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55tanto disse, e con tante ragioni e autorità provò che questa vita non era

vita, anzi una vera morte [...] e che chi moriva, di là cominciava a vivere una vita senza affanni, dolce e suave, e senza aspettare mai più la morte [...] e così tante altre cose disse di questa vita, che fu una maraviglia. Per la qual cosa a Falananna venne cosí gran voglia di morire, che egli non trovava loco: e già della vita era capitale inimico doventato, e a casa ritornatosene, non faceva mai altro che dire se non che vorrebbe morire21.

Con l’aiuto della moglie e del suo amante, che intendono approfittare della situazione per disfarsi di lui e portargli via il denaro, Falananna può finalmente morire seguendo attentamente le istruzioni che gli vengono impartite:

Tu hai la prima cosa a chiuder gli occhi per sempre, e non mai più aprirgli, e lèvate affatto il pensiero di questo mondo, né per cosa che tu odi, o che ti sia fatta, hai a favellare o far sentimento alcuno; e così, tosto che tu abbi chiusi gli occhi, mógliata leverà un gran pianto [...] e mentre che le donne la conforteranno, stando in sala, mona Anto- nia e io, lavandoti prima, una veste ti metteremo lunga, che ti verrà a coprire il viso e i piedi; e metterrenti in mezzo della camera con un candelliere a capo, dréntovi una candela accesa benedetta. [..] e di poi daremo ordine domandasera, che i frati del Carmine e i preti di San Friano ti portino, detto la compieta, a sotterrare22.

La descrizione, pur seguendo lo schema canonico, presenta una struttura decisamente più dilatata e ricca di particolari – anche di un certo crudo re- alismo, come quello della puzza provocata dagli escrementi di Falananna23 –,

ma soprattutto intesa a ribadire, con insistenza, l’obbligo di non contravvenire in alcun modo alle regole e quindi di non reagire neppure di fronte al dolore:

I becchini, messo che t’aranno nella bara, e alla fossa condotto, e cantato, e fatto tutte le cerimonie, ti guideranno e metterannoti ne l’avello, e quivi ti lasceranno; dove stato ventiquattro ore, l’anima tua volerà, e non prima, in Paradiso; ma abbi avvertenza che tu sentirai, infino a

21 Ivi, p. 168. 22 Ivi, p. 172.

23 «Che diresti voi che Falananna, avendo auto grandissima voglia di far le sue cose e

forse due ore sconcacatosi, e gran pezzo avendola ritenuta, nella fine, non potendo altro fare, l’aveva lasciata andare, e avendo le lenti riconce fatto operazione [...] avea gittato un catino di ribalderia; la quale per essere stata alquanto rattenuta, tanto putiva, e sí corottamente, che non si poteva star per lo puzzo in quella camera» (ivi, pp. 176-177). Il particolare della puzza emanata dal finto cadavere è presente anche nella novella di Bandello già ricordata, dove Bigolino chiede ad un amico di procurargli una carogna da portare con sé nella bara per rendere più credibile realistica la propria burla.

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tanto che quel tempo non sia fornito, tutte quante le cose, come se tu fussi vivo; sí che non favellare, e non far mai senso alcuno; però che nello star cheto e fermo s’acquista tutto il merito. Ma se tu facessi cosa alcuna da vivo, subito cascheresti nel profondo del baratro infernale: e perché quelli sciagurati becchini non hanno una discrezione al mondo, potrebbon forse, nel metterti giuso ne l’avello, darti qualche stretta, o percuoterti qualche membro, come gli stinchi, le gomita o ’l capo, tal che ne potresti sentire dolore e non piccolo; e tu zitto e cheto24. La finta morte si conclude, come sempre, con la battuta del protagonista che reagisce alle accuse ingiuste che gli vengono rivolte:

Un certo suo conoscente e amico [...] veggendolo portare a seppellire, poco discreto, anzi adirato, disse: – Ahi ribaldo giuntantore! Egli se ne va con tre lire di mio: e sai che io non gnene prestai di contanti? Tristo ladro, abbisele sopra l’anima! – E disse queste parole tanto forte, che Falananna intese: il quale [...] rittosi a sedere sopra la bara, a colui che tuttavia oltraggiandolo andava rivolto, disse: – Ahi sciagurato! Queste parole si dicono a’ morti? Tristo! Che non me gli aver chiesti quando ero vivo? O andare a mógliama, che t’arebbe pagato? –25

Ciò che appare subito evidente, tuttavia, è che la novella non si con- clude con la battuta ad effetto, ma prevede un prolungamento nel quale Falananna, insistendo nella sua insensata convinzione di essere morto, provoca in un primo momento le risa e i lazzi della folla e, in seguito, una reazione violenta nei suoi confronti:

Falananna, sendo caduto con la bara in terra, gridava pure a coloro, che erano spaventati: – Non dubitate frategli, io son morto, io son morto, fate pur l’uffizio vostro conducendomi a l’avello – [...] Ma alcuni della compagnia, conoscendo assai bene la sua natura, se gli accostarono, e con alcuni torchi lo cominciarono a frucare [...] Onde coloro, presi quei torchi capo piedi, lo cominciarono a bastonare e dargli di buone picchiate. [...] – Ahi traditori, traditori, voi m’avete risuscitato! – perciò che avendo auto una bastonata in su la testa, gli grondava il sangue per lo viso e per lo petto; onde, pensandosi d’esser vivo, diceva pure: – Traditori, a questo modo si fa risuscitare i morti? [...] Per la qual cosa la gente d’intorno, uditolo, ma maggior parte lo stimarono impazzato affatto o spiritato; e i fanciulli, preso della mota e de’ sassi, cominciarono, gridando «Al pazzo, al pazzo», a dargli la caccia26.

24 Ivi, p. 173. 25 Ivi, p. 178. 26 Ivi, pp. 178-180.

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Si apre qui una terza fase della novella, dominata non più dalla comicità, ma dalla violenza e dal crudo realismo della descrizione, a tratti sadica, della morte reale di Falananna, ormai conscio di essere vivo, ma solo a causa della violenta “risurrezione”. Una descrizione che procede per accumulo, in una sorta di catalogo di atrocità e sofferenze che si apre con il linciaggio da parte della folla27 e culmina nella terribile morte tra le fiamme, provocate,

per gusto del paradosso, dalla caduta in Arno proprio nel punto dove è stato versato un olio che si infiamma al contatto con l’acqua:

Falananna cadendo ne l’acqua giunse, e per sorte nel mezzo dette di quello olio ardente; il quale, come se colui fusse stato impeciato, se gli attacco a dosso [...] veggendo e più sentendo la fiamma che l’ardeva, cominciò a stridere e a gridare quanto gli usciva della gola, e con le mani s’aiutava quanto poteva, gittandosi de l’acqua a dosso; e cosí fa- cevano le genti [...] Ma quanto più cercavano ammorzargli e spegnerli quelle fiamme, tanto più gnene accendevano: sí che il pover uomo attendeva a guaire e a urlare [...] ardendolo il fuoco, e consumandolo a poco a poco, gli tolse la vita [...] Falananna rimase di sorte, che pareva un ceppo di pero verde, abbronzato e arsiccio28.

Diversi e innegabili punti di contatto con questo testo si ritrovano nella novella I delle Piacevoli e amorose notti dei novizi di Pietro Fortini, a partire dalle caratteristiche del protagonista, il villano Santi del Grande, un omone forte e bravo nel lavoro ma «di senno povero e mendico» e di conseguenza vittima delle burle e delle prese in giro dei vicini, così come Falananna:

Cosí era fatto a Santi, che tutti e’ gentilomini [...] lo andavano burlando, e spesse fiate il giorno de le feste ne pigliavano sollazevol piacere; né mancavano anco li villani che ivi erano vicini, che anco loro qualche fiata ne pigliassero il giambo29.

Anche dal punto di vista strutturale la novella riprende il modello grazziniano, con uno schema tripartito le cui prime due parti, cioè l’an- tefatto e il momento centrale della morte, sono interamente occupate da altrettante beffe costruite secondo lo stesso meccanismo (del tutto affine 27 A. Grazini, Le cene, cit., p. XXVII. «Gli interventi del coro non sono che sotto-

lineature occasionali di quella violenza che trasforma le beffe delle Cene in rituali di sevizie sanguinose».

28 Ivi, p. 181-182.

29 P. fortini, Le piacevoli e amorose notti dei novizi, a cura di A. Mauriello, Roma, Sa-

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a quello già rilevato nella facezia di Bracciolini): alcuni giovani burloni, grazie alla complicità di tutti coloro che di volta in volta incontrano Santi mentre si reca al mercato,30 fanno credere al giovane di avere con sé due

capponi in luogo dei due capretti che il fratello gli ha concesso di vendere, e in un secondo tempo lo convincono di essere morto:

– Como ti senti, Santi? Che male è il tuo? Tu se’ molto scuro, povero a tte che ti morrai! [...] Per quelle e molte altre parole Santi cominciò a credere d’aver male, e già li pareva morire [...] Girolimo li disse: – Vedi, Santi, voglio che tu vadi sotto terra come e’ scittadini; ti voliam mettere questa vesta, e andarai da tuo padre come le persone da bene. Tu vedi, ti muori, fa’ presto, mette su ché non sarai a tempo31.

Come Falananna, anche Santi accetta come fatto normale la propria morte e acconsente a farsi fare il funerale con tanto di corteo funebre:

– Orsù, Santi, sta’ fermo. Vedi, se’ morto, non ti muovere, serra gli ochi, sta’ queto, non parlare, che ti voliamo far portare a dove è sotterrato tuo padre, e mostrarti a la mama che ti piagnerà –. E cosí asettolo, il matto stava come l’aconciavano. Disseno: – Oh povero Santi! Santi è morto –. E non guari stati, lo poseno in terra come si solgono porre li morti, né altromenti stava lo scemunito come se proprio morto fusse stato32. E allo stesso modo, dopo essere temporaneamente “resuscitato” per rispondere alle parole offensive di un «veturale», prosegue nel suo ruolo di morto, insistendo perché lo si porti a sotterrare:

– Oh gli è quel matto di Santi del Grande! Come ha fatto il pazo a morirsi

30 «Li due valenti gioveni volendo appieno di questo matto la berta, uno se n’acompagnò

con Santi, e seco se n’andava ragionando in qual modo avesse cambiati e’ capretti; e l’altro se ne aviò inanti di buon passo, e tutti quelli che s’incontrava, che punto cognoscensia tenesse, a tutti faceva domandare al villano se vendeva e’ capponi». (ivi, p. 703) Questa dimensione collettiva del motivo in questione, che prevede la partecipazione di una gran numero di personaggi all’opera di convincimento e alla buona riuscita della beffa e quindi la volontà espressa di ingannare la vittima, è presente anche nella novella XLI delle Porretane del bolognese Giovanni Sabadino degli Arienti. Si tratta, tuttavia, di una ripresa parziale e diversamente finalizzata, che sfrutta l’espediente della finta morte non come pretesto per preparare la risposta finale del solito personaggio sciocco, ma per imbastire una burla ai danni di un marito violento e farlo guarire dalla gelosia. Dopo essere stato drogato, infatti, Piero Velutaio viene convinto dai vari amici e conoscenti che incontra di volta in volta di essere un fantasma, e in seguito picchiato, rinchiuso in una botte e nuovamente drogato. Risvegliandosi tra due ceri, vestito da morto e con la croce sul petto, accetta di confessarsi, promettendo ai falsi frati complici della moglie di non ricadere più nel terribile peccato di gelosia.

31 Ivi, pp. 709-710. 32 Ivi, p. 710.

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