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Ancora sul diritto penale: il criminale come malato

II. Genesi dello Stato e diritto in Aurora, La gaia Scienza e Così parlò Zarathustra

3. Ancora sul diritto penale: il criminale come malato

Le considerazioni svolte sulla Sittlichkeit der Sitte, portano il filosofo a riprendere il tema della giustizia punitiva che aveva già affrontato in Menschliches allzumenschliches. Infatti, benché Nietzsche non intenda fare alcuna apologia romantica del delinquente76, tuttavia esso continua a rappresentare per lui, come tipologia umana, un interessante oggetto di indagine. Il criminale simboleggia, in fondo, l’apoteosi dell’individuo difforme dalla norma e quindi, in un certo senso, colui che più di tutti incarna la ribellione contro la castrante eticità del costume; colui nel quale, paradossalmente, traluce proprio la possibilità di raggiungere le «mete più alte» della civiltà77. D’altra parte, Nietzsche desidera, allo stesso tempo, mettere in luce il fatto che il delinquente è comunque un prodotto indiretto della morale e del diritto che una società si dà78. Dunque, tutta la riflessione sul criminale come tipo umano, per come viene ripresa in Aurora, consta di questi due aspetti: da una parte, il criminale nasce dalla repressione alla quale vengono sottoposti gli individui dalla norma coattiva, dal diritto e dal costume. Dall’altra, è quell’individuo in cui tale repressione non riesce ad

76 Cfr., R.ESCOBAR, Nietzsche politico, cit., pp. 133-145

77 Cfr., F.BALKE, From a biopolitical point of view: Nietzsches philosophy of crime, in «Cardozo Law Review»,

24 (2003), pp. 705-722.

78 Scrive su questo aspetto Roberto Escobar commentando la questione generale del delinquente in Nietzsche:

«Ciò che Nietzsche intende ottenere con queste parole e con la descrizione del rifiuto, da parte di una società castrata e castrante, di uomini che mantengono intatta la propria potenzialità pulsionale, non è l’apologia del tipo umano del delinquente, così come di fatto questo si esplica in tale società. Al contrario, sostiene che il delinquente è un uomo che non riesce a esprimersi e a vivere compiutamente se stesso; se si vuole, è un’ombra o una caricatura di se stesso. Quello che viene in primo piano è piuttosto, che nel delinquente si mostra l’assurdità della morale della castrazione, che il delinquente è il prodotto di questa morale, meglio uno dei possibili prodotti, l’altro essendo l’individuo “morale” o “normale”, in cui la castrazione è riuscita sino in fondo. Ciò che distingue, però, il criminale dall’individuo “morale” e “normale” è il fatto che il primo, pur essendo coartato, deformato e intristito dalla società, mantiene tuttavia la capacità di ribellarsi», R.ESCOBAR, Nietzsche politico, cit., pp. 134-135.

Poche righe prima, a pagina 133, Escobar discute brevemente la critica che il giurista Adelbert Düringer muove a Nietzsche nel suo testo del 1906 Nietzsches Philosophie Vom Standpunkte Des Modernen Rechts. Alla critica di Düringer secondo il quale, in qualche modo, le considerazioni nietzschiane sulla realtà penale e sui delinquenti gli provenivano soprattutto attraverso opere letterarie e resoconti di viaggi e per questo sarebbero di poco valore, Escobar risponde che questo non è un elemento valido per inficiare le riflessioni di Nietzsche poiché «se tale rilievo è certamente fondato, tuttavia non comporta che, per questo le opinioni di Nietzsche siano meno indicative di un atteggiamento nei confronti del fenomeno penale e nei confronti dell’uomo e del suo rapporto con le norme (giuridiche e morali), che si inserisce in una più vasta esperienza esistenziale e intellettuale, per tanti versi esemplare di tutto un periodo storico e culturale. Probabilmente la conoscenza che Nietzsche ebbe del delinquente – nella sua realtà vera – non fu inferiore a quella che generalmente avevano le persone colte della sua classe. E proprio in questa prospettiva – dunque non specialistica, ma solo relativa alle opinioni di fatto correnti in questa classe – ha senso ciò che egli scrive del delinquente. Del resto, Nietzsche non pretende di essere uno specialista – la sua stessa specializzazione di filologo, negli anni di Basilea, ben presto gli apparve angusta, limitante e non tollerabile. Il significato più profondo della sua filosofa consiste anzi nel fatto che in lui e nel suo pensiero confluiscono, negando la specializzazione, gli elementi più generali (e perciò talvolta anche necessariamente generici) della cultura del suo tempo», ivi, pp. 133-134.

essere completa. Ma proprio per questo, paradossalmente, si mostra meglio che negli altri poiché esplode, come sintomo di un animo sofferente, nella ribellione propria dell’atto criminale. Il criminale è, per così dire, la falla nel sistema dell’omologazione operata dalla cultura. In altre parole, esso è la dimostrazione della repressione operata dalla norma. Una repressione che negli individui ‘normali’ e ‘normati’, cioè obbedienti, non si paleserebbe mai in quanto completamente riuscita e, quindi, sostanzialmente invisibile.

In questo senso, il criminale è depositario di possibilità di crescita per tutta la società; come natura deviante è, infatti, una natura creativa. D’altronde, è la storia della civiltà stessa che mostra le potenzialità del delinquente poiché se è vero, ci ricorda Nietzsche, che nel momento in cui hanno trasgredito la norma vigente questi uomini sono stati detti ‘delinquenti’, «più tardi sono stati detti buoni»79. In altri termini, i valori sui quali si fonda una civiltà – compresi quelli che da ultimo, quando si consolidano, diventano repressivi – all’inizio erano considerati esattamente al contrario di come lo sono attualmente, vale a dire come disvalori e pericoli per la comunità. Solamente più tardi, essi sono stati accettati quali norme etiche di comportamento e, col passare del tempo, si sono trasformati in strumenti omologanti e repressivi. All’inizio, quindi, sono stati i folli, i malati e i criminali che hanno infranto le antiche consuetudini etiche creandone delle nuove. In realtà, ciò che noi conosciamo come ‘criminale’ – scrive Nietzsche in un frammento della seconda metà degli anni Ottanta – è solo il «tipo fallito del delinquente», colui che ha perso la sua battaglia e che vediamo depresso e intristito nelle prigioni. Ma questa è una falsa prospettiva e con ciò rischiamo di dimenticare l’essenziale: «tutti i grandi uomini sono stati delinquenti»80.

Proprio il riconoscimento della forza creativa che hanno i non-conformisti (die Abweichende) – unita alla considerazione della inutilità pratica della pena afflittiva nella rieducazione del criminale81

– porta Nietzsche a suggerire non la repressione di tali individui ma, esattamente al contrario, la loro coltivazione attraverso «numerosi nuovi tentativi di vita e di comunità»82. In tal modo, si può immaginare che fiorirebbe una grande pluralità di etiche diverse e il criminale stesso non sarebbe che colui che ha infranto la norma che lui stesso si è autonomamente prescritto. Nietzsche scruta nel

79 Cfr., M 20. 80 FP 9 [120], 1887.

81 Anticipando le considerazioni che farà in seguito sulla psicologia del delinquente, Nietzsche scrive già

nell’aforisma 366 di Aurora che la pena non genera alcun tipo di rimorso. Dal punto di vista della rieducazione sul piano morale del delinquente è, quindi, sostanzialmente inutile: «Come delinquenti scoperti, non si soffre del delitto, ma dell’ignominia, o del cruccio per la stupidaggine commessa, o della privazione dell’elemento abituale, ed occorre una sottigliezza, che è rara, per fare a questo riguardo una distinzione. Chiunque ha praticato molto carceri e stabilimenti di pena, si stupisce quanto sia raro incontrarvi un inequivocabile “rimorso di coscienza”: ma tanto più spesso, invece, la nostalgia dell’antico, malvagio, amato delitto», M 366.

futuro e immagina il «delinquente di un possibile avvenire»; questi si auto-punisce, ma solo a causa della trasgressione della norma che si è imposto da solo83. Sulla scia di queste riflessioni, che sono tutte costruite sul rapporto creatività-insubordinazione, Nietzsche torna a ridiscutere quello che dovrebbe essere il ruolo della giustizia penale. L’idea di Nietzsche è che la ribellione del criminale dovrebbe, per quanto possibile, essere esperita nello Stato come momento di crescita piuttosto che come momento di crisi e di opposizione. Allo stesso tempo, lo Stato non può neanche abdicare alla sua funzione di pacificazione sociale. Infatti, se è vero che la sua funzione ultima non è quella di rendere la società sicura poiché «rendere la società indenne dai ladri e dal fuoco, nonché infinitamente comoda per commerci e viaggi, e trasformare lo Stato nella provvidenza in senso buono e cattivo – sono obiettivi mediocri, vili e non assolutamente indispensabili»84, l’alternativa non consiste neanche nella sua completa rinuncia ad essere garante della sicurezza e della stabilità. La giustizia penale deve essere ripensata in questa fessura che si apre tra la concezione dello Stato come strumento di sicurezza ma anche come mezzo per lo sviluppo della cultura più alta.

Così, in forte continuità con Umano, troppo umano, si trovano in Aurora diversi passi nei quali Nietzsche ribadisce la necessità di una giustizia penale più mite, in considerazione del fatto che il delinquente andrebbe considerato alla stregua di un malato. La giustizia penale dovrebbe essere motivata da scopi sostanzialmente umanitari e filantropici, da una «saggezza da medici»85 che non concepisca la pena come atto vindice, proprio del più antico istinto della vendetta, ma semplicemente come atto risarcitorio. In fondo, la questione del delinquente, una volta depurata dall’errore della libertà e considerata quindi non nelle sue cause ma solo nelle conseguenze, è sovrapponibile a quella del malato. Entrambi causano un danno alla società ma «si darebbe oggi la qualifica d’inumano a chi, per questo, volesse vendicarsi dei malati»86. Allo stesso modo, si dovrebbe trattare il criminale, senza volersi vendicare per il danno che egli ha causato. Esso andrebbe considerato appunto come un infermo e come un essere umano in difficoltà. Come misura penale e di reinserimento nella collettività, si potrebbe allora escogitare una forma pubblica di compensazione del danno che questi ha causato – scevra però del lato afflittivo tipico delle pene – che preveda «un beneficio reso ad un altro, forse alla collettività»87. L’obiettivo finale non dovrebbe essere quello di rivalersi ma di «restituire al delinquente soprattutto la buona disposizione interiore e la libertà d’animo»88. In linea

con tutto il ragionamento sul rapporto delinquenza-creatività, va ancora una volta sottolineato come

83 Cfr., M 187. 84 M 179. 85 M 202. 86 M 202. 87 M 202. 88 M 202.

queste indicazioni non siano motivate solamente da una sensibilità umanitaria ma anche da considerazioni, in senso lato, economiche. Infatti, proprio in virtù dell’apporto creativo che le anime degeneranti possono offrire per lo sviluppo di una cultura superiore, si tratta di non sperperare la cosa più preziosa: lo spirito89.

È necessario quindi superare la triste situazione nella quale si trovano attualmente, secondo il filosofo, i tribunali che amministrano «la giustizia che punisce» la quale, invece che rieducare, «indurisce gli uomini»90. I tribunali sono infatti null’altro che il luogo dove regna incontrastata quella «bilancia da bottegai» che ha sempre di mira il bilanciamento tra colpa e pena. In questo elemento così rozzamente retributivo, basato su una logica falsa – come Nietzsche ha spiegato approfonditamente già a partire da Umano, troppo umano – una logica che fa perno sul concetto di libero arbitrio, il filosofo vede tra l’altro la traslazione di valori e prassi tipicamente mercantili sul livello del diritto penale.

Ma proprio per questo motivo, cioè proprio perché la logica mercantile è la logica che domina l’intera società, una sua eradicazione appare un’impresa quanto mai complessa. L’argomentazione di Nietzsche, nelle sue linee portanti, è chiara. Tuttavia, essa assume una ancora più chiara determinatezza proprio nel momento in cui la si affianca alla critica generale che Nietzsche muove alla modernità. Si veda in quali termini Nietzsche descrive la società moderna, tutta determinata dalla logica della retribuzione e dello scambio economico, e si comprenderà allora per quale motivo al filosofo appaia così complesso il superamento della penale, e penosa, «bilancia da bottegai» che regna nei tribunali:

Più volte oggi si osserva la civiltà di una società nascente, per cui l’esercizio del commercio sia come l’anima stessa, tanto quanto lo fu per gli antichi Greci il certame individuale e per i Romani la guerra, la vittoria e il diritto. Chi esercita il commercio sa fissare il valore di ogni cosa, senza costituirlo, e in realtà sa stabilirlo secondo il bisogno dei consumatori, non secondo il suo personalissimo bisogno. […] Tale tipo di valutazione l’applica ora istintivamente e continuamente a tutto, e così anche alle produzioni delle arti e delle scienze, dei pensatori, dei dotti, degli artisti, degli uomini di Stato, dei popoli e dei partiti, di intere epoche: riguardo a tutto quanto viene prodotto vuol sapere la domanda e l’offerta, al fine di stabilire per sé il valore di una cosa. Tutto questo diventa il carattere di un’intera civiltà, vien fatto oggetto di scrupolosa riflessione fino alla massima ampiezza e finezza, e motivo informatore di ogni volere e potere91.

89 M 179.

90 Cfr. FP 42 [20], 1876-78. 91 M 175.

In realtà, secondo Nietzsche, questa logica vindice e punitiva che trasla la forma mentis commerciale nell’ambito della giustizia penale svela proprio in ciò la sua debolezza, poiché una società veramente forte sarebbe una società in grado di prosperare nonostante i parassiti che la abitano; anzi la sua salute si misurerebbe proprio in relazione alla capacità di sopportare questi ultimi. Sarebbe, in altri termini, una società libera dalla logica mercantile che sempre esige un contraccambio, libera dalla inesausta ricerca dell’equivalente, dal calcolo utilitario e dall’applicazione della legge del mercato a qualsiasi ambito delle relazioni umane. Nell’opera sorrentina Nietzsche aveva scritto che all’interno di una visione aristocratica delle relazioni umane, viene detto ‘buono’ «chi ha il potere di rivalersi, bene con bene, male con male, ed effettivamente opera questa rivalsa, cioè è riconoscente e vendicativo» e che, parallelamente, viene considerato ‘cattivo’ chi non può farlo92. In Aurora, ribalta completamente i suoi giudizi. Infatti, sintomo di forza

sarebbe proprio la capacità di svincolarsi dall’impulso alla vendetta. Di essere, insomma, talmente potenti e aristocraticamente distaccati da non volersi neppure rivalere. Secondo questa nuova prospettiva, bisognerebbe infatti «misurare il grado di salute di una società, e dei singoli, dalla quantità di parassiti che essa può sopportare»93.