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35altrui ed ogni volta ire a seconda

tra veri amici poco si conviene. (vv. 1-6)

L’autore si rivolge ad un ignoto amico affetto dalla sifilide e inaspet- tatamente, prendendo una posizione clamorosamente in contrasto con la drammaticità della situazione oggettiva, anziché compatirlo, se ne rallegra. Conoscendo la metamorfosi positiva che in realtà la malattia produrrà in lui, egli non si preoccupa di risultare inopportuno, sgradevole e irritante, perché un sincero sentimento di amicizia è nemico della falsità e dell’opportunismo, che inducono a lusingare (stropicciar tanto le rene) e assecondare (ire a seconda), ma spinge a dire sempre la verità, anche quando essa appaia incredibile, tanto lontane e diverse o addirittura opposte sono le forme sotto le quali si presenta. Queste prime terzine indicano altresí la linea fondamentale lungo la quale si svilupperà il discorso metaforico, perché – come si è detto qui sopra – il

mal di cui si parla, cioè il mal franzese, altro non è che il membro virile, che

all’autore dorrebbe, se l’amico lo rivolgesse verso di lui. Invece se ne rallegra, perché tra veri amici, ovvero tra soggetti eterosessuali, quali entrambi sono, non è lecito (poco si conviene) il rapporto sodomitico, tanto quello attivo (stropicciar

tanto le rene altrui) quanto quello passivo (ire a seconda).

Oscura è l’origine del male, come del resto era stato già costretto a riconoscere anche Girolamo Fracastoro nel primo libro della Siphylis:

Che principio non ha si può provare da’ versi che n’ha fatto il Fracastoro, che son sí dotti e non lo san trovare (vv. 22-24)

Ma la parte piú interessante, nella quale la vis comica scaturisce dal coe- rente gioco di corrispondenze tra i due piani di significato su cui si sviluppa l’intero discorso poetico, è ovviamente quella dedicata alla descrizione delle mirabolanti trasformazioni prodotte dalla malattia. Persino i vizi capitali ce- dono il posto a comportamenti moralmente e sessualmente virtuosi:

Voi sapete che grave e gran difetto è la superbia: ei la fa star umíle

assai piú d’uno agnello o d’un capretto. E s’ei truova chi sia misero e vile,

lo tratta sí, che per forza diventa tutto splendido, largo e signorile.

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E la lussuria, come brace, spenta riman, l’ira piacevole e la gola

d’ogni piccola cosa si contenta:

anzi, si fa cosí buona figliuola, ch’ell’è stata talor quaranta giorni,

com’or voi, a biscotti ed acqua sola. E s’ella si avviluppa e ch’ella torni

al cacio, a’ frutti, al vin bianco, al vin rosso, ei le fa mille strazi e mille scorni.

D’invidia non ha mai pontino addosso; dell’accidia non dico: l’è nimica

piú che non è amico il can dell’osso. (vv.55-72)

Probabilmente da questi versi Ortensio Lando trasse poi spunto per il suo decimo paradosso, Meglio è l’esser debole e malsano, che robusto e gagliardo, per sottolineare il dovere di compiacersi della malattia, anziché dolersene, in quan- to essa redime moralmente l’uomo, annullando in lui i vizi piú deprecabili:

Doveremo per certo ralegrarsi, e non tristarsi, dell’infermità, poiché l’Apostolo dice d’esser piú forte quando egli è piú infermo. Non è mai l’infermo gonfiato dalla soperbia, né combattuto dalla lussuria; non lo molesta mai l’avarizia, non l’affligge l’invidia, non lo fa alterato l’ira, non lo soggioga la gola, non lo ritarda dal ben oprare l’accidia, né lo punge l’ambizione8.

Occorre però notare soprattutto come, stabilita sulla base delle rispet- tive caratteristiche l’identificazione del membro virile con il mal franzese, sono le sue determinazioni funzionali a condizionare qui la scelta dell’area semantica in cui trovare la piú adeguata e coerente espressione eufemistica. È perciò lo strumento che, appagando pienamente il desiderio, umilia la

superbia, antica metafora dell’erezione e può convertirsi dall’eterosessualità

normale alla sodomia attiva, come l’avaro (misero e vile) in splendido, largo

e signorile; asseconda ogni passione (lussuria) fino alla sua totale estinzione

e trova il modo per placare l’eccessivo ardore sessuale (ira); modera la

gola, il desiderio compulsivo di ogni tipo di cibo, che metaforicamente

equivale a un’analoga inclinazione sul piano erotico, accontentandosi di 8 O. Lando, Paradossi, cioè sentenze fuori del comun parere, a cura di A. Corsaro, Roma,

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agire soltanto in sodomia (piccola cosa, ‘ano’), anche se le sue caratteristiche morfologiche sono tali da renderlo adatto alla normalità (non soffrendo di invidia, esso infatti non ha le dimensioni ridotte del fallo specializzato in rapporti sodomitici) ed è sempre pronto all’azione, non conoscendo svogliatezza o impotenza (accidia).

La vigoria del mal franzese, requisito proprio dell’agens nei rapporti sodo- mitici etero e omosessuali, cerca invece, attraverso il consueto ribaltamento dei valori reali, ingegnose equivalenze eufemistiche nell’àmbito delle orribili trasformazioni fisiche causate dalla malattia, sorprendentemente proposte come forme e figure di suprema perfezione estetica, tanto che nemmeno Policleto, celebre scultore dell’antichità greca, autore del Doriforo, o i pittori piú illustri riuscirebbero a riprodurne l’armonia e la bellezza:

E rispondendo a certi babbuassi, che voglion dir che questa malattia tutto il corpo ci storpi e ci fracassi, dico che questa è una gran bugia e che a un come voi, savio e discreto, non fece mai una tal villania, ché se risuscitasse Policleto, quanti scultori e dipintori pregiati fur mai, costui gli faria star adrieto. Non vedete voi i visi dilicati

ch’ei fa? Come che i membri rozzi ingrossa, empie gli smilzi e doma gli sforzati? Come imbianca la carne troppo rossa? Come fa comparir ch’è ’l fondamento dell’arte le giunture, i nerbi e l’ossa?

Come il capo, le ciglia e gli occhi e ’l mento sí gentilmente pela, netta e sbuccia,

ch’un par di cinquant’anni, ed hanne cento? (vv. 133-150)

Non è difficile notare qui che, nel ritmo incalzante con cui si susseguono le domande traboccanti di metafore scabrose, il passaggio cruciale riguarda tanto i visi che diventano delicati, con riferimento all’acquisizione del savoir faire richiesto nei giochi di Sodoma, quanto la metamorfosi subíta dai membri rozzi e da quelli smilzi, rispettivamente “ingrassati” e “riempiti” dal mal franzese, che in tal modo li fornisce del turgore necessario per sperimentare, con funzione

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attiva, le varianti della Venus aversa. E si noti ancora, nelle terzine successive, lo straordinario affollamento di sostituti fallici (giunture, nerbi, ossa e capo, ciglia,

occhi, mento) associati a termini che designano il fondoschiena (fondamento) e

la perizia tecnica (arte) e a verbi che denotano l’agire in sodomia (pela, netta e

sbuccia), attraverso il quale l’autore, mentre offre un’immagine icastica e ironica

al tempo stesso del dimagrimento fisico del malato e del suo aspetto glabro e pustoloso, si compiace altresí di rappresentare l’intraprendenza dell’agens, che ha la forza per costringere i propri partners, indifferentemente maschili o femminili, a un ruolo meramente passivo.

Esempio tipico di cascade des trouvailles, il capitolo del Bini si segnala per la serrata coerenza con cui procede nel complicatissimo e sofisticato gioco linguistico tendente a sovrapporre e ad assimilare piani espressivi diversi e molto lontani tra loro: quello della materia oscena e quello di una malattia, la sifilide, a sua volta contemporaneamente sottoposta a una rivalutazione paradossalmente positiva che – come si è visto – da condi- zione di dolore e di sofferenza la trasforma in fonte di effetti benefici o addirittura palingenetici riscontrabili – oltre che nella sfera spirituale – nel miglioramento intellettuale e fisico dell’uomo. Ecco allora che le varie combinazioni erotiche, le attitudini e le possibilità di impiego degli oggetti sessuali riescono a trovare appropriate metafore nel delimitato campo lessicale delle arti liberali: l’astrologia, per esempio, comunemente usata come sinonimo di astronomia, indica l’attitudine ai rapporti sodomitici; la musica, suonata con vari strumenti, consente di descrivere i modi e le posizioni del coito; la geometria, con le sue forme piane e solide, richiama i diversi oggetti sessuali; la matematica, scienza dei numeri e dei calcoli, e perciò metonimicamente designata dall’abaco, allude probabilmente alla capacità o alla possibilità di regolare il movimento, or forte or piano, durante il coito, e cosí via. E poché ogni parte del discorso, per avere un senso, deve essere ricondotta nel logico sviluppo del motivo ispiratore generale del capitolo, ovvero l’elogio dell’organo maschile, tutto ciò a cui, qui e altrove, si fa riferimento tende a sottolinearne il ruolo attivo nei rapporti etero e omosessuali, donde la dichiarata incompatibilità del mal franzese con il sonno, accanitamente combattuto in quanto nimico di virtú, spezie di

morte e quindi simbolo della passività.

Un ulteriore svolgimento delle osservazioni sulla matrice principa- le – quella linguistica – di questo tipo di testi porta altresì a focalizzare l’attenzione su un’altra loro peculiarità, finora non rilevata dalla critica specialistica. In tutti i capitoli «in lode», dei quali, per le ragioni crono- logiche già esposte, questo del Bini può essere considerato una specie di subarchetipo, il senso letterale, pur attenendosi strettamente alla descrizione

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dei tratti pertinenti dell’oggetto elogiato, è sempre paradossale, mentre quello erotico, generato da uno straordinario tour de force verbale, non lo è mai. La realtà sessuale alla quale di volta in volta si allude è, infatti, la stessa di cui ciascun lettore può avere concreta e diretta esperienza. Tenendo presente però che la scelta tematica prioritaria e condizionante è quella erotica, il paradosso è l’espediente retorico che lega in maniera funzionale il discorso letterale a quello metaforico. Ne consegue che è appunto questo speciale rapporto dialettico, anzi agonistico tra i due diversi piani espressivi, ciascuno dei quali mostra i segni di un trattamento preliminare che gli consente di “dialogare” con l’altro, l’innesco creativo della poesia laudativa, e di quella biniana in particolare, che in tal modo si propone come erede e continuatrice, ma con una significativa complicazione intellettualistica e linguistica, della tradizione carnascialesca, i cui meccanismi genetici sono stati già svelati da Riccardo Bruscagli quando afferma che «Il compito espressivo degli autori fiorentini carnascialeschi non è soltanto quello dell’allusione felice, del doppio senso riuscito; bensí quello di assumere un’area semantica chiusa, legata all’esercizio di un’arte […], e di riuscire a tradurla integralmente on un ulteriore livello di senso»9.

Basterebbero le rapide considerazioni fin qui svolte a proposito del pro- totipo della poesia erotica cinquecentesca a disperdere definitivamente ogni residuo pregiudizio che in qualche misura trattengono questa produzione nel campo dell’improvvisazione goliardica e corriva o del puro e semplice divertimento. Siamo invece di fronte a un testo e a una letteratura di cui è visibile la complessa elaborazione concettuale e strutturale, la sapiente com- posizione di piani espressivi diversi, l’inesausta capacità inventiva, la grande padronanza tecnica e la serietà delle intenzioni culturali. Al capitolo biniano in particolare deve essere riconosciuto, inoltre, non solo il primato storico e il valore esemplare assunto presso i poeti Vignaiuoli di cui si è già detto, ma soprattutto un piú evidente e complicato impiego del paradosso, che ha dato luogo a una prova di eccezionale arguzia linguistica.

La preminenza del Bini all’interno dell’Accademia strozzina sembra consolidarsi con la composizione del successivo Capitolo contra le calze, con il quale l’autore si afferma come iniziatore di un diverso modo, rispetto a quello bernesco, di trattare il tema erotico: non piú attraverso l’elogio paradossale, bensí attraverso il dispregio. Tra i precedenti noti si possono segnalare soltanto un anonimo canto carnascialesco, il Trionfo in dispregio dell’avarizia, e il So-

9 R. BruScaGli, Introduzione, in Trionfi e canti carnascialeschi, a cura di R. B., Roma,

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netto contra la primiera del Berni, una specie di palinodia di uno dei suoi otto

capitoli «in lode». È difficile stabilire se il Bini abbia tratto spunto da questi testi per sperimentare una nuova forma espressiva nel campo della poesia erotica. Certo è, invece, che la sua iniziativa, se non fu immediatamente ripresa dagli amici “romani”, ebbe però un discreto successo tra i continuatori della poetica del doppio senso. Basti qui ricordare, ad esempio, il Capitolo contra lo

sberrettare di Mattio Franzesi, alcuni dei capitoli del Grazzini (In dispregio degli zoccoli, In disonor della caccia, Contro al pensiero, In dispregio de’ guanti), il Capitolo contro a le campane di Agnolo Bronzino o il Capitolo contro alle dette con cui

Benedetto Varchi ritratta le lodi precedentemente tributate alle uova sode. Dove si deve notare che, pur restando immutati i meccanismi compositivi e di travestimento metaforico della realtà sessuale, il sovvertimento della na- tura del discorso non mancò di apportare innovazioni strutturali al canone bernesco, tra le quali spiccano innanzitutto la scomparsa del paradosso e la conseguente semplificazione intellettuale e linguistica del rapporto tra i due livelli semantici. E vengono meno anche alcune parti piú o meno topiche di questi componimenti, soprattutto l’excusatio dell’autore che dichiara la propria inadeguatezza o incapacità a trattare l’argomento prescelto o l’invocazione alle Muse o ad altra fonte di ispirazione, benché si debba notare come l’incipit del testo biniano («Mai non è stata, se ben mi ricordo, / usanza mia di dir mal di persona», vv. 1-2) sia costituito da una rielaborazione del v. 190 del capitolo bernesco contro l’elezione di papa Adriano VI: «L’usanza mia non fu mai di dir male»10.

Attraverso il vituperio delle calze, indumento molto aderente e perciò fastidioso e scomodo da indossare, e nei 316 versi che lo compongono e lo rendono uno dei piú lunghi dell’intera produzione erotica cinquecentesca, il capitolo biniano vuole esprimere una profonda avversione nei confronti della sodomia, la cui pratica è difficile, faticosa e innaturale come appunto l’uso dell’oggetto deplorato:

Mai non ha l’uom le piú gran storte e strette, piú fatica, piú noia e piú faccenda,

che se le calze si cava o si mette e ’l viso par che s’infuochi e s’accenda, la carne infranta, i nervi tronchi e rotte l’ossa e si stracchi ogni forza e s’arrenda. (vv. 145-50)

10 Si tratta del capitolo Nel tempo che fu fatto papa Adriano, per il quale cfr. Poeti del

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Nucleo genetico del ragionamento e, al tempo stesso, elemento di sutura tra la lettera e la metafora è la contrapposizione tra costumi antichi e moderni, tra naturalismo e civiltà, tra comportamenti istintivi dettati dalla necessità di soddisfare in maniera diretta bisogni essenziali e pratiche artificiose finalizzate al conseguimento di piaceri accessorî, indotti dal progresso e dalle sovrastrutture culturali: uno schema dialettico nel quale si riflette fedelmente l’analoga opposizione tra rapporti sessuali normali e, appunto, sodomia. Generalmente, nei testi erotici, la sodomia è presentata come prerogativa delle persone evolute e appartenenti a un ceto socio- culturale alto, per le quali essa è un’alternativa ai rapporti normali o un arricchimento degli stessi, mentre caratteristiche proprie dell’uomo che viveva allo stato di natura erano, infatti, tanto la consuetudine a camminare a piedi nudi, senza calze, quanto l’esercizio erotico svolto esclusivamente per vie ordinarie. Esempi se ne trovano in quantità e Bini li cerca innanzitutto nella Bibbia, dove il “vizio” di Sodoma, offendendo le leggi di Dio, viene severamente punito e dove perciò nessun personaggio compare “calzato”:

comincisi dal Nuovo Testamento:

non si vedrà – ch’io creda – in libro al mondo un pedul, non ch’una calza drento.

[…]

Eva non portò calze né Adamo né Moïsé, visto il rubo incombusto, né Iacobbe né Isacche né Abramo né santo alcun né bëato né giusto né romito né frate alcun perfetto né chi ha di ben viver voglia o gusto. (vv. 31-33 e 265-70)

Una chiara intenzione satirica contro le abitudini aberranti degli ec- clesiastici si deve cogliere pertanto nella precisazione che il frate perfetto va

scalzo, con la quale l’autore stigmatizza, per contrasto, la condotta depra-

vata che ha consentito a una lunga tradizione letteraria di trasformare i

frati personificazioni della sodomia. E si aggiunga, inoltre, su questa linea,

il riferimento a Giulio II, che – com’è noto – impose a Michelangelo di “rivestire” le figure degli affreschi della Cappella Sistina e, per questo, qui è accusato di avere «un po’ del tondo» (v. 36), cioè di essere sciocco e rozzo, ma anche di essere dedito alla sodomia passiva. Il colpo è ben diretto, dal momento che le inclinazioni sessuali del pontefice erano note a tutti e sono puntualmente riferite dagli storici e dai diaristi contem-

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poranei, tra i quali basti qui ricordare il veneziano Girolamo Priuli, che nei suoi Diarii annotava: «[Giulio II] conduzeva cum lui li sui ganimedi,

id est alchuni bellissimi giovani, cum li quali se diceva publice che l’havea

acto carnale cum loro, ymmo che lui era patiente [‘passivo’] et se dilectava molto di questo vitio sogomoreo, cossa veramente abhorenda in chadauno

virile sexu, maxime in uno Pontifice»11, cui si può aggiungere l’incipit di una

pasquinata anonima del 1534, che post mortem rilancia la fama del papa: «Sixtum lenones, Iulium rexere cinaedi» [‘I lenoni signoreggiarono Sisto IV, i cinedi Giulio II’].12 La posizione dell’autore non appare comunque

dettata da scrupoli morali o religiosi. Per lui, infatti, la sodomia è sempli- cemente un atto inutile, sterile e forzato, non previsto dalla natura, che ha creato tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno per vivere felicemente, e certo non le sarebbe mancata la possibilità di procurargli anche le calze o altri indumenti («giubbon’, saioni e veste, / berette, scarpe e simil’ frascherie», vv. 59-60), ad esse omologati funzionalmente e metaforicamente, «se fussin state o utile o oneste» (v. 63). Essendo inoltre riservati soltanto alla ristretta

élite dotata di savoir faire, i giochi di Sodoma sono soprattutto un affronto

alle sue leggi, ispirate a principî di universalità e di necessità:

E l’arte sempre fa qualche pazzia, quando ch’ella non segue la natura, ch’opra né tempo mai non getta via. (vv. 40-42)

Assumere comportamenti o svolgere attività non conformi o in con- trasto con quanto previsto dagli ordinamenti naturali conduce, dunque, fatalmente alla pazzia, ovvero alla degenerazione, artistica e sessuale. Per uno spirito educato al gusto classico e al culto dell’antichità, tale veri- tà non poteva che essere derivata dal fondamentale principio poetico umanistico-rinascimentale dell’arte come imitazione della natura: un principio profondamente sentito e vissuto come norma etica generale, e perciò sottolineato in tutto il capitolo attraverso una serie di esempi e di riadattamenti storici e letterari che tengono legati i due livelli di senso.

Infatti, per un letterato completamente imbevuto di classicismo, eru- dizione e antiquariato, quale appunto era il Bini, l’intera questione non poteva che porsi nei termini già richiamati della contrapposizione tra 11 G. Priuli, I Diarii, a cura di R. Cessi, in L.A. Muratori, Rerum italicarum scriptores,

Bologna, Zanichelli, 1938, to. xxiv, parte iii, vol. iv, p. 312.

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antichi e moderni, che si sviluppa sulla base di uno schema argomentativo tradizionale, nel quale la corruzione dell’età presente è vista come conse- guenza ineluttabile dell’abbandono dei virtuosi costumi di un tempo («il male è che noi lasciamo / sempre il costume antico pel moderno», vv. 107-8). La polemica si concentra perciò sugli inconvenienti e sui danni procurati dall’uso delle calze: le ginocchia diventano molli come provature (= ‘formaggio fresco’), le cosce dimagriscono, i lacci e le cuciture rodono, il panno scalda, ecc., per cui «[…] siamo ora storpiati, or marci, / pieni sempre di mille malatie», vv. 56-57). L’ortodossia naturalistica degli uomini del passato ha consentito invece di condurre una vita felice e la realizzazione di imprese memorabili, paradigmaticamente riprese dall’autore. Il «tempo di Saturno» (v. 232), la mitica età dell’oro in cui tutti vivevano senza pene, senza fatiche, senza conflitti, è il momento in cui piú alta e chiara si manifesta la saggezza dell’uomo, che non aveva bisogno di vesti, calze o scarpe e non disperdeva le proprie energie in attività vane e ingiustificatamente complicate. Dalla letteratura, dalla storia, dai testi sacri affiorano poi personaggi che, per le loro caratteristiche, ma soprattutto per il fatto di non aver mai usato le calze, erano diventati i simboli dell’eterosessualità normale. Ecco allora Rinaldo, Orlando e Morgante, nessuno dei quali «potria con questo impaccio [= le

calze] / stare un’ora, una meza, un quarto, saldo» (vv. 113-14) e quindi non

avrebbe potuto rendersi protagonista delle eroiche gesta per le quali ciascuno di loro è famoso e che furono compiute con spada e lancia, evidenti metafore falliche. La rassegna biniana comprende anche Orazio Coclite e Cesare:

Quando ch’Orazio ebbe il ponte sconfitto, se s’avea a scalzar, gli stava fresco;