[...] i rapporti interpersonali possono favorire la salute e la crescita del cervello attraverso forme di comunicazione collaborative, che coinvolgono le capacità di recepire i segnali che ci vengono trasmessi, di riflettere sull’importanza degli stati mentali, e di sintonizzarsi a livello non verbale con gli altri. (SIEGEL, 200, p.89)
L’educazione dell’avvenire, sostenne Edgar Morin (2001), dovrà comprendere un insegnamento primario e universale che verta sulla condizione umana. Siamo nell’era planetaria; un’avventura comune travolge gli esseri umani, ovunque essi siano devono riconoscersi nella loro comune umanità, e nello stesso tempo devono riconoscere la loro diversità, individuale e culturale. I processi educativi del futuro dovrebbero sostenere le confluenze delle conoscenze scientifiche e umane, poiché esse porterebbero nell’educazione il pensiero integrativo, opposto al sistema disgiuntivo che, secondo Morin, concepisce la nostra umanità in modo “[...] insulare, al di fuori del cosmo che la circonda, della materia fisica e vivente della quale siamo costituiti, così come è impossibile pensarla con il pensiero riduzionista, che riduce l’unità umana a un substrato puramente bio-anatomico” (MORIN, 2001, p.48). Perciò, il filosofo francese corrobora, mediante il suo modello a “triade ad anello”1, che i percorsi educativi del futuro non potrebbero essere dissociati da questi elementi a triade, poiché la complessità umana e “[...] ogni sviluppo veramente umano significano sviluppo congiunto delle autonomie individuali, delle partecipazioni comunitarie e del sentimento di appartenenza alla specie umana” (MORIN, 2001, p.55-56).
1
La prima triade ad anello è quella del cervello-cultura-mente; la seconda, come sostiene l’autore, è definita dalla concezione del cervello triunico di MacLean, ed è composta da ragione-affetto- pulsione; e, finalmente la terza composta da individuo-specie-società. In MORIN, Edgar. “I sette saperi necessari all’educazione del futuro”. Milano, Raffaello Cortina Editore, 2011, p.53-54.
E quindi lo svolgimento di un programma pedagogico di stampo tipicamente integrativo porterebbe il pedagogo e lo studente ad assumere “[...] la condizione comune di tutti gli umani e della ricchissima e necessaria diversità degli individui, dei popoli, delle culture [...]” (MORIN, 2001, p.62). Se accettiamo come sostiene Morin (2001), l’importanza dei processi integrativi nell’educazione dell’avvenire e se concordiamo con lui che le confluenze delle conoscenze scientifiche e umane sono fondamentali per instaurare un’altra tipologia di discorso nei programmi educativi dell’uomo del futuro e che le esperienze interpersonali favoriscono le connessioni neuronali ed influenzano i processi della nostra mente durante tutta nostra esistenza e plasmano la struttura e le funzioni del nostro cervello (SIEGEL, 2001, p.86-87) sorge allora la seguente questione: di quale modo, le convergenze scientifiche sperimentali svoltesi nel campo della neurobiologia, riguardanti soprattutto l’impatto delle esperienze interpersonali sulla mente, potrebbero essere adoperate in ambito pedagogico e, nel nostro caso specifico, nel campo della formazione dell’attore contemporaneo? Questi saperi delle scienze “dure” possono inaugurare nuove modalità e prassi metodologiche di trasmissione- comunicazione di saperi tecnici attoriali? Mediante quali principi e strumenti? E per concludere, l’attore-pedagogo potrebbe servirsi della teoria sul meccanismo funzionale della “simulazione incarnata” per rinforzare e proporre nuove metodologie in ambito educativo teatrale?
La possibilità di stabilire dei colloqui fra conoscenze discoste, come la neuroscienza cognitiva e il teatro, ormai è una realtà concreta e fattibile. Nel XX secolo, soprattutto dopo gli anni ‘60, abbiamo visto crescere, sempre di più, l’interesse dei ricercatori e uomini di teatro per le nuove possibilità dialogiche tra questi saperi così opposti ma allo stesso tempo integrativi2: gli studi e i contributi teorici di Richard Schechner nell’ambito delle attività performative; le riflessioni
2
“L’incontro fra il teatro e le scienze si è consolidato negli ultimi trent’anni anche grazie a una serie di importanti iniziative internazionali, sovente promosse da uomini di teatro o da teatrologi che hanno contributo a sviluppare la discussione sulle basi neurobiologiche delle arti performative.” De Marinis, Marco. In, “Culture Teatrali”, n.16, 2007, p.7.
di Eugenio Barba sulla biologia dell’attore e gli studi di Victor Turner sulle cause neuro-bio-fisiologiche delle espressioni performative umane organizzate sono alcuni esempi sull’importanza delle confluenze scientifiche nel campo degli studi teatrali contemporanei3.
L’incontro per un nuovo dialogo fra teatro, scienze umane e neuroscienze trova i suoi presupposti teatrologici, le sue premesse teoriche e i suoi appoggi anche nei Performances Studies, del regista e studioso Richard Schechner e dell’antropologo Victor Turner, che non hanno disdegnato, nell’elaborazione dello “spetro ampio” delle attività performative, un criterio neurobiologico e funzionalistico della performatività umana organizzata, nonché dalle ricerche avviate a metà degli anni Novanta come il progetto di ricerca elaborato da John J. Schranz insieme agli scienziati cognitivi Richard Muscat e Glyn Goodall denominato xHCA (questioning Human Creativity as Acting), o quello di Jean Marie Pradier che va delimitando un preciso campo d’indagine pluridisciplinare, che ha alla base una teoria biologica, denominato “Ethnoscénologie [...] (MARITI, 2009, p.65-66)
Anche se è ben visibile che in seguito all’imponente scoperta del sistema dei neuroni specchio4, da parte dell’equipe dei ricercatori dell’Università di Parma, in Italia si è visto sempre di più uno stabilirsi di colloqui, convegni internazionali, pubblicazioni, conferenze e worskhop che si avvalgono dell’apporto delle neuroscienze applicate alle attività teatrali. Non possiamo non riconoscere l’importanza dei saperi scientifici già diffusi negli studi e ricerche teatrali del primo Novecento, anzi prima ancora visto che, secondo Luciano Mariti (2009), il
3
“[...] la teatrologia è stata da sempre un territorio di frontiera, una disciplina di contrabbandieri addestrata a confrontare e revisionare l’autonomia della propria composita matrice disciplinare. Una matrice, che non potendo non considerare il funzionamento dell’uomo nella sua duplicità di uomo-attore in relazione all’uomo-spettatore, è storicamente disposta, più di altre, al dialogo con vecchie e nuove “scienze dell’uomo”. MARITI, Luciano. In, “Dialoghi tra teatro e neuroscienze”, Edizioni Alegre, Roma, 2009, p.47.
4
“Agli inizi degli anni Novanta venne scoperta una nuova classe di neuroni motori in un settore della corteccia premotoria ventrale del macaco, conosciuto como area F5. Questi neuroni scaricano non soltanto quando la scimmia esegue dei movimenti manuali finalizzati a uno scopo, come afferrare oggetti, ma anche quando osserva altri individui (scimmie e esseri umani) che eseguono azioni simili. Questi neuroni sono stati chiamati, per l’appunto, neuroni specchio.” GALLESE, Vittorio. In, “Culture Teatrali”, n.16, 2007, p.16. Ulteriori informazioni sull’argomento rimando al libro: “So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio”, di Rizzolatti Giacomo e Senigaglia Corrado, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006.
teatro inizia “un dialogo inevitabile con la scienza moderna nel Settecento, proprio nel momento aurorale delle scienze umane”:
Accanto alla comunità degli scienziati si forma quella degli studiosi di teatro, e proprio sul tema della sensibilità, scoperte scientifiche e teorie della recitazione si intersecano, determinando una nuova trattatistica teatrale, fondata per la prima volta su basi dichiaratamente “scientifiche”. Una trattatistica inaugurata dallo studio di Johan Jakob Engel Ideen zu
einer Mimik pubblicato a Berlino da Mylius nel 1785-86, il cui
proponimento è analizzare l’uomo attore con lo stesso metodo positif con cui ormai si indaga il funzionamento dell’uomo “fisico” e “morale”: un oggetto di studio che non è meno apprezzabile “dall’osservatore che non fu il polipo di Trembey e il pidocchio delle foglie da Bonnet.” (MARITI, 2009, p.56-57)
I maestri-pedagoghi si serviranno quindi delle nuove conoscenze scientifiche del XX secolo per “comporre” e edificare i loro processi di ricerca sull’educazione dell’attore moderno. Anche se non troviamo nei manuali pedagogici di Konstantin Stanislavskij riferimenti sull’influenza delle teorie scientifiche nell’organizzazione del suo metodo pedagogico, è risaputo che il regista- pedagogo fosse interessato alle nuove scoperte nel campo della psicofisiologia sovietica e che probabilmente non ignorava gli studi sulla riflessologia di Théodule-Armand Ribot (1839-1916). Interessante e rivelatrice invece sarà l’informazione del dottore Aleksandr R. Lurija (1902-1977), neuro-psicologo sovietico che si è occupato dello sviluppo dei processi cognitivi in varie opere pubblicate negli anni ‘30. Nel suo libro, “Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla”5, pubblicato in italiano alla fine degli anni ‘70, il dottore Lurija sostiene che il maestro russo S. M. Ejzenstein accompagnasse e addirittura conversasse con il suo paziente, il signore “S”6, con l’obiettivo di studiare la
5
LURIJA, Aleksandr R. “Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla”. Roma, Armando Armando Editore, 1979, pp. 67-68.
6
Il caso del signore Seresevskij, conosciuto come il caso del signore “S.”, riguarda una lunga ricerca sostenuta dal neuro-psicologo sovietico sull’affascinante mente di un uomo che non riesce a dimenticare nulla di tutto ciò che percepisce. Per quasi trent’anni, l’autore ha avuto la possibilità di osservare in modo sistematico un uomo, la cui memoria è senz’altro fra le più notevoli di quelle descritte in letteratura. L’interesse del dottore Lurija non era rivolta all’estensione o alla stabilità della memoria del suo paziente, ma al contrario, ai meccanismi attraverso i quali una memoria così
percezione sinestesica delle parole e in quale maniera il loro suono condizionerebbe la determinazione del loro senso e significato. “[...] L’impressione che le parole producono in “S.” diviene la misura della loro espressività e non è a caso che S. M. Ejzenstein, che aveva fatto della psicologia dell’espressività il tema centrale del suo lavoro, conversasse con lui con la più grande attenzione” (LURIJA, 1979, p.67). Infatti, non a caso, l’esame richiesto da Ejzenstein per selezionare gli studenti per la facoltà di regia dell’Istituto di Cinematografia, era appunto la riproduzione di un esperimento sulla percezione dell’espressività condotto dal dottore Lurija durante le sue ricerche con il paziente “S.”7 I candidati dell’Istituto di Cinematografia dovevano descrivere il loro modo di percepire nomi quali Marija, Meri, Marusja, e solo quelli che sentivano meglio l’espressività dei suoni delle parole, venivano scelti da Ejzenstejn.
Secondo Mariti (2009), la scoperta dei neuroni specchio rinforza scientificamente le esperienze dei padri fondatori del teatro del Novecento, in particolare del teatro russo (Mejerchol’d, Ejzenstejn, Stanislavskij, Evreinov), e a partire dagli anni Settanta, dell’Antropologia teatrale. Infatti, il ponte dialogico stabilito fra la neuroscienza e l’Antropologia teatrale è naturale, come sostiene Vittorio Gallese (2008) poiché l’Antropologia teatrale: 1) assume il corpo dell’attore come uno strumento-bios operativo di “tecniche corporee” in un contesto sociale, 2) realizza“[...] la dissezione del comportamento dell’attore [e] riconduce la totalità della sua espressione a una molteplicità di livelli di organizzazione delle prassi corporee di movimento [...]” (GALLESE, 2008, p.14). Quindi è ovvio, sostiene la studiosa Falletti (2008), l’interesse che la scoperta del sistema specchio ha per chi si occupa di teatro e di quegli aspetti non marginali del teatro che sono la relazione attore-spettatore o il training dell’attore.
eccezionale condizionerebbe tutti gli aspetti essenziali della personalità di un individuo, la sua mentalità, la sua fantasia, il suo comportamento.
7
Per ulteriori informazioni sull’esperimento del dottore Lurija rimando al libro “Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla”, pp. 67-68.
Tuttavia, prima ancora della scoperta dei meccanismi neuronali di rispecchiamento nell’uomo8 e le proficue interconnessioni dialogiche degli studi teatrali con le acquisizioni di questi nuovi saperi scientifici, forse, sarebbe opportuno rivedere come un’altra teoria, la teoria del cervello trino, sorta alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso nell’ambito delle ricerche sulla neurobiologia, non così nota come la grande scoperta dei sistema mirror, potrebbe rivelarsi una via di conoscenze significante nell’ambito degli studi pedagogici teatrali. Si tratterebbe cioè, di comprendere in che modo le tre forze compresenti all’interno della neuro-struttura biologica dell’uomo, fondamenta della teoria sul cervello umano trino, potrebbero servire ai soggetti-ricercatori (pedagogo e studente) coinvolti nei processi educazionali.
8
Secondo Mirabella, Giovanni “La scoperta dei neuroni specchio e delle loro proprietà funzionali ha immediatamente aperto una questione cruciale: esiste un sistema di neuroni specchio (chiamato anche “sistema mirror”) nell’uomo? Fino ad oggi nessuno ha mai registrato una cellula “specchio” nel cervello dell’uomo. Tuttavia ci sono molte prove indirette che tale sistema effettivamente esista anche nell’uomo”. In, “Nuovi dialoghi tra teatro e neuroscienze”. Roma, Editoria e Spettacolo, 2011, pp. 35-36.