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65fiaMMetta d’anGelo

Il Viaggio di Parnaso di Giulio Cesare Cortese (1621) è diviso in sette

Canti di ottave, scritto in dialetto napoletano, e all’insegna dell’inversione,

dell’aprosdoketon, della metamorfosi, dell’anagramma utopico del volto del mondo, sempre uguale a se stesso. Il mutamento è già nell’apostrofe iniziale «Lo poeta a li leieture»1. La facies del poemetto esibisce da subito

infrazioni ai tópoi di un genere poetico già inaugurato dal Viaggio di Parnaso di Cesare Caporali (circa 1580). Nel Viaggio di Cortese Napoli domina la scena. Le Muse sono scese nel quartiere di Puorto (Porto), uno dei più popolari della città; nuova Ippocrene è invece la fontana della Coccovaia, in Piazza dell’Olmo: opera di Giovanni di Nola, deve il nome ad una figura di civetta posta sulla sua sommità2. La Coccovaia appare defraudata

dell’aulico valore simbolico originario, soppiantato dalla traduzione in un lessico popolare e dialettale, con effetto cacofonico e comico. Di fronte all’inusitata realtà non possono mancare reazioni di protesta: qualche ‘trave rotto’ uscirà dal coro e dirà finalmente la sua, difendendo i diritti del fare poetico. Nella risposta, già apollinea, si mostra il procedimento caratteri- stico di tale opera cortesiana, in cui il codice burlesco cela una profonda adesione al reale; il rimedio a tale violazione dalla norma è infatti satirico e serio insieme. A mo’ di antipasto, si potrà offrire, ai detrattori del Viaggio di Cortese, trippa avariata di sette settimane, nonché l’invito a rispondere alla seguente questione: dove sono nate le Muse? Imprescindibile, per l’Auctor partenopeo, il riferirsi al canone della tradizione letteraria, esibendo una 1 Cfr. G. c. corteSe, Viaggio di Parnaso, in id., Opere poetiche, a cura di E. Malato, Roma,

Edizioni dell’Ateneo, 1967. La citazione riguarda l’apostrofe Lo poeta a li leieture, 1-4.

2 L’immagine della civetta richiama, tra l’altro, l’omonima fontana di Villa d’Este a

Tivoli, in cui l’animale meccanico suscitava, con il suo verso, diletto e meraviglia allo scoccare delle ore.

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oPica e canone dellearti

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fedeltà non soltanto ad esso, ma anche ai modi parnassici e del comico. Compaiono dunque i più significativi paesi e i loro più rappresentativi autori: da Omero, «chillo cecato che cantaie de Chilleto e d’Alessa»3; a

Virgilio, «che spremmette quanto aveva ’n cuorpo ’ncoppa lo fonnamiento de Romma»4. La perifrasi che unisce l’Aedo Omero alla sua cecità, come ai

suoi eroi, è attestazione di sacralità della poësis; l’Eneide e il suo Cantore, posti in un orizzonte basso ed escrementizio, suggeriscono l’intento di indicare un’arte d’eccellenza, selezione delle viscere, contro la trippa nauseabonda di cui sopra. Cortese scopre immediatamente le carte all’avveduto lettore, componendo un collier di perle europee: il Parnaso di Napoli non ignora il panorama poetico, né vi prescinde. Il Medioevo compare con i trovato- ri provenzali Bernart de Ventadorn e Arnaut Daniel; i fiorentini Dante e Petrarca. L’età moderna ha volto soprattutto ispanico e lascia intravedere, in filigrana, quello dell’Italia. Il canone annovera dunque Diego de Silva y Mendoza conte de Salinas, un poeta lirico degli inizi del Seicento; il madri- leno Alonzo de Ercilla y Zúñiga, che unisce, nei suoi versi epici, il magistero di Ariosto e Tasso al patrimonio classico di Virgilio, per disegnare in toni eroici la conquista spagnola del Cile5; Garcilaso de la Vega, fine petrarchista e

umanista dell’età rinascimentale, legato a Napoli, da non confondere con El Inca Garcilaso de la Vega, poeta peruviano e guerriero6; infine il poeta Juan

3 G. c. corteSe, Lo poeta a li leieture, cit., 3. 4 Ibidem.

5 La figura storica e letteraria di Alonzo Ercilla Y Zúñiga (1533-1594) si innesta

nella vita della Corte di Carlo V e poi di Filippo II. Numerosi i viaggi al loro seguito. Dal 1548 al 1554 conobbe l’Europa: le Fiandre, la Boemia, l’Italia e l’Inghilterra. Spirito avventuroso, prese parte attiva con fervore alla guerra del Cile (1555), e che dipinse nel poema La Araucana, nato da appunti e note poi rielaborati una volta di ritorno in Spagna (1563). Il poema, diviso in tre parti (Madrid, 1569-1578-1589), celebra l’ardua conquista cilena, a prezzo di molti sacrifici e vero scenario di atti eroici, da parte dei condottieri Pedro Valdivia, Francisco de Villagra, Reinoso, García Hurtado de Mendoza: li ritrae in lotta con la barbarie, le avversità della natura e dei luoghi, e contro gli altri eroi araucani, quali Caupolicán, Lantaro, Colocolo, Tucapel, nel fortissimo legame con la loro terra e tradizione. Quasi un’opera etnografica, che descrive i mores, le credenze religiose, le passioni, la società di un mondo ai confini della civiltà. L’opera di Ercilla Y Zúñiga unisce la tradizione epica di Ariosto e Tasso con quella dell’epos classico di Virgilio e Lucano, ma trasposte nella realtà coeva: la vita storica - non esente da certo cronachismo - eroica e selvaggia degli Araucos, dalla fiera e guerriera natura. Indubbio il valore dell’osmosi tra la poesia epica del Cinquecento italiano e l’identità americana e cilena. Se il Poema de mio Cid aveva rappresentato il periodo eroico e feudale, così La Araucana esaltava le gesta dell’Impero spagnolo.

[Cfr. voce Alonzo de Ercilla y Zúñiga a cura di S. Battaglia in Enciclopedia Treccani on line]. 6 Garcilaso de la Vega fu uno scrittore peruviano (Cuzco, 1539-Cordova, 1616), nato

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Boscán Almogáver, a cui soprattutto si deve la diffusione dell’italianismo in Spagna, e la cui arte si lega a quella di Bernardo Tasso e Tansillo, nonché al magistero di Bembo7. Quanto al popolo Francese, «Non monnarria

nespola»8, non perderebbe tempo a sbucciare nespole, poiché i Francesi,

detti originariamente Galli, covano le uova, cioè i concetti poetici, «’ncoppa li munte Pereneie»9: ancora l’universo rinascimentale domina, con Pierre da un ufficiale spagnolo discendente del poeta omonimo e di una principessa incaica (noto infatti anche come el Inca Garcilaso de la Vega). Visse dal 1560 in Spagna in qualità di ufficiale dell’esercito spagnolo. Primo scrittore indigeno di lingua spagnola, compose la Historia de la Florida y jornada que a ella hizo el gobernador Hernando de Soto (1605) e i Comentarios reales que tratan del origen de los Incas (Prima Parte nel 1609; Seconda Parte, l’Historia general del Perú, nel 1616). Tradusse i Dialoghi d’amore di Leone Ebreo, opera ben nota in ambito neoplatonico e mediceo.

7 Nel 1526 Carlo V era a Granada. Andrea Navagero, giunto nella città in qualità

di ambasciatore della Repubblica di Venezia, poté intrattenersi col poeta barcellonese Juan Boscán Almogáver su temi letterari: gli suggerì l’idea di trapiantare in castigliano sonetti e altre forme poetiche italiane. Boscán aderì all’invito. Tradusse, su consiglio di Garcilaso de la Vega, il Cortegiano di Castiglione. L’opera fu così nota in Spagna: alla prima edizione di Barcellona (1539) seguirono nove edizioni nell’arco di un secolo. Menéndez y Pelayo sostiene che tale traduzione è la più bella che sia stata fatta finora in Spagna dalla prosa italiana. Garcilaso fu l’amico prediletto di Juan Boscán Almogáver; Tansillo gli dedicò sei sonetti, due durante la vita di lui e quattro dopo la morte: lo aveva eletto dagli anni della prima giovinezza; si augurava di incontrarlo personalmente recandosi in Spagna; ne fu impedito dalla notizia della sua morte. Alla conclusione della vita il Boscán raccolse, in vista della stampa, le proprie opere e quelle di Garcilaso, donategli dalla moglie vedova dell’amico poeta, Elena de Zuñiga o da alcuni compagni di milizia. La raccolta vide la luce un anno dopo della sua morte, nel 1543, grazie alla vedova (Las obras de Boscán y algunas de Garcilaso de la Vega, Barcellona, 1543). È divisa parti: la prima: coplas y canciones españolas; la seconda e la terza, con i versi al itálico modo, preceduti dalla Epístola a la duquesa de Soma, manifesto della nuova scuola. Nella terza parte, il poemetto Historia de Leandro y Hero, in versi sciolti, derivato in gran parte dalla Favola di Ero e Leandro di Bernardo Tasso; e l’Octava rima, che mutua concetti, frasi, il textum stesso e l’ideazione dalle Stanze di Bembo. Il rilievo assunto dalla cultura e letteratura italiana in Spagna gli deve molto, anche in virtù di una congiuntura storico-politica particolare, tale che i vincoli materiali e intellettuali fra Italia e Spagna erano ormai davvero saldi. Introdusse nella lirica spagnola il sonetto, la canzone, la terzina, l’ottava rima e il verso sciolto; il suo endecasillabo si mostrava poco armonioso, non esente da difetti, come la sua poesia. A differenza di Garcilaso, pur conoscendo la cultura classica, non possedeva l’arte; Gracilaso fu invece esempio felice della scuola poetica italiana nel Cinquecento, e rese visibile il trionfo della riforma del Boscán. [Cfr. voce Juan Boscán Almogáver a cura di E. Mele in Enciclopedia Treccani on line].

8 G. c. corteSe, Lo poeta a li leieture, cit., 8. 9 Ibidem.

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de Ronsard, che richiama la Pléiade, e, forse, il poeta Guillaume de Salluste du Bartas. Se il prodotto poetico è insomma, nella migliore delle ipotesi, naturale come un uovo, le Muse sono giumente in affitto al più tempe- stivo offerente, e Febo è degradato ad oste padrone di esse e gestore di una locanda. Tale non-luogo, l’osteria di Febo, è l’unica vera patria della poesia, ma di passaggio, perché ogni poeta conduce le Muse dove vuole. La tesi è chiara ormai: la poesia non ha bisogno di vantare alcuna patria d’origine; Napoli non manca dunque di alcun requisito, perché in ogni paese «non c’è cecato che non canta vierze»10: insomma, ogni nazione ha

il proprio Omero. La perifrasi con antonomasia («cecato» =Omero=ogni poeta) apre concettualmente la via ad una chiusa doppiamente oscena e triviale: chi ha tentato di criticare l’autore («sto mala lengua»11) «se ne pò

tornare co na mano ’nnante e n’autra dereto»12; si coprirà da sé, perché

sarà denudato e svergognato. Analogamente, alla sfera oscena e, in tal caso, anche escrementizia, appartiene la raccomandazione e l’invio topico dell’opera ai lettori: «Leíte addonca sto chilleto che m’è scappato da le brache, addoratelo e gostatelo»13. «Chilleto», idest ‘quel coso, quella cosa’,

è lo stesso Viaggio di Parnaso, privo di menzione da parte del Cortese, suo autore, con evidente falsa modestia. Il Viator dichiara in corso un viaggio della propria Musa nella patria di Omero e in quella di Virgilio. L’animale porterà via frutta acerba, da mettere in una «composta», conserva preparata con «acito de grieco de Napole»14, assimilabile, sia pur nella com-posizione

di ingredienti anche molto diversi, al «pasticcio» di Caporali15. Nel Viaggio

cortesiano il sapore dei frutti acerbi della poesia classica diverrà nuovo, forte e moderno aroma, generato dall’italum acetum del vino greco di Napoli.

Il Canto Primmo aderisce in modo puntuale alla topica parnassiana, at- traverso la sequenza degli eventi-cardine della faticosa ascesa e iniziazione:

«Io canto la montagna de Parnaso / E li fuonte e ciardine c’have a lato, / E a che 10 Ivi, 12.

11 Ivi, 13. 12 Ibidem. 13 Ivi, 14. 14 Ibidem.

15 c. caPorali, Viaggio di Parnaso, a cura di N. Cacciaglia, Perugia, Guerra Edizioni,

1993, 501-506. «In questa politissima taverna, / residenza di guattari e di cuochi, / era di tutti gran maestro il Berna: / ei dispensava le facende e i luochi, / là si cocean pasticci in picciol forno / e qua le torte a i temperati fuochi». Il pasticcio, vivanda comune nel Rinascimento, è la poi- kilía manieristica e barocca, sovente mistione artificiosa e capricciosa di testi, generi, stili.

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mandrullo chi nce saglie a caso / Pe decreto de Febo è ’ncaforchiato»16. Alla cano-

nica protasi, scandita dall’individualità poetica, ad aprire, e dall’argumentum, a chiudere il verso incipitario, segue il classico locus amoenus,in tal caso pae- saggio d’elezione delle Muse, con i consueti elementi: la montagna, le fonti, i giardini. Ci attende subito il rovesciamento: l’identificazione successiva tra il Parnaso e il mandrullo17, vale a dire l’ovile, conferma il tono complessivo

del Viaggio di Cortese. Carattere precipuo del poemetto è l’esatta corri- spondenza tra abbassamento ed elitarietà, sia pur comica: chi sale a questo Parnaso in modo del tutto sconsiderato non potrà non essere, «pe decreto de

Febo […] ’ncaforchiato»18; l’onomatopea, a ribadire la condanna di chi osi

inavvedutamente l’impresa. Capovolgendo il motivo della falsa modestia e la dantesca recusatio («Io non Enea, io non Paulo sono»19), il Poeta rivendica

un posto per sé e per la propria arte. L’ottava si chiude con l’invocazione alla Musa, nella volontà di attingere alla Sacra Fonte della Poesia, posta sul Monte Elicona. Cortese dichiara di avervi già posto il ‘naso’ quattro volte (reiterazione corrispondente alle opere precedenti), di essere però, ancora una volta, assetato. L’assenso-plauso-fischio della Musa dovrà accompagnare tale rito di ispirazione poetica20. Amaro, il controcanto: la poesia nasce

dall’acqua, che riflette come uno specchio, che promette, ma in dilazione continua, di placare l’arsura della sete21. Il novello «irritato Tantalo» vivrà

«la beffa» di una grazia richiesta senza garanzie: compatibile al parallelo tra Parnaso e porcile è l’immagine del letterato, socialmente servo, in cerca di un signore liberale. La lettura in chiave storico-sociale e biografica di questi versi può confermare, prefigurandolo, il senso dell’oltremondo, interpretabile anche alla luce dell’esperienza cortigiana del Cortese. Non casuale appare, quindi, nella seconda ottava, la dedica a Don Diego (forse De Mendoza), personaggio cui è connessa la possibilità di percorrere con la libertà più assoluta le vie del Sacro Monte. Apollo, definito con perifrasi aulica «lo gran Re d’ogne Poeta»22, tiene Don Diego sotto la sua protezio-

ne, poiché il signore è il «cuccopinto»23, l’innamorato, e la gioia delle Muse

16 G. c. corteSe, Viaggio di Parnaso, cit., I, 1, 1-4. 17 Ivi, I, 1, 3.

18 Il verbo «’ncaforchiare » indica il costringere qualcuno in un’apertura angusta,

come un buco [Cfr. Glossario, in Ivi, pp. 217-218].

19 If. II, 32.

20 G. c. corteSe, Viaggio di Parnaso, cit., I, 1, 5-8.

21 Di qui: M. rak, Napoli gentile. La letteratura in «lingua napoletana», nella cultura barocca

(1596-1632), Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 183-184.

22 G. c. corteSe, Viaggio di Parnaso, cit., I, 2, 4. 23 Ivi, I, 2, 5.

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stesse. La promessa finale assimila l’opera poetica al lavoro dell’artigiano Cortese che, vasaio accurato, cesella un poema indegno del dedicatario, per il quale anticipa e auspica la creazione di un futuro e maggiormente pregevole scritto. Ma l’ethos del Viaggio emerge anche a livello esistenziale, riproponendo subito dopo, mutato di segno, il sigillo di dantesca memoria dell’incipit della Prima Cantica: «Avea già co lo tiempo e co la sciorte / Iocato li

meglio anne de la vita, / E perzo fi’ a li fielece e le sporte / Senza vencere maie nulla partita, / Tristo dinto e peo fore de la corte, / Ca pe tutto è bertù vrenna o redita; / A l’útemo no cricco desperato / Me disse: muta luoco e muta stato»24.

Il «cricco» è un puntiglio, un capriccio, che lo pungola; del resto, pur con senso più topico, il Capriccio è la prima figura-guida del Viaggio di Caporali. Degradato appare il «mezzo del cammin» dantesco25: la gioventù non è un

percorso orientato dalla grazia divina, ma un periodo felice speso male, nel quale il rapporto tiempo-sciorte è in sicuro deficit utilitaristico. La meta- fora contadinesca delle felci e delle sporte, usata anche dal Basile26, indica

la perdita di tutto, perfino di quei contenitori foderati di foglie e adibiti al trasporto di formaggi in città. Il poeta insomma, oltre alla «speranza de

l’altezza», ha perso la propria motivazione al canto, ciò che lo sostiene,

in ogni senso. Se nell’Inferno dantesco è la lupa-cupidigia a generare l’e- strema resa del Pellegrino, Cortese imputa alla Corte il trattare la virtù come materiale di scarto («vrenna» o «redita»,cioè ‘crusca’ o ‘cruschello’).

24 Ivi, I, 3, 1-8.

25 Spesso i poeti satirici e burleschi vedono nella Commedia di Dante l’icona di un

cammino spirituale e psicologico. Si tratta di poeti la cui opera presenta una compo- nente fortemente autobiografica, elemento del resto caratteristico proprio della poesia di impronta comica e anticlassica. Ne è un esempio il senese Giovanni Gelsi, grande ammiratore dell’Alighieri e del Petrarca ed autore, nel XVII secolo, di Capitoli con verso finale di terzina costruito sul modello di quelli dei due Poeti tanto amati. Frequente, nella produzione poetica ed epistolare, il riferimento ad espressioni o passi danteschi. Un secolo prima, il poeta Luigi Alamanni, assumendo la politica quale tema privilegiato, considera d’obbligo il riferimento alla Commedia e ne ricalca molti stilemi. Autobiografia, etica e politica eleggono dunque Dante loro paladino, nell’importante convergenza tra l’io storico e il viator testimone di una Verità incarnata in ogni aspetto del vivere.

26 Gian aleSio abbattutiS (G. b. baSile), Le Muse Napolitane, testo introduzione e

note a cura di M. Petrini, Firenze, Leo S. Olschki–Editore, 1963, Ecroga III. Talia, overo Lo Cerriglio, 326. Si tengano presente anche G. B. BaSile, Le Muse napolitane, in Id., Lo cunto de li cunti overo Lo trattenimento de peccerille. Le Muse napolitane e le lettere, testo, in- troduzione e note a cura di M. Petrini, Firenze, Roma-Bari, Laterza, 1976, ancora con apparato e glossario, ma senza commento al testo e l'edizione più recente: G. B. BaSile, Le Muse napolitane, in Id., Le opere napoletane. Egogle, t. I, a cura di O. S. Casale, Roma, G. M. Benincasa, 1989, con apparato, note e parafrasi completa.

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Nella quarta ottava l’esule partenopeo cita da Petrarca: «Povera e nuda vaie,

Filosofia!»27. Il verso è tuttavia in reductio nell’accostamento simbolico tra

l’aglio e il minimo dei riconoscimenti pur negato al poeta, privo di fortuna e di qualunque apprezzamento da parte dei potenti. Dalla quinta ottava si dipana il racconto dell’ascesa verso il Parnaso, dove la signoria di Febo ripristinerà il giusto ordo virtutis. Da Napoli il poeta «alliccia»28 per volontà

di Febo stesso29. La sesta ottava descrive una montagna isolata, priva di

qualunque riferimento geografico, esclusivo approdo («Dove non pò saglire

ogne persona»30); con il tópos dell’eterna primavera (non fa troppo caldo, né

freddo, non piove, non tuona, è sempre maggio). La precisa indicazione cronologica, con consueto effetto straniante, è relativa agli asini: maggio è il loro mese; per tale motivo, in questa contrada ci sono soltanto «ar-

raglie» asinini di contentezza31. Il medesimo tono investe il Sacro Monte

della letteratura, ubicato al centro del mondo («’n miezo a lo munno») o in qualsiasi altro posto («dica chi le piace»); forse in Beozia - il paese della scempiaggine - e forse a Gragnano - il paese del vino, dell’ebbrezza, delle sue fantasie e scompostezze32. Il Parnaso, mondo alla rovescia, luogo-non

luogo, regno di utopia, è un Cerriglio dove tutto è possibile, eden in cui la geografia nota serve solo quale metaforico exemplum. Il palazzo, definito come mirabile perfezione, ospita il divertimento ameno delle Muse e di Apollo, che ridono e cantano; capolavoro architettonico non comune e superiore ai più grandi edifici romani o francesi. Il palazzo letterario del

Viaggio di Caporali, costruito con ‘materia’ poetica e all’insegna della con- cinnitas retorica, è rivisitato, dal Cortese, nella concretezza pure culinaria

di un edificio costituito principalmente di pomice e mattoni, amalgamati come una salsa di zimino: allegoria che sottolinea la sua struttura simme- trica, come un castello con quattro torrioni, richiamo, nella descrizione della pianta, forse, a Castelnuovo angioino33.

Il primo ambiente descritto è proprio la cucina. Il luogo rende omaggio al Poeta: Febo ha infatti disposto che il nuovo arrivato «si enchia le bodelle» 27 G. c. corteSe, Viaggio di Parnaso, cit., I, 4, 3. La famosa espressione è petrarchesca:

Canz., VII, 10. Il sonetto di Petrarca ha proprio per tema l’Elicona dell’eccellenza poetica, ormai sbandita in un mondo privo di virtù e interesse soltanto al guadagno.

28 G. c. corteSe, Viaggio di Parnaso, cit., I, 5, 5. Il verbo significa ‘fuggire’, ‘scappare’. 29 Ivi, I, 5, 1-8.

30 Ivi, I, 6, 4. 31 Ivi, I, 6, 7-8.

32 M. rak, Napoli gentile, cit., p. 171. 33 Ibidem.

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prima di rivolgergli la parola, «ca non s’accorda Museca e Dïeta»34. Tale co-

stume è del resto sua prerogativa: in ogni altra magione (leggasi ‘corte’) la fame del poeta è soddisfatta soltanto previo pagamento. La cucina, il tinello, simbolo della vita quotidiana e della sua precarietà, è luogo topico della satira regolare e burlesca tra Cinque e Seicento. Il cibo rappresenta anche il prodotto di un’attività come quella del cuoco-poeta, che, sfrut- tando ed elaborando degli ingredienti-base, è in grado di creare, con la sua genialità, succulente pietanze35. Il riferimento cortesiano alla cucina

come fucina dell’arte poetica, e del cibo come poesia si giova, inoltre, di un importante precedente proprio nel Viaggio di Parnaso del Caporali, accolto, nel vivace ambiente, da Berni e dai berneschi, intenti alle loro diverse attività.L’accesso all’interno della Dimora di Apollo comincia, nel poemetto caporaliano, proprio da questo luogo, tra l’altro immagine spe-