1. Metodologie pedagogiche attoriali: incontro, prodotto e produttore di reliance
1.1 L’alterità sceno-tecnica dell’attore straniero nelle prassi pedagogiche corporee
Per tutto l’inverno la nostra casa si trasformò in un angolo di Giappone [...] Ci insegnarono tutte le loro abitudini: il modo di camminare, inchinarsi, danzare e tenere il ventaglio. E’ un ottimo esercizio per il corpo [...] Prendevamo lezioni di danza e le donne imparavano le tecniche di seduzione delle geishe. Sapevamo girarci a tempo sui tacchi, mostrando ora il profillo destro ora quello sinistro, cadere a terra, piegarci in due come dei ginnasti, correre a piccoli passi ritmicamente, saltare e sgambettare con grazia [...] Avevamo imparato a destreggiarci con il ventaglio, a lanciarlo sopra la spalla e sotto la gamba e, soprattutto, avevamo fissato tutte le pose in una sorta di partitura musicale [...] (STANISLAVSKIJ, 2009, p.107-108)
Konstantin Stanislavskij non è stato soltanto il primo attore-pedagogo a identificare un sistema educativo destinato agli attori e organizzare un trattato direzionato specificamente alla pedagogia teatrale che mettesse in rilievo il problema dell’ educazione-formazione dell’artista a teatro; fu anche un artista in “connessione” con altre culture, tecniche e processi attorali. Infatti, nella narrativa del suo percorso di auto-formazione, soprattutto nella fase della “Maturità artistica” – quarta e ultima tappa del suo libro “La mia vita nell’arte” – egli non risparmiò di citare l’importanza (della “presenza”) dell’attore straniero durante sua formazione artistica teatrale. Guardare un’altra cultura, un altro modus
operandi, per fare delle domande, per fornire degli elementi e principi tecnici nel
campo dell’educazione attoriale.
[...] il principale oggetto delle mie osservazioni continuavano a essere i grandi talenti, sia russi che stranieri. Dal momento che erano i grandi talenti a raggiungere più spesso degli altri, praticamente sempre, la condizione creativa in scena, chi dovevo altro studiare se non loro?[ ...] (STANISLAVSKIJ, 2009, p.315)
Anche se troviamo già ne “La mia vita nell’arte” delle osservazioni sul modus
operandi e dei riferimenti alla “presenza” scenica dell’attore straniero, sarà
Stanislavskij riconoscerà l’importanza di confrontare idee, principi e metodi nel campo della ricerca artistica teatrale, anche se vengono da campi diversi.
[...] compresi che in varie parti del mondo, grazie a condizioni a noi sconosciute, persone diverse, in paesi diversi, con diversi punti di vista perseguono i medesimi principi artistici, in modo del tutto naturale. Incontrandosi, si stupiscono dell’affinità delle proprie idee [...] (STANISLAVSKIJ, 2009, p.346)
Proviamo, quindi, ad ammettere che Konstantin Stanislavskij sia stato il primo maestro-pedagogo a introdurre il “germe” dell’interculturalità nella prassi pedagogica del Novecento teatrale e a riconoscere l’importanza delle “connessioni” culturali diverse nel percorso della formazione-educazione dell’attore. Diceva appunto Stanislavskij che il contatto con l’altro, con la differenza, con un’altra tecnica, è un ottimo esercizio per il corpo e, (possiamo aggiungere) anche per la mente dell’attore. Tuttavia, se ammettiamo che Stanislavskij si sia “servito” dell’interculturalità come un elemento “didattico” durante il suo percorso autopegadogico e, come una sorta di modalità di lavoro su se stessi, dobbiamo riconoscere che soltanto con Jerzy Grotowskij (soprattutto dopo gli anni ‘70 quando ha annunciato che non avrebbe più diretto spettacoli) si potrà discorrere sull’inserimento di un modello transculturale nelle prassi pedagogiche destinate alla formazione dell’interprete contemporaneo.
Il villaggio transculturale che Grotowski insediò nella campagna polacca nell’estate del 1980 è stato un’esperienza indimenticabile per quanti vi giunsero dai quattro angoli del mondo. Le diverse azioni che si susseguivano, le modalità del silenzio e della solitudine “accanto agli altri”, nella natura, hanno aperto in certi momenti le porte della percezione, hanno permesso di cogliere una visione più vasta dell’esistenza: “nel mondo vivente, il corpo vivente. (POLLASTRELLI, 2006, p.19)
In quel “villaggio” di esperienze pedagogiche, Jerzy Grotowskij, giuntamente a un gruppo transculturale, ricercherà (mediante il programma internazionale “Teatro delle Fonti”) determinati principi e procedimenti tecnici riscontrabili nell’uomo
indipendentemente dalla sua cultura di appartenenza. Il progetto, di stampo transculturale, aveva come premessa lo studio di tecniche tradizionali, soprattutto quelle che portavano nella struttura (partitura) due aspetti fondamentali all’indagine: 1) essere tecniche drammatiche e, 2) essere tecniche ecologiche. Due aspetti che, secondo Grotowski, erano riscontrabili soltanto in quelle tecniche che consentivano all’uomo (oppure al performer) lo slancio, l’organicità dell’essere in azione e, la connessione con le forze della vita (psico-organiche), con il “mondo vivente”. Dunque, con Grotowskij e il programma internazionale “Teatro delle Fonti”, siamo davanti a un altro livello pragmatico nelle sperimentazioni pedagogiche teatrali del “secondo” Novecento teatrale. Diametralmente opposte da quelle praticate dal maestro-pedagogo russo. Infatti, mentre Konstantin Stanislavskij indagava e osservava l’alterità scenica con l’obiettivo di “copiare” determinati elementi (che egli considerava importanti) per lo studio-formazione dell’attore, Grotowskij, invece, propone un’altra concezione pedagogica di formazione attoriale: una “nuova” ideazione di un percorso pedagogico teatrale destinato alla formazione dell’interprete. Concezione pedagogica che assumerà l’altro (lo straniero) come un’entità vivente, unitas multiplex.
L’educazione dovrà fare in modo che l’idea di unità della specie umana non cancelli l’idea della sua diversità e che l’idea della sua diversità non cancelli l’idea della sua unità. Vi è una unità umana. Vi è una diversità umana. L’unità non è solo nei tratti biologici della specie homo sapiens. La diversità non è solo nei tratti psicologici, culturali, sociali dell’essere umano. Vi è anche una diversità propriamente biologica in seno all’unità umana; vi è una unità non solo cerebrale ma anche mentale, psichica, affettiva, intellettuale; inoltre, le culture e le società più diverse hanno principi generativi o organizzativi comuni (MORIN, 2001, p.55).
Di conseguenza, Grotowskij, durante sue sperimentazioni pedagogiche transculturali, cercherà di “cancellare” la specificità dell’attore per, in seguito, “condurlo” in un punto comune che è nell’essere umano, nell’uomo in azione drammatica. Sicché, l’alterità si trasformerà in una possibilità di studio di qualcosa che abbiamo in comune, di umano, e che va oltre una determinata
tecnica. Quindi, osservare una cultura non soltanto per fare delle domande specifiche su determinate tecniche, sulle abitudini culturali “stampate” nel corpo dell’uomo ma, piuttosto, osservare con l’intuito di conoscere dei principi tecnici che “precedono le differenze”, che fanno parte della conoscenza corporea dell’uomo. Non si tratta in questo caso, di circoscrivere, delimitare le differenze culturali ma, di tornare a una “fonte” comune, oppure, come sosteneva Jerzy Grotowskij, di ritornare “a qualcosa di così semplice come il movimento del bambino”.
[...] Il progetto è orientato verso il genere di azioni che “precedono le differenze”, e per questo motivo abbraccia persone provenienti da tradizioni e tecniche lontana l’una dall’altra [...] Le azioni introdotte da un indù sono accettate come corrette solo se funzionano quando fatte da non-indù, quelle introdotte da un haitiano solo se funzionano quando fatte da non-haitiani [...] (GROTOWSKI, 2006, p.100)
E’ come se Grotowskij (insieme ai suoi collaboratori) “camminasse” in direzione di una pedagogia, per dirla con Morin, della condizione umana; oppure, che spingendo al massimo la sua proposta di una “educazione negativa”1, il maestro- pedagogo incoraggiasse gli attori-allievi ad assumere una “presenza” altra, non più quella “estranea” appartenente alla loro cultura, ma all’uomo. Non più rappresentante di una determinata cultura, specialista di una tecnica, ma individuo capace di riconoscersi e, nello stesso momento, accogliere l’idea di un bio- psichico umano che è nella “fonte”. Non più un’alterità scenica-corporea o
ensemble di alterità destinate a riempire determinati vuoti lasciati nel campo della
formazione corporea-vocale dell’attore (cioè, la giunzione di tecniche specifiche in un unico training senza motivi pedagogici chiari e coerenti) ma un interprete capace di accedere alle forze presenti nell’ “architettura” corporea umana.
1
Riguardo all’argomento sulla via negativa come modello pedagogico rimando a: GROTOWSKI, Jerzy. “Per un teatro povero”. Bulzoni editore, 1970, pp.22-23-329
ROUSSEAU, J.Jacques. “Emilio o dell’Educazione”. Arnaldo Mondadori Editore. Roma, 1997, pp.95-96