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L’analisi delle cause sottese al fenomeno terroristico La Risoluzione 3034 del

La lotta al terrorismo nel quadro delle Nazioni Unite e della Comunità internazionale

2. L’analisi delle cause sottese al fenomeno terroristico La Risoluzione 3034 del

Ad esasperare definitivamente i toni del dibattito politico sul contrasto del terrorismo internazionale contribuì in modo dirompente la strage compiuta dai terroristi palestinesi durante i giochi olimpici Monaco del 1972.

Fu infatti tale vicenda ad alimentare in diversi Paesi occidentali, capitanati dagli Stati Uniti, il proposito di pervenire ad un approccio globale in materia di repressione del terrorismo, che potesse condurre, a sua volta, ad una convenzione multilaterale capace di affrontare, in chiave internazionale, i profili penalistici delle diverse manifestazioni di violenza legate al suddetto fenomeno.

E‟ proprio sulla base di tali presupposti che, nel corso della XXVII sessione dell‟Assemblea Generale, si assistette alla presentazione da parte degli Stati Uniti di due progetti, predisposti ad fine di pervenire alla immediata elaborazione d‟una Risoluzione sul terrorismo e di una Convenzione per la prevenzione e la repressione di certi atti del terrorismo internazionale273, la cui mancata approvazione è da addebitarsi principalmente alla strenua opposizione condotta da alcuni Stati in via di sviluppo, in special modo Arabi, Afro-asiatici e del versante europeo orientale.

Agli occhi di tali Paesi, infatti, l‟esigua distanza temporale intercorsa fra gli attentati di Monaco e la proposta di ratifica avanzata dagli Stati Uniti rivelava in tutta evidenza, accanto ad una generalizzata ostilità verso la causa palestinese, la pretestuosa avversione degli “occidentali” rispetto ai movimenti di liberazione nazionale, sviluppati all‟interno dei territori coloniali ed occupati.

Il susseguirsi di tali vicende culminò, il 18 dicembre 1972, nell‟adozione della Risoluzione 3034/XXVIII, denominata “Misure per prevenire il terrorismo internazionale che mette a repentaglio ovvero colpisce vite innocenti o mette in pericolo le libertà fondamentali, e per studiare le cause sottostanti a queste forme di terrorismo e di atti di violenza che allignano nella miseria, frustrazione, lamentela e disperazione e

273 La prima di tali proposte denunciava il terrorismo come costante minaccia per il sistema di

comunicazione internazionale, con particolare riguardo ai settori dell‟aviazione civile e delle relazioni diplomatiche, invitando i governi ad ottemperare agli obblighi derivanti dalle Convenzioni di Tokio, dell‟Aja e di Montreal, al fine di garantire la sicurezza e l‟ordine in entrambi i settori. Il secondo progetto mirava, invece, ad integrare le Convenzioni di diritto umanitario di Ginevra del 12 agosto 1949, prendendo in considerazione quelle forme di terrorismo non ancora contemplate da alcun accordo convenzionale internazionale ed, al contempo, di riproporre le misure di cooperazione previste dalle Convenzioni di Montreal e dell‟Aja. Cfr. A. F. PANZERA, op. cit., pp. 56 ss.

129 che inducono alcune persone a sacrificare vite umane, inclusa la propria, nel tentativo di provocare cambiamenti radicali”, con la quale l‟Assemblea Generale provvedeva contestualmente ad istituire uno speciale Comitato per il terrorismo, competente ad esaminare le proposte e le osservazioni di volta in volta avanzate in materia dai diversi Stati operanti al suo interno, allo scopo di elaborare possibili soluzioni al contrasto del fenomeno in questione.

L‟elaborazione d‟un simile provvedimento scaturì dall‟iniziativa di alcuni Paesi di nuova indipendenza (Stati africani, sudamericani ed asiatici, molti dei quali usciti di recente dall‟esperienza di regimi coloniali, di apartheid o di dominazione straniera), portatori di interessi del tutto nuovi rispetto a quelli già rappresentati e fortemente determinati a deviare la linea di indagine dalla invocata previsione d‟un compiuto ed articolato apparato di misure preventive e repressive (come prefigurato dai Paesi Occidentali) all‟analisi delle reali cause del fenomeno terroristico, puntualmente individuate nelle violazioni e negli abusi perpetrati dai regimi razzisti, xenofobi ed oltranzisti. Principale intento della risoluzione e del dibattito preliminare era dunque quello di dar voce ai popoli ancora soggetti a regimi ispirati da propositi coloniali e dispotici, attribuendo al terrorismo di Stato – sia pur senza farne esplicita denuncia – la diretta responsabilità nell‟ascesa internazionale del terrorismo274.

Sul versante opposto, gli Stati occidentali ravvisavano nella inconsueta impostazione, di stampo per così dire “sociologico”, prospettata dalle Nazioni Unite il tentativo di avallare la causa dei gruppi di liberazione nazionale, legittimando, di riflesso, il ricorso alle condotte di terrorismo individuale dagli stessi addotte a garanzia dell‟autodeterminazione e l‟indipendenza dei popoli, in quanto partorite in risposta a politiche statali di oppressione.

Il superamento da parte delle Nazioni Unite della tradizionale prospettiva, incentrata sulla perentoria scissione delle problematiche relative alla decolonizzazione, alla garanzia delle minoranze ed alla tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali dalla tematica costituita dalla lotta al terrorismo, recava con sé l‟indubbio merito di

274 Sul punto, I. PALUMBO, L'impegno delle Nazioni Unite e della Comunità internazionale nella lotta

al terrorismo. Attualità e prospettive, in Rassegna dell'Arma dei Carabinieri, n. 3, 2005, pp. 1-2, consultabile in rete al sito www.studi perlapace.it: “La risoluzione vuole quasi delimitare e definire il campo d'azione del fenomeno terrorismo e proporre una sua definizione al Comitato ad hoc (di cui ha fatto parte anche l'Italia, unitamente ad altri 34 membri), ribadendo che il c.d. «international terrorism» è quello individuato dalla caratteristica del “porre in pericolo le libertà fondamentali”. Nel corpo della risoluzione, l'Assemblea Generale ricorda che i lavori del Comitato ad hoc non potranno pregiudicare il diritto inalienabile all'autodeterminazione e all'indipendenza di tutti i popoli sotto regime coloniale e razzista, così come i movimenti di liberazione nazionale”.

130 porre – mai così apertamente che in passato – l‟accento sulle effettive radici del fenomeno e sulla responsabilità dell‟azione politica degli Stati rispetto alla crescita esponenziale del suddetto fenomeno.

Ciononostante, il riferimento a principi ed a nozioni già delineate dalle Nazioni Unite e fortemente radicate nel diritto internazionale, quali l‟autodeterminazione e l‟indipendenza dei popoli275

, avrebbe costituito, a detta di alcuni autori276, una notevole regressione nel processo di definizione del fenomeno terroristico.

275 L‟assimilazione del principio dell‟autodeterminazione a regola di diritto internazionale positivo

risultava già confermata dagli artt. 1 par. 2 e 55 della Carta istitutiva dell‟Onu del 1945, sia pure in netta contrapposizione con l‟ancora vigente riconoscimento dei sistemi coloniali, giuridicamente disciplinati attraverso i precisi istituti della tutela e

dell‟amministrazione dei territori non autonomi (Capp. XI e XII della Carta dell‟Onu). Ancora, dalla Risoluzione 1514/XV sulla concessione dell‟indipendenza ai Paesi e ai popoli coloniali, adottata dall‟Assemblea Generale nel 1960, in cui si provvedeva ad individuare l‟autodeterminazione nel “diritto dei popoli non autonomi e sottoposti a tutela di pervenire all‟indipendenza, di determinare liberamente il proprio assetto politico e di perseguire liberamente il proprio sviluppo economico, sociale e culturale”. Il principio di autodeterminazione come diritto fondamentale dell‟uomo ha inoltre trovato spazio nella Risoluzione 2625 /XXV del 1970 sulle relazioni amichevoli e la cooperazione fra gli Stati, in cui la problematica relativa agli atti terroristici ha trovato esplicazione sia sotto il profilo del ricorso alla forza o alla minaccia della stessa, sia con riguardo al principio del non intervento (Cfr. A. DE GUTTRY, F. PAGANI, Le Nazioni Unite. Sviluppo e riforma del sistema di sicurezza collettiva. Bologna, 2005, pp. 37-41). In tale provvedimento, infatti, non soltanto si ribadisce il dovere di tutti gli Stati di astenersi dall‟organizzare o incoraggiare, anche sul proprio territorio, attività sovversive o terroristiche, destinate a rovesciare con la forza o con la violenza il regime d‟un altro Stato, così come dall‟intervenire nelle lotte interne di un altro Stato, ma al contempo si indicano gli strumenti attraverso cui i popoli possono pervenire all‟indipendenza: i mezzi pacifici, come il referendum e le altre forme di consultazione popolare ed il ricorso alla forza armata in applicazione del principio di legittima difesa. Si è molto discusso circa il valore giuridico delle risoluzioni dell‟Assemblea generale contenenti in annesso dichiarazioni di principi, le quali, proprio per il largo consenso che ne contraddistingue l‟adozione, costituiscono spesso una sorta di «programma» per la Comunità internazionale in un dato settore, fornendo un eccezionale impulso alla formazione di nuove regole internazionali. Al riguardo, deve osservarsi come molto spesso le suddette dichiarazioni sono il riflesso d‟un mero dibattito di politica legislativa internazionale, collocandosi le soluzione in esse contenute esclusivamente in una prospettiva de lege ferenda, ossia di modifica del diritto internazionale vigente, consuetudinario o patrizio. In altri casi, pur non avendo per se valore giuridico obbligatorio nei confronti degli Stati membri dell‟Onu, possono tradursi nel contenuto di norme convenzionali o assumere valore dichiarativo rispetto a norme convenzionali preesistenti, o, ancora, porsi come autorevoli manifestazioni della prassi degli Stati ai fini della formazione di norme del diritto internazionale non scritto, ragione per cui si parla correntemente di attività quasi-normativa dell‟Assemblea generale (si pensi, in proposito, alla citata Dichiarazione sulla concessione dell‟indipendenza ai popoli coloniali del 1960 ed alla sua portata nell‟affermazione del diritto di autodeterminazione dei popoli come norma internazionale di carattere imperativo). Altre dichiarazioni hanno valore senz‟altro più limitato nella prospettiva de lege ferenda: così, ad esempio, la Dichiarazione sulla definizione di aggressione del 14-12-1974, quella sulla non ingerenza negli affari interni degli Stati del 09-12-1981 e quella sui diritti delle minoranze etniche, religiose e linguistiche del 18-12-1992. Come ha sottolineato la stessa Corte di giustizia nel parere sulla Liceità dell‟uso delle armi nucleari dell‟8 luglio 1996, dunque, le risoluzioni dell‟Assemblea generale, pur non avendo forza obbligatoria, possono talvolta avere valore normativo e fornire, in date circostanze, elementi di prova fondamentali per stabilire l‟esistenza d‟una norma o l‟emergere dell‟opinio iuris. La sussistenza dell‟autodeterminazione come principio consuetudinario è stata inoltre ravvisata anche dalla Corte Internazionale di Giustizia, sia in due pareri formulati su richiesta dell‟Assemblea Generale (si tratta del parere 21.6.1971 sulla Namibia e di quello del 16.10.1975 sul Sahara occidentale), sia in una più recente sentenza (nell‟affare relativo a Timor orientale, ibid., 1995, par. 29), dove lo stesso viene addirittura qualificato dalla Corte come “uno dei principi essenziali del diritto internazionale contemporaneo”. Cfr. B. CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, 2002, p. 23. Occorre osservare che i «pareri consultivi» del tipo di quelli appena considerati

131 L‟eccessiva dilatazione dell‟oggetto di indagine, sottesa al tono di tale risoluzione, avrebbe infatti sortito l‟effetto di snaturare definitivamente la fisionomia di tale forma criminosa, sganciandola da qualsivoglia prospettiva implicante e legittimante l‟impiego della forza o l‟applicazione del principio di intervento.

Le divergenze ideologiche scaturite dal dibattito preliminare sul terrorismo finirono inevitabilmente per ripercuotersi anche sull‟attività del Comitato ad hoc, suddiviso al suo interno fra quanti denunciavano l‟esigenza di tracciare una limpida linea di demarcazione tra le lotte di liberazione nazionale ed il terrorismo (nella specie, gli Stati in via di sviluppo, appoggiati dai regimi socialisti), avanzando la pretesa di ravvisarne la causa scatenante nel colonialismo, nell‟apartheid, nel razzismo e nell‟occupazione straniera (in altri termini, nel terrorismo di matrice statale)277 e coloro che (in primis, gli Stati Uniti), per contro, insistevano sulla opportunità di elaborare una Convenzione globale sulla repressione del terrorismo, sottolineando la necessità di considerarlo “condannabile ed ingiustificabile in qualsiasi circostanza”.

L‟ardua realizzazione degli obiettivi contemplati nella citata risoluzione emerse in tutta la sua nitidezza nove anni dopo la sua adozione, ovverosia quando nel rapporto278 trasmesso nel 1979 all‟Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo speciale Comitato sul Terrorismo evitò di perseguire qualsivoglia tentativo di avanzamento in ordine alla definizione del fenomeno.

Gli spunti trattati inducono a ricondurre la già più volte rilevata difficoltà di pervenire ad una definizione giuridica di terrorismo di tenore globale, la quale possa, tra l‟altro,

richiesti dall‟Assemblea alla Corte internazionale di giustizia non hanno natura vincolante. Tuttavia, in virtù dell‟autorevolezza della Corte dell‟Aja, producono un impatto diretto sulla definizione e l‟interpretazione delle regole disciplinanti la convivenza interstatuale. Non è un caso, infatti, che la stessa Assemblea ha provveduto a sottoporre per ben quattordici volte alla Corte una richiesta di parere (tra i precedenti più recenti rilevano la risoluzione A/49/75 [K] del 15 dicembre 1994 in tema di legittimità della minaccia e dell‟uso delle armi nucleari, nonché quella dell‟8 dicembre 2003 ES-10/14, con cui la stessa ha richiesto alla Corte un parere consultivo sulle conseguenze giuridiche legate alla edificazione da parte di Israele d‟un muro nei territori occupati.

276 Cfr. W. DE PAUW, O.N.U., La résolution sur le terrorisme international, in Réflexions sur la

definition et la répression du terrorisme, Actes du colloque A.B.J.D, Bruxelles, 1974, pp. 183-185.

277 La locuzione “terrorismo di Stato” risulta tradizionalmente impiegata al fine di designare, da un lato, il

metodo di governo fondato sulla violenza, organizzato dagli Stati all‟interno dei propri confini o in territori comunque assoggettati al proprio potere, dall‟altro il supporto dagli stessi fornito a terroristi od organizzazioni terroristiche che dirigono la propria attività contro obiettivi situati all‟estero, quando non, addirittura, la diretta imputabilità ad uno Stato di atti di terrorismo perpetrati all‟estero. La querelle sul terrorismo statale, sollevata all‟interno dell‟apposito comitato, risultava fondamentalmente imperniata sulle tesi di coloro che, da un punto di vista strettamente giuridico, consideravano la specifica qualificazione di “terrorista” riferibile esclusivamente a categorie di individui, cui si contrapponevano quelle volte a ricavare una nozione giuridica di terrorismo statale, facendo leva anche sulle condotte di finanziamento, addestramento o di incoraggiamento del terrorismo promosse da alcuni Stati in determinati contesti coloniali e razzisti.

278

132 differenziare compiutamente gli atti terroristici dalla lotta dei popoli nell‟esercizio del loro diritto all‟autodeterminazione e di opposizione all‟occupazione straniera, proprio al rischio di interferenza con la sfera politica e con la sovranità dei singoli Stati279.

279 Cfr. S. TARASSENKO, L‟evoluzione del quadro normativo internazionale nella lotta al terrorismo,

in AA.VV., Simposio. La convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale: condizioni per un efficace applicazione, Torino, 2002, p. 31.

133

3. Il processo di depoliticizzazione del terrorismo: dalla “Clausola belga” alla