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A TTO III (1931)

II.2 E SEGESI E TRASCRIZIONE DEI CONCERTI VIVALDIAN

Va senz’altro ad Angelo Ephrikian il merito dello scioglimento delle principali difficoltà e tachigrafie della grafia vivaldiana, e la fissazione dei primi e più importanti criteri editoriali degli opera.26 E più in generale, sempre ad

Ephrikian si deve il senso profondo e originario dell’operazione intrapresa dall’Istituto Vivaldi: l’idea di un’edizione che fosse pratica all’uso e pronta per una diffusione di massa, e che al contempo riportasse un testo accertato secondo criteri di «identità tra il testo manoscritto e quello stampato»,27 e «nulla, in

sostanza, di aggiunto, di modificato o di sostituito».28 In uno scritto

autobiografico dei primi anni Cinquanta, intitolato Il suono veneziano, è lo stesso Ephrikian a proporsi in una sintesi del suo operato:

M’accorsi che i tentativi che timidamente s’andavano facendo per riportare alla luce il patrimonio vivaldiano seguivano due vie sbagliate: da un lato le esecuzioni ricadevano nel solito errore delle “revisioni” senza rispetto e nei più insopportabili rifacimenti: dall’altro un tentativo editoriale, per quanto nobilissimo, avrebbe finito con l’offrirci una riproduzione pressoché fotografica dei manoscritti, corredati di molte annotazioni dotte, ma mancanti della realizzazione in scrittura coerente di molti segni caratteristici essenziali.

Fu per ciò che decisi di agire verso un’edizione che, assieme a un testo filologicamente impeccabile, presentasse una stesura pronta all’esecuzione e corredata dei corrispondenti materiali d’orchestra: ciò significava veramente

25 In una lettera del 13.I.49 a Ballo, Alessandro Piovesan, collaboratore alla direzione artistica della

Biennale, racconta che «il buon Maestro è venuto ieri a trovarci. In sostanza non è in disaccordo col tuo schema di programma [del Festival]. […] A proposito poi dell’ “Incoronazione di Poppea”, risulta che egli ne sta pubblicando (deve essere appena uscita a Parigi) una edizione, naturalmente ottima da pari suo, sfrondata di certe lungaggini e stonature. […] A me sembra, e sembra a Pallucchini e a tutti, che se la Poppea si deve fare, bisogna valersi della edizione di Malipiero a preferenza delle altre»; lettera conservata presso l’ASAC di Venezia, Fondo Musica, Fondo 1, Busta 2 (1942-1949).

26 Cfr. A.EPHRIKIAN, Nota introduttiva, in A. VIVALDI,Concerto in Si bemolle maggiore per violino,

archi e cembalo [Rv 367], a cura di A. Ephrikian, F. I n. 1, Ricordi, Milano 1947 («Istituto Italiano Antonio Vivaldi», Tomo I). Tale nota si riproduce (almeno) su ogni tomo della prima serie, a partire da primo. Ephrikian descrive qui il caso delle cinque più frequenti «formule grafiche» vivaldiane, mentre «altre formule, molto rare, verranno chiarite con note particolari a piè di pagina di partitura in cui si trovano realizzate. Tutti i segni non esistenti nei testi originali sono tra parentesi: non lo sono i segni che su quei testi non compaiono mai, perché in questo caso non può nascere equivoco alcuno (arcate, accenti, tratteggiature)». Come ne rende merito Jean-Pierre Demoulin, la lettura di Ephrikian, «à une époque où rien n’avait encore été clairement distingué, sauf par Marc Pincherle, qui sortit son ouvrage la même année, est remarquable et a dû attendre, pour trouver une analyse plus fine, la thèse de Peter Ryom Les

Manuscrits d’Antonio Vivaldi [1977]»; cit. in J. P.DEMOULIN, Angelo Ephrikian pionnier, cit., p. 106.

27 A.EPHRIKIAN,[Antonio Vivaldi], cit., p. 117. 28 ID., Nota introduttiva, cit.

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immettere nella vita musicale il grande patrimonio di Torino nella sua forma genuina.29

Come si vede, è questo un precetto del tutto corrispondente alle riflessioni di Malipiero sulla «copiatura» e sulla conformità di un testo a un dato «stile» musicale; ed anzi, possiamo credere che il compositore veneziano, cui fu proposto nel 1947 la prestigiosa direzione artistica della collana (su iniziativa dello stesso Ephrikian),30 sposò sin da subito e fece proprie quelle linee guida e quel

modus operandi definiti in origine dal direttore trevigiano.

Nel pensiero di quest’ultimo, il ritorno alla lezione originaria di Vivaldi (che è sempre opera di trascrizione) si riconduce a un problema più generale dell’interpretazione della sua musica, poiché questa deve essere sottratta al dominio della creatività e allacciata invece all’esegesi del dato storico. Va dunque commisurata all’evidenza delle testimonianze e dei documenti esistenti, evitando il rischio di una sovrapposizione arbitraria tra «immagini dell’autore»31 ed altre a

lui non appartenenti:

Ciò che lega l’interprete ad un limite è proprio l’esistenza di un fatto storico, che è il documento nel quale, con una serie di segni convenzionali, rimane fissata l’intuizione artistica.

L’interprete, appunto perché tale, non può in nessun caso sottrarsi al potere di questo documento. Né il fatto che esso consenta, per l’impossibilità di fissare graficamente alcuni elementi musicali come il tempo e l’intensità dei suoni, una certa discrezionalità all’opera dell’interprete, è sufficiente a dichiarar quest’ultimo svincolato da qualsiasi legame al documento. La verità è che questa discrezionalità è solo apparente: in realtà

29 Cfr. ID., Il suono veneziano, in Angelo Ephrikian e la musica strumentale italiana tra filologia e prassi esecutiva,

cit., pp. 29-33: 30 (oggi si legge anche in Angelo Ephrikian e la riscoperta vivaldiana, cit., pp. 25-31). Sulle deprecate «revisioni», valga quanto segue nelle pagine successive, o anche quanto detto sopra a proposito del pensiero di Malipiero (cfr. § I.3). Il riferimento alla seconda «via sbagliata», quella dei facsimili fotografici, trova invece una facile individuazione nelle pubblicazioni dell’allora attivo Centro di Studi Vivaldiani dell’Accademia Chigiana di Siena, colpevole agli occhi di Ephrikian di una diffusione dotta ma elitaria della musica di Vivaldi. Si vedano quali esempi: Fac-simile del concerto funebre di Antonio Vivaldi, con un discorso di A. Bruers per l’inaugurazione della V settimana [senese], con note e ricerche del Centro di Studi Vivaldiani, Ticci, Siena 1947 («Quaderni dell’Accademia Chigiana», 15); Fac-simile di un autografo di

Antonio Vivaldi, a cura di Olga Rudge, con note sul Centro di Studi Vivaldiani all’Accademia Chigiana,

Siena (1938-1947), Ticci, Siena 1947 («Quaderni dell’Accademia Chigiana», 13). A questi due titoli si aggiunga anche il primo e unico volume dell’incompiuta edizione delle opere a cura dell’Accademia Chigiana: ANTONIO VIVALDI, Edizione integrale dei manoscritti e delle stampe originali, a cura dell’Istituto di Alta Cultura con la collaborazione dell’Accademia Chigiana, Istituto di Alta Cultura, Milano 1947, vol. I/2: 12 sonate per violino e basso, ristampa dell’edizione Walsh di Londra, a cura di S. A. Luciani.

30 Ricorda Ephrikian, in una intervista del 1978 rilasciata a Roger-Claude Travers: «Il s’agissait alors

de proposer, pour l’édition, un directeur artistique qui lui apporterait du prestige, et en garantirait le serieux. Je pensai tout de suite à ce grand musicien qu’était Malipiero. Je me rendis un jour chez lui avec la première œuvre réalisée : un concerto en si bémol pour violon [Rv 367]. Il lut ma réalisation, compara avec le manuscrit, et dit “c’est parfait ! J’accepte d’être le directeur artistique”; l’Istituto Italiano Vivaldi fut alors créé par Malipiero, Antonio Fanna et moi-même pour faire le travail de préparation du matériel que Ricordi imprimerait»; cit. in ROGER-CLAUDE TRAVERS, Entretien avec Angelo Ephrikian, «Diapason: le

magazin de la musique, du disque et du son», n. 225, Février 1978, pp. 48-49: 49.

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l’interprete nulla può fare che non debba trovare una giustificazione storica; la sua fantasia è legata indissolubilmente dalla forza della tradizione, che è conoscenza razionale degli elementi storici in seno ai quali l’opera d’arte ha avuto la sua culla. Al di fuori di una simile concezione dell’interpretazione non rimane che arbitrio. […] Ciò che distingue autore da interprete serve anche a determinare i limiti delle facoltà di quest’ultimo: mentre l’atto creativo non ha altra giustificazione che l’intuizione dalla quale esso trae origine, l’atto interpretativo deve essere storicamente giustificabile e l’elemento fondamentale in cui debbono ritrovarsi i termini di questa giustificazione è il documento creato dall’autore. L’atto creativo si giudica con criteri estetici: l’atto interpretativo con criteri storici.32

La divisione paventata da Ephrikian appare netta, se non addirittura schematica, e può essere vista come il segno di una riconduzione del pensiero al tracciato di un saldo storicismo. Nondimeno va rapportata a un’operazione promozionale dell’Istituto Vivaldi nel panorama editoriale italiano, vale a dire allo smarcamento degli elementi di novità delle edizioni Ricordi rispetto alla norma delle revisioni e trascrizioni delle opere di Vivaldi, coeve e pregresse (possiamo pensare, ad esempio, a quelle degli anni Trenta e Quaranta,33 oltreché alle

pubblicazioni dell’Accademia Chigiana di Siena, sopracitate). Va ricordato inoltre che proprio contro l’arbitrio dei revisori si era scagliato Malipiero (con parole ben più accese rispetto ad Ephrikian), e già a partire dagli anni Venti, sostenendo un analogo approccio di tipo oggettivista (cfr. § I. 3).

Il lavoro di trascrizione dunque impone «un severo lavoro esegetico e filologico», continua Ephrikian, «perché questo intervento ha funzione critica»: «è analisi, non sintesi; è scienza, non arte; è interpretazione storica non affermazione stilistica».34 Lo spazio della libertà e dell’autonomia dell’interprete – una certa

«discrezionalità» e «fantasia» rispetto al parametro del tempo e dell’intensità dei suoni – è al contempo qualcosa che deve legarsi alla «forza della tradizione», alla riserva del passato.

Se da un lato l’interpretazione della musica, declinata perlopiù in un’accezione di tipo critico-testuale, si concepisce esclusivamente alla stregua della restituzione di un certo documento, la realizzazione sonora di quel documento, di quella musica «richiedeva ben altro lavoro»,35 ricorda il maestro

trevigiano. Il ritorno alla lezione originaria di Vivaldi, anzi, è soltanto il primo e ineluttabile passaggio di un’azione di recupero che, nel pensiero di Ephrikian, risulta ben più vasto e ambizioso: la riproduzione di un suono orchestrale autenticamente vivaldiano e veneziano – «il suono veneziano», per l’appunto.

È questa un’opera di «ricerca stilistica», ma di «uno stile completamente ignorato», dichiara Ephrikian, «vale a dire la messa a fuoco degli essenziali valori

32 Ibidem, pp. 118-119.

33 Su questo argomento cfr. almeno F.NICOLODI, Vivaldi nell’attività di Alfredo Casella organizzatore e

interprete, cit.; C. FERTONANI, Edizioni e revisioni vivaldiane in Italia nella prima metà del Novecento, cit.; F. NICOLODI, Gusti e tendenze del Novecento musicale in Italia, cit. (Cap. IV – La riscoperta di Vivaldi nel Novecento).

34 A.EPHRIKIAN,[Antonio Vivaldi], cit., p. 120. 35 ID., Il suono veneziano, cit., p. 32.

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espressivi della musica vivaldiana. […] quel fascino, che è la pura gioia del suono, di quel suono, ottenuto così come Vivaldi l’aveva segnato nelle sue partiture, con quella sua gran luce infinita senza contorni, con quelle sue infallibili intuizioni di colore, e con un preciso disegno che sarebbe orrore toccare».36

È altrove, in uno scritto del 1952 in omaggio a Malipiero, che Ephrikian descrive questa «gioia del suono» come una sorta di incantesimo sonoro, una qualità sfavillante del timbro strumentale che è fattore sostanziale della musica di Vivaldi: «gran parte delle partiture», scrive, «trovano la loro ragion d’essere in una specie di pazza frenesia sonora, di luce sonora, di gioia del suono».37 Il senso

stesso di questa musica si troverebbe allora, non tanto nello sviluppo e nel lavorio compiuto sul materiale tematico, né «nell’atteggiamento costruttivo, riflessivo e autocritico» della logica musicale, e neppure nel procedimento formale della semplice riesposizione (tonalmente variata) del materiale iniziale: ma nell’emancipazione, o meglio, nella vivificazione e nella sublimazione del timbro orchestrale – dunque nella strabiliante qualità acustica-sonora dell’orchestra vivaldiana. La musica di Vivaldi – come quella di Malipiero, scrive Ephrikian tentando un audace apparentamento – è «un’onda sempre rinnovata di invenzioni sonore»; e «la verità è che, nell’uno come nell’altro caso, la vita di quelle partiture è nel suono, che il suono vi opera prodigiosamente dal di dentro, che solo la luce del suono ne rivela l’autentica struttura».38

A proposito della concentrazione sull’elemento timbrico e spaziale della musica, non meno significative risultano i commenti di Ephrikian rivolti ai concerti e alle musiche da lui stesso diretti e/o curati. Il lessico del direttore è sempre un susseguirsi di immagini e descrizione visive e rappresentative, tipiche metafore di una sperimentazione del timbro orchestrale che è il tratto precipuo, secondo Ephrikian, di Vivaldi «questo mirabile frescatore».39 Nella già citata nota

per un Ciclo di musiche vivaldiane, Ephrikian estende i suoi commenti ad alcuni concerti già eseguiti alla ‘prima assoluta’ della Fenice:

Il senso armonico tradizionale viene aggredito e scosso e spesso sopraffatto da sbalorditive intuizioni. Il colore sonoro splende improvviso a vivificare nei modi più imprevisti dei disegni che, a tutta prima, sembrerebbero rientrare nella vivaldiana normalità. Ecco qui (come nel

Concerto in do maggiore per oboi, due clarinetti, archi e cembalo) tutto un

incredibile gioco di echi che trasformano il suono in spazio. Ecco (come nel

Concerto per l’Orchestra di Dresda) linea e colore che in alterne vicende si

sopraffanno l’un l’altro e vivono due vite in una e si fondono infine in un terzo tempo che è una delle concezioni musicali più ardite del prete rosso. […] E ne La Notte, per fagotto e orchestra, ecco un timbro strumentale intimamente assimilato farsi protagonista e di un nuovo mondo sonoro d’una suggestività indimenticabile. […]

36 Ibidem, cit., p. 30.

37 ID., Malipiero e la tradizione musicale italiana, in L’opera di Gian Francesco Malipiero, cit., pp. 179-186: 185

(corsivi dell’autore).

38 Questa, e le precedenti citazioni, Ivi (corsivi originali). 39 A.EPHRIKIAN,[Antonio Vivaldi], cit., p. 121.

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Tutto questo mondo di grandi luci e di grandi colori si acquieta di tanto in tanto nell’infinito spazio degli «adagi». Ora una sublime linea melodica disegna il suo corso perfetto sullo sfondo di sommessi ed immensi unissoni; ora invece sono poche battute di lente armonie in cui il pensiero sembra raccogliersi nella sua più segreta intimità […]. Ma in ogni caso l’adagio vivaldiano è meditazione e raccoglimento, laddove le altre parti del «concerto» sono espansione e movimento.40

Ora, il legame tra le due fasi della riscoperta vivaldiana – «l’impresa editoriale che mi proponevo», distingue Ephrikian, e «la realizzazione di quello stile strumentale del quale avevo sentito la necessità»41 – è dunque di natura

meramente operativa, come quello di un mezzo che viene piegato a un determinato fine. In linea con il pensiero malipierano, non pare difficile scorgere qui – e certo a prima vista – i contorni di una dialettica tra oggettivismo e soggettivismo, o tra documento ed opera, laddove al primo corrisponde il prodotto dell’iniziativa editoriale e alla seconda l’interpretazione musicale, intesa in senso performativo e volta, ora sì, a una finalità estetica. O anche, riprendendo il lessico ephrikiano, al primo corrisponde l’analisi e all’altra la sintesi, al primo la scienza e l’arte alla seconda, l’interpretazione storico-critica da un lato e dall’altro la «ricerca stilistica», l’«affermazione stilistica».

Ma il testo, come si vedrà nelle prossime pagine, pur assunto «filologicamente impeccabile», è solo il punto di partenza dell’invenzione creativa, conditio sine qua non per l’accensione del furor musicae; a volerla dire in maniera più radicale: un pretesto, sufficiente a liberare una nuova interpretazione nella quale può essere ammessa anche l’infedeltà alla lezione testuale, purché non si contraddica il «pensiero vivaldiano, che vien così restituito alla vita com’è e come ha voluto essere».42 (Anche in questa citazione, è notevole come sempre il

richiamo alla metafora della vivificazione, della riconduzione alla vita.)

Proprio come nel caso di Malipiero, dunque, l’oggettivismo di facciata si scioglie dentro ai confini di un’operazione ermeneutica e poetica di ben più ampio respiro. A maggior sostegno di questa prospettiva, si legga la seguente affermazione, pronunciata da Ephrikian a Treviso il 13 ottobre 1975, nella conferenza di presentazione della Poppea monteverdiana, quell’anno in cartellone all’Autunno Musicale Trevigiano nella revisione di Malipiero del 1949 (ma con nuovi tagli e aggiunte realizzati dallo stesso Ephrikian per il Festival trevigiano di quell’anno):

[Credo] che queste opere, nella misura in cui sono a noi contemporanee, cioè vivono ancora con noi, debbano essere eseguite ed ascoltate da noi, uomini del nostro tempo. Il risultato sarà quello che ci dirà se ciò che noi pensiamo e facciamo è valido o non è valido […] Cioè vorrei chiarire che di fronte a un testo – e qui aveva ragione Malipiero quando esigeva che il testo fosse filologicamente corretto; aveva ragione Malipiero quando esigeva che ciò che si leggesse su un libro stampato corrispondesse esattamente in modo

40 Ibidem, pp. 121-122. 41 Ibidem, pp. 31-32.

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filologicamente esatto a un originale – questo testo deve essere riletto e ogni generazione lo rilegge a modo suo. E’ ovvio che Vincent D’Indy leggeva l’Incoronazione in modo diverso da Malipiero, ed è chiaro che io oggi a trent’anni oltre di distanza dal momento in cui Malipiero, la rileggo ancora in un altro modo… fra trent’anni lo rileggeremo ancora in un altro modo, e sarà sempre lo stesso testo che proprio in questo modo dimostra la sua infinita vitalità.43

Va tenuto conto che ci troviamo ad affrontare la prospettiva di un direttore d’orchestra (pure compositore), per il quale il fatto interpretativo è un’attività produttiva che può tendere anche a fondersi con istanze che si potrebbero ritenere più prettamente compositive, come ad esempio l’interpolazione di tagli e aggiunte. Questa prospettiva di tipo ermeneutico avvicina peraltro Ephrikian a Maderna, di cui ci occuperemo nei prossimi capitoli (cfr. soprattutto infra § IV. 3); al contempo la prospettiva del direttore trevigiano si muove dentro ad un orizzonte teorico già fortemente segnato dalla presenza del maestro (cfr. I. 2): si percepisce palpabile il rinvio ad un significato dell’opera che è irreducibile al segno medesimo, donde l’apertura ad una ulteriorità di senso che è sempre latente nell’opera. O anche: il segno grafico quale limite, necessario ma stringente, del «pensiero».

Non vi è però alcun arbitrio. L’operazione ermeneutica, come si vede, risulta perfettamente coerente con quei limiti dell’interpretazione cui Ephrikian relegava l’azione del musicista, la discrezionalità del parametro del tempo e dell’«intensità dei suoni», ora estendibile a un’idea generale di vivificazione della dimensione timbrica del suono orchestrale. E soprattutto le scelte interpretative, s’è detto prima, a loro volta devo giustificarsi storicamente e devono muovere da un certo legame con il passato. Nell’idea del direttore trevigiano, il «suono veneziano» rappresenta, più che un’invenzione o una scoperta, una tradizione da riportare in vita, legata all’antica (vera o presunta) scuola strumentale veneziana, sorta con gli Ospedali settecenteschi, e di cui in età contemporanea si ravvisano ancora elementi di continuità. Riferendosi alle testimonianze storiche di Jean Jacques Rousseau e di Charles De Brosses sull’Orchestra della Pietà (quest’ultimo che «l’ascoltò sotto la personale direzione del “Prete Rosso”»),44 Ephrikian riesce

ad affermare:

Le loro espressioni s’accordano perfettamente con lo splendore formale e la luminosità sonora delle partiture torinesi. Se, come dicevo, la “gioia del suono” è la fondamentale caratteristica della musica vivaldiana, una sonorità splendente e purissima dev’essere la fondamentale caratteristica dell’“esecuzione vivaldiana”. Rousseau e De Brosses, concordi, ci

43 Citiamo da un riversamento di un bobina da 18 cm conservata presso l’Archivio del Teatro

Comunale di Treviso, ove si conserva l’intere registrazione della conferenza (1 h 30’ circa), avvenuta nel ridotto del Teatro, cui partecipano Mario Messinis, Angelo Ephrikian, Francesco Degrada, Sylvano Bussotti e Gioacchino Lanza-Tomasi; cfr. bobina da 18 cm n. 536 «INCORONAZIONE DI POPPEA», Archivio del Teatro Comunale di Treviso.

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testimoniano che queste qualità sonore erano proprie dell’orchestra della Pietà. Quali le ragioni? Una sola, forse, ma a ogni modo essenziale: l’unicità di scuola degli strumentisti. Vale a dire: tutte le esecutrici dell’orchestra uscivano dalla stessa scuola; tutte avevano la medesima tecnica d’arco; tutte emettevano il suono alla stessa maniera; l’intimo convincimento stilistico di tutte era spontaneamente, naturalmente, uno.

Quando, nel 1947, decisi di fare una tournée con le prime partiture, cercai di riprodurre (nella misura possibile al giorno d’oggi, in la contaminazione delle scuole è la norma) quelle stesse condizioni di unità. Fortunatamente a Venezia esiste ancora una certa nobile tradizione in fatto di strumentisti ad arco […]. Riunii i miei strumentisti dunque con somma cura tra i veneziani, ricercandone con scrupolo le origini di scuola. […] Con questo complesso (che chiamai appunto “della scuola veneziana”, ché tale era in realtà) si compì questo primo giro concertistico, con partiture eseguite nella loro stesura autentica e con un insieme che verosimilmente riproduceva le ideali condizioni della “Pietà”.45

Dunque è questo il legame con la tradizione paventato da Ephrikian. L’idea, quasi paradossale, è l’invenzione di uno stile musicale ‘autentico’, di tradizione, originario e, come inferisce Roger-Claude Travers, dichiaratamente made in Italy.46

L’operazione si direbbe del tutto congrua con una certa sensibilità malipierana di rapportarsi alla musica del passato, anche se in questo caso l’oggetto del pensiero