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61valente omo? El quale more di fuora eccellentemente Se così bene

di drento more, non sentirà cosa che io gli faccia; e cognoscerello a questo. Zas! Bene. Zas! Benissimo. Zas! Optime. Calandro! oh, Ca- landro! Calandro!

Calandro: Io son morto, i’ son morto.

Fessenio: Diventa vivo, diventa vivo. Su! su! ché, alla fé, tu muori galantemente. Sputa in su.

Calandro: Oh! oh! uh! oh! oh! uh! uh! Certo, gran male hai fatto a rinvivermi.

Fessenio: Perché?

Calandro: Cominciavo a vedere l’altro mondo di là38.

Altrettanto connotato nel suo ruolo di vittima è messer Rovina, protago- nista della Trinuzia di Agnolo Firenzuola e appartenente alla categoria, ben nota al pubblico delle commedie cinquecentesche, del dottore saccente e presuntuoso che si presenta come depositario di ogni sapere, ma è da tutti in realtà ritenuto sommamente sciocco e ignorante. Destinato ad attirare su di sé i lazzi e le burle degli altri personaggi39, fin dalla sua prima apparizione

in scena, nel II atto, messer Rovina chiarisce questo suo ruolo, ricordando con aria tronfia al servo Dormi come ci si rivolge a un par suo:

Dormi: Olà, o voi, o dottore!

Rovina: Or sì che io ti risponderò, che tu hai detto dottore; così si dice a’ par miei, e non olà, che par che tu voglia scacciar le cornacchie. Che vuo’ tu in tutto in tutto?

Dormi: Deh, ricordatemi il nome vostro, che io son sí balordo, che io me l’ho sdimenticato.

Rovina: Io mi chiamo messer Rovina, al piacer tuo. Dormi: E siate dottor in legge?

Rovina: In legge, in teologia, in utroque [...]40.

È inevitabile allora che il Firenzuola lo ponga al centro dell’episodio della finta morte che occupa le scene VI e VII del terzo atto, dove Dormi si prende gioco di lui istruendolo sul modo di diventare un’altra persona attraverso la morte e la rinascita per poter partecipare a certe nozze cui

38 Ivi, p. 112.

39 S. anGeli, Le commedie di Agnolo Firenzuola, «Rivista italiana del dramma», IV, 1, 2,

1940, p. 215. «[...] noi ritroviamo nella Trinuzia [...] tutti gli ingredienti che si ritenevano necessari a quel tempo alla composizione di una commedia: giochi di parole, frasi latine, proverbi, riboboli, allusioni, oscenità; e poi scherzi [...]».

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non è stato invitato, probabilmente a causa della sua fama di parassita («dicono ch’io mangio troppo»):

Dormi: [...] Orsù adunque; se volete, e’ bisogna morir, la prima cosa. Rovina: Come morir? Oh tu m’ha’ concio! [...] non, io non vo’ più esser un altro, i’ vo’ ’nanzi esser io [...]

Dormi: E che fatica credete voi che sia a morire?

Rovina: I’ so che chi muore, o gli ha la febbre, o gli è ammazzato, o gli è mozzo ’l capo [...]

Dormi: Messer no, messer no, i’ non dico a cotesto modo, io; i’ dico farvi morire senza farvi male, e senza darvi un disagio al mondo. Rovina: Oh, quando la fusse a codesto modo, e’ si potrebbe provare41. Come Calandro, anche messer Rovina necessita di spiegazioni convin- centi, ma a scusante della propria diffidenza adduce motivazioni del tutto ridicole e atte, pertanto, a suscitare le risate del pubblico, come il timore che la moglie venga a sapere della sua morte e ne approfitti per tradirlo o il rischio di ritrovarsi, una volta tornato in vita, nel corpo di una donna e quindi con qualcosa di «mozzo»:

Rovina: Orsù, per l’amor d’Iddio, uscianne; ma vedi, fa che mogliama non lo sappia, che la se ne potrebbe bello e tòrre un altro.

Dormi: E’ non lo saprò persona. Fatevi in qua; movete la man così, chiudete gli occhi, gittatevi in terra.

[...]

Dormi: Or udite: se vo’ state cosí un quarto d’ora, senza muovervi e senza parlare, i’ vi metterò poi una polvere in bocca, che vo’ passerete di questa presente vita, e farovvi diventare donna.

Rovina: No, no, per nulla i’ non me ne voglio inanzi impacciare; che donna? non io! [...]

Dormi: Oimè, state cheto, che vo’ guastate ogni cosa. Rovina: Infine io non vo’ esser donna [...]

Dormi: Oimè, cheto, cheto, dico; vo’ ritornerete po’ uomo a vostra posta

Rovina: Eimei: ham’egli a esser mozzo nulla?42

Superati i timori iniziali, Rovina si decide a morire secondo il solito rituale che prevede l’immobilità assoluta e l’obbligo di non proferire pa- rola, presupposti indispensabili per la riuscita comica della beffa, poiché lo

41 Ivi, p. 59. 42 Ibidem.

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pongono nella condizione di dover subire le offese e i lazzi di Uguccione – che perfidamente va proprio a toccare i punti più sensibili, accusandolo di essere parassita e cornuto – senza poter reagire, pena l’interruzione dell’incantesimo e il fallimento della sperata metamorfosi:

Uguccione: Dormi, che è cotesto morto? E’ e’ morto di subito? Dormi: È messer Rovina, che s’è morto per disperato, ch’era fallito, rovinato.

Uguccione: Per disperato, eh? Oh, però, vedi tu, i’ mi maravigliavo bene, che potesse durarla tanto: egli era un pappatore, un becconaccio, ch’ogni cosa si cacciava giù per la gola, e non era buono a altro; e chi avesse avuto un fegatello legato a un piè, sel sarebbe tirato drieto sino a Montefiasconi. O che disutile animalaccio! Oh, lascia fare alla donna, che se la faceva quando egli era vivo, pensa adesso.

Rovina: (Infine i’ non posso più: costui direbbe tutto oggi, e non mi lascerebbe morire in pace). Sai come l’è, Uguccione? Tu te ne menti molto ben per la gola, a dir quel che tu ha’ detto: e se tu non mi ti lievi dinanzi, i’ ti farò vedere, chi son cosí morto morto43.

Rispetto al Bibbiena, Firenzuola mantiene la battuta finale del morto, ma anche in questo caso l’aspetto predominante non è tanto l’effetto spiazzante del cadavere che si alza e parla – come avveniva nelle novelle – quanto la possibilità di costruire un efficace intermezzo comico, una sorta di gioco in cui il servo è il deus ex machina che detta le regole e dove il personaggio sciocco gioca il proprio ruolo di vittima senza rendersene conto, neppure una volta terminata la beffa. In entrambi i casi, allora, per- ché egli non dubiti della veridicità di quanto gli è stato dato a intendere, è necessario che la mancata riuscita dell’incantesimo venga attribuita alla sua incapacità nel mettere in pratica le istruzioni per la propria morte:

Dormi: Oh, rizzatevi, rizzatevi, che vo’ avete fatto una bella minestra, vo’ avete guasto ogni cosa.

Rovina: Sí, eh? O non arebbe avuto pazienza! Va qua, tu. O non udivi tu, mal asino? E’ diceva de’ fatti miei.

Dormi: I’ udivo che diceva tutto bene, io, e non ho sentito mal nessuno, e increscevagnene in buona fe’.

Rovina: Come tutto bene? Che disse di me, e delle carni mie? O questa sarà bella!

Dormi: Sapete voi, perché vi pareva che dicesse male? Perché vo’ cominciavi a morire, e ogni cosa andava bene; or non c’è più riparo44.

43 Ivi, p. 60. 44 Ivi, p. 61.

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Se dunque alle origini del motivo dello sciocco che crede di essere morto vi è la ricerca e l’esibizione della trovata bizzarra e spiazzante, ri- solta nella misura breve della facezia e del motto di spirito, con il passare del tempo esso si fa più complesso e articolato, adattandosi alle esigenze narrative della novella, e nei rari casi indicati, ai meccanismi comici della commedia, nonostante le numerose varianti di cui si è cercato di dare conto. Varianti e riprese che testimoniano della fortuna e della diffusione di un tema ben radicato nella tradizione orale e in ambito novellistico, ma che paradossalmente non ha trovato terreno fertile nella commedia, soprattutto se si tiene conto della contiguità tematica tra i due generi e, ancor più, del valore paradigmatico che poteva avere l’esempio della Calandria (per tanti aspetti testo archetipico per le commedie successive). In tale prospettiva, allora, bisognerebbe forse ribaltare il punto di vista e chiedersi non tanto perché il Bibbiena abbia inserito un motivo così particolare nella propria commedia, quanto, piuttosto, perché nessun altro commediografo, tranne il Firenzuola, abbia seguito il suo esempio.

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Particolarmente diffuso nella tradizione orale toscana, il motivo dello sciocco che si convince di essere morto in virtù delle parole di un altro personaggio ha goduto di una discreta fortuna anche in ambito letterario, a partire dalle attestazioni tre-quattrocentesche di Giovanni Sercambi e Poggio Bracciolini, fino alle novelle cinquecentesche del Morlini, del Fortini e del Lasca. Partendo dal suo probabile archetipo letterario (un fabliau di Jean de Boves intitolato Du vilain de Bailluel), il saggio si propone da un lato di rilevarne la diffusione – non solo in ambito novellistico, ma anche nelle commedie cinquecentesche del Bibbiena e del Firenzuola – e dall’altro lato di indagarne le principali caratteristiche, evidenziando gli elementi comuni e le varianti presenti nei diversi testi presi in esame in rapporto allo schema standard.

Particularly popular in the Tuscan oral tradition, the theme of the fool who becomes convinced he is dead because of the words uttered by another character has enjoyed reasonable success in literature too, where we find him as far back as the fourteenth and fifteenth centuries in works by Giovanni Sercambi and Poggio Bracciolini and all the way to the sixteenth-century novellas by Morlini, Fortini and Lasca. Starting from its likely literary archetype (one of Jean de Boves’s fabliaux, Du vilain de Bailluel), the essay sets out to appraise the character’s dissemination – not only in novellas, but also in sixteenth-century comedies by Bibbiena and Firenzuola. Furthermore, it looks to analyse and highlight the main characteristics, peculiarities and variations of the several works examined in relation to the standard outline.

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