuovo l’Orfeo, il Ritorno di Ulisse in patria, e L’incoronazione di Poppea».112

Posto che, tra gli opera, l’edizione di Orfeo, rispetto agli altri due titoli, insegua l’ideale di una ristampa anastatica dell’edizione «In Venetia, appresso Ricciardo Amadino 1609», senza alcun tipo di intromissione del curatore (come del resto accade per tutte le opere a stampa di Monteverdi conservate),113 di

queste responsabilità assunte, in verità, non si apprende granché; neppure andando a leggere le prefazioni alle opere degli ultimi due bersagliatissimi librettisti. O per meglio dire: in quelle prefazioni, oltre a una latente insofferenza verso la materia poetica, viene solo esplicitato un principio chiaro, che suona un po’ come excusatio non petita e un po’ come richiamo all’exemplum storico – dunque a una sorta di dato di fatto inattaccabile. Il principio malipierano è il seguente: vuoi che i testimoni delle opere non siano autografi, vuoi che le circostanze intorno alla loro genesi non siano accertate del tutto, il libretto a stampa dell’opera non corrisponde mai a quello messo in musica. Basta questo per giustificare le famose responsabilità? Non si dice. Malipiero ha comunque una certezza, ed è che tra libretto e musica vi sono sempre delle «varianti» sostanziali.

Nel Ritorno di Ulisse, ad esempio, «il Prologo è già tutt’altra cosa, con altri personaggi, poi alcune scene sono tagliate, spostato l’ordine delle strofe e anche cambiati molti versi», ed è possibile, sostiene Malipiero, «che le varianti, che si riscontrano sotto la musica nel manoscritto di Vienna, siano state imposte dal musicista e che il poeta non le abbia approvate e perciò non trascritte nelle copie del dramma senza la musica».114 Del resto, «in molte pagine di quest’opera il

divino Claudio non è riconoscibile»,115 si taglia corto.

Nemmeno nell’edizione della Poppea, che «riproduce interamente ambedue i manoscritti – quello marciano e quello napoletano – dando però la precedenza a

111 Ibidem, p. 13.

112 ID., Claudio Monteverdi. Commiato, cit., p. 98. I medesimi argomenti sono estesi anzitutto nelle pagine

successive, nelle boutades rovesciate contro Giacomo Badoaro e Gian Francesco Busenello, Ivi, pp. 107- 109. Cfr. anche ID.,Da Venezia lontan…, cit., pp. 39-40 («il dramma musicale di tre secoli fa, senza il

soccorso del bisturi, dell’istituto di bellezza e dei raffazzonatori non si regge e si salvano per la loro bellezza soltanto pochi frammenti, mai l’opera integralmente»).

113 Si confrontino in questo caso tutti i frontespizi dei Tomi I-XI degli opera (che riproducono