• Non ci sono risultati.

1. Metodologie pedagogiche attoriali: incontro, prodotto e produttore di reliance

1.3 Azioni pedagogiche meticce: l’ibridismo culturale-tecnico nei process

Questo è antropofagismo: non un vorace ingurgitare l’altro, non un grossolano riempirsi di piatti esotici, non un cieco assorbire proteine multi-kulti; bensì raffinate selezioni di parti corporali da smembrare, cucinare nelle proprie salse e finalmente ingerire. La capacità di cogliere e deglutire pezzi selezionati di cose-persone- segni provenienti da fuori (e di defecarne i resti) è sintomo di costante movimento – non solo intestinale – e rielaborazione. Il palato non è immobile, bensì guida, sceglie, giudica, rifiuta, sputa, gusta. (CANEVACCI, 2004, p.10)

Se consideriamo le prospettive transnazionali del XX secolo e l’“identità diasporica” come fatti determinanti della produzione culturale contemporanea occidentale, come sostiene il sociologo britannico Paul Gilroy nel suo libro “The black atlantic [...]”(2003); e se riteniamo gli incontri-pedagogici come produzione culturale, allora può essere fattibile considerare le ricerche teatrali nell’ambito dell’educazione fisica-corporea attoriale, svolte dai gruppi-laboratori durante il Novecento teatrale, soprattutto dopo gli anni Cinquanta, come ricerche teatrali “meticce”, cioè percorsi metodologici composti da “pezzi selezionati di cose- persone-segni provenienti da fuori”, da diverse culture e rielaborati in un’altra struttura “mobile” – la concezione “mobile”, qui utilizzata, riguarda e fa riferimento a determinate strutture metodologiche, percorsi educativi attoriali non cristallizzati, cioè un modello pedagogico “aperto” e organizzato attraverso le interconnessioni culturali, le “migrazioni” ed i “contagi” fra tecniche teatrali europee e modus operandi extraeuropei.

Ho avuto modo di studiare tutti i principali metodi europei ed extraeuropei per l’allenamento degli attori. Fondamentali per gli scopi da me perseguiti sono stati: gli esercizi ritmici di Dullin, gli studi di Delsarte sulle reazioni estroverse ed introverse, l’opera di Stanislavskij sulle “azioni fisiche”, l’allenamento biomeccanico di Mejerchol’d, le sintesi di Vachtangov. Sono state anche molto stimolanti per me le tecniche dell’allenamento del teatro orientale – in particolar modo l’Opera di Pechino, il Kathakali indiano, e il teatro No giapponese. (GROTOWSKI, 1970, p.22)

Anche se sosteniamo che le ricerche teatrali realizzate dai gruppi-laboratori nell’ambito pedagogico e educativo dell’attore contemporaneo, siano delle ricerche che assumono una metodologia con caratteristiche ibride, e quindi le abbiamo chiamate ricerche pedagogiche “meticce”; non vogliamo affermare che esse siano sintesi di procedimenti diversi, un mixer di tecniche europee e extraeuropee. Vogliamo, al contrario, sostenere che sono ricerche che ammettono le “migrazioni” e i “contagi” – di tecniche e informazioni contrastanti – come una possibilità metodologica dialogica: un modus operandi. Di conseguenza, se da un lato è inevitabile non riconoscere le “migrazioni” culturali delle matrici orientali e asiatiche (nonché le sue tecniche teatrali estremamente codificate) nelle ricerche dei maestri pedagoghi durante il Novecento teatrale; dall’altro lato non dobbiamo neanche scordarci di individuare e legittimare la matrice culturale africana e le sue tecniche corporee come una “fonte” tradizionale fondamentalmente importante alle ricerche contemporanee in ambito pedagogico di formazione attoriale. Non a caso, le danze, i canti e gli schemi delle forme ritualistiche tradizionali africane – questo “linguaggio” estremamente strutturato in codici di comportamento disciplinati nel più piccolo dettaglio, dal movimento del corpo all’emissione della voce – sono diventati oggetti di studio delle indagini di Jerzy Grotowskij nel campo dell’ educazione-formazione del performer; egli infatti riconoscerà questo linguaggio corporeo-vocale strutturato, riscontrabile nei fenomeni di possessione

Voodoo di matrice afrohaitiano, come uno stato di disponibilità organizzato,

preciso, molto efficace nel campo della pedagogia attoriale.

Nel 1973 presso la sede del gruppo Odin Theatre, in Danimarca, il sociologo Roger Bastide, noto studioso sul fenomeno dei candomblés in Salvador Bahia, Brasile, tenne la conferenza: “Disciplina e spontaneità nelle trance afro- americane”7. Un colloquio che obbiettivò mettere in discussione i rapporti fra teatro e i culti di possessione di matrice africana e, rendere chiaro agli studiosi

7

occidentali la differenza fra trance “selvaggia”8 e la possessione ritualistica organizzata. Nell’analisi sul fenomeno della possessione, Roger Bastide identificherà elementi socializzanti fondamentali per “controllare e manipolare in modo da farla servire al bene della comunità [...]” (BASTIDE, 1976, p.112); e altri elementi di carattere specificamente educativo che permetterà alla Yalorixá o al Babalorixà di manipolare la capacità del neofito di cadere in trance e di organizzare un suo linguaggio corporeo-vocale non ancora articolato muscolarmente. È importante dire che è mediante il processo di educazione e conoscenze delle regole che lo stato “selvaggio” della trance sarà “controllato”, organizzato muscolarmente, e quindi non sarà più una forma senza contenuto ma invece un “linguaggio” articolato, espressivo, sostenuto da una “grammatica” muscolare e vocale che il neofito dovrà imparare per essere capace di ricevere un altro corpo ed essere efficace durante l’atto ritualistico. Dunque, è mediante la disciplina stabilita dal processo educativo corporeo-vocale, presente nel fenomeno del Candomblé oppure nel Voodoo haitiano, tutti e due fenomeni della stessa matrice africana degli Yorubas, che il neofito sarà spontaneo nelle performances ritualistiche.

Disciplina e spontaneità. Due elementi fondamentali all’efficacia dell’atto ritualistico nelle culture afro-americane. Due insegne – coniunctio oppositorum dell’ “atto totale” – , sostenute da alcuni pedagoghi-ricercatori contemporanei nelle indagini sperimentali dei processi educativi attoriali. Difatti, l’analogia fra l’attore-santo grotowskiano, colui che mediante la disciplina e la spontaneità, offrirà suo corpo in “sacrificio”, e il filho de santo, colui che “userà” suo corpo per incorporare miti, danze estatiche, canti vibrazionali (gli orikis), gesti e atteggiamenti degli dèi appartenenti al culto degli Orixás, potrebbe essere utile farci comprendere come determinati elementi della cultura tradizionale afro- americana sono stati introdotti, “immigrati”, nell’educazione corporea-vocale

8

La trance “selvaggia” è uno dei criteri, ce ne sono altri, la malattia, il sogno, la scoperta di un oggetto bizzarro, della volontà degli dèi di “montare” sugli uomini. (BASTIDE, 1976, p.112)

dell’attore contemporaneo e, come lo studio di questo “[...] linguaggio (insieme motorio e vocale) che ha il suo vocabolario, le sue regole grammaticali, la sua sintassi” (BASTIDE, 1976, p.117) è stato fondamentale alle ricerche di Jerzy Grotowskij, soprattutto quelle svolte nel campo dell’arte come veicolo.

Ho cominciato a chiedermi come tutto ciò fosse legato all’energia primaria, come – attraverso diverse tecniche elaborate nelle tradizioni – si sia cercato un accesso a questo antico corpo dell’uomo. Ho fatto molti viaggi, letto molto libri, trovato molte tracce. Alcune di queste tracce sono affascinanti come fenomeni: per esempio, nell’Africa Nera, la tecnica delle popolazioni del deserto del Kalahari che consiste nel far “bollire l’energia”, come dicono loro. Lo fanno per mezzo di una danza estremamente precisa. Questa danza è complicata e molto lunga (dura ore e ore), dunque non la posso utilizzare come strumento: prima di tutto perché è assai complessa, in secondo luogo perché è troppo legata alla struttura di pensiero propria della gente del Kalahari, e terzo, perché per gli occidentali sarebbe quasi impossibile tenere la danza per un tempo così lungo senza perdere l’equilibrio mentale. Dunque è fuori questione, ma è chiaro che in questo caso è il “corpo rettile” ad agire. Dove esiste qualcosa di simile? Nello zar etiope, per esempio, e nel vudù degli Yoruba in Africa, e anche in certe tecniche praticate in India. [...] Ora guardiamo quello che accade nei derivati delle tradizioni. Esiste nei Caraibi e specialmente ad Haiti un tipo di danza che si chiama yanvalou e che è praticata, per esempio, al momento dell’apparizione di un mystère, di una divinità [...] Qui è tutto più semplice, e c’è un legame semplice con il “corpo rettile”. Non c’è niente di strano: lo si può decisamente definire artistico. Ci sono dei passi precisi, un tempo-ritmo, le onde del corpo e non solo della colonna vertebrale. Se fate yanvalou, per esempio, assieme ai canti relativi al Serpente Damballah, il modo di cantare e di emettere le vibrazioni della voce aiuta i movimenti del corpo. Dunque si è davvero di fronte a qualcosa che possiamo padroneggiare artisticamente, proprio come un elemento di danza e di canto. (GROTOWSKI, 2007, p.71-72)

Dunque, se le tecniche provenienti dai derivati delle tradizioni africane possono diventarsi uno “strumento” capace di portare gli attori occidentali in contatto con l’energia di un corpo arcaico, “rettile”, come appunto riconoscerà Grotowskij, possiamo quindi ipotizzare che la matrice afro-americane, mediante “ il suo vocabolario, le sue regole grammaticali e la sua sintassi”, sia un “nuovo” laboratorio di performances corporee-vocali efficace nel campo pedagogico educativo dell’attore contemporaneo? E, se accettiamo questa ipotesi, come

possiamo studiare gli elementi (tempo-ritmo, passi, schemi corporei e suoni) riscontrabili nelle strutture organizzate di danze e canti vibrazionali, “migrati” dalla tradizione culturale afro-americana nelle ricerche teatrali contemporanee? E’ fattibile stabilire un’analogia tra il filho de santo – colui che agisce di maniera organizzata e efficace mediante l’uso di un “linguaggio (insieme motorio e vocale)” – e l’attore-santo grotowskiano che “[...] fa dono totale di sé [...]” mediante “[...] la tecnica della “trance” e dell’integrazione delle energie psichiche e fisiche [...]”? (GROTOWSKI, 1970, p.47). Possiamo confrontare l’atto espressivo non disciplinato (“forma di caos biologico”) dell’attore con la forma non regolata dello stato della trance “selvaggia”, pericolosa poiché può provocare una “catastrofe per la salute mentale del fedele”?

[...] Il sincretismo è un orixá in movimento e del movimento: contro gli immobilismi psichici, le riproduzioni stanziali, le teorie cicliche, le fermezze teoriche, le fermate archetipiche. (CANEVACCI, 2004, p.23)

2. Altri modus di operare con la tradizione: elementi moto-vocali della matrice