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La dinamica giuridica in Aurora: la promessa e il dono

II. Genesi dello Stato e diritto in Aurora, La gaia Scienza e Così parlò Zarathustra

4. La dinamica giuridica in Aurora: la promessa e il dono

Nell’aforisma 112 di Aurora, Nietzsche prosegue l’analisi della dinamica creatrice del diritto, secondo le linee già tracciate in Umano, troppo umano. Come in quell’opera, anche qui è la logica dello scambio privatistico che sta alla base del costituirsi della dimensione giuridica. Tuttavia, in questo testo, Nietzsche specifica il discorso sulla genesi del diritto in direzioni che si amplieranno fino a diventare centrali nella Genealogia e che perciò è necessario ricostruire con attenzione. In particolare, in Aurora emergono due elementi fondamentali: la questione della costituzione del

soggetto giuridico e la questione del dono, elemento quest’ultimo che, pur senza contraddirle,

problematizza le tesi di Umano, troppo umano. Iniziamo dal primo elemento: la genesi del soggetto giuridico. A differenza di Umano, troppo umano dove la questione era affrontata sostanzialmente a partire dal principio dell’equilibrio, qui viene posto il problema antecedente a quello, cioè il problema, per così dire, delle condizioni di esistenza del principio dell’equilibrio stesso. Come abbiamo visto, in Menschliches allzumenschliches Nietzsche si spingeva ad ammettere che era possibile una relazione giuridica anche tra lo schiavo e il padrone. Certo, era un caso limite. Eppure, quella

92 M 45. 93 M 148.

situazione riusciva a spiegare bene la logica dell’equilibrio che il filosofo voleva esibire quale fondamento del Recht, vale a dire la dinamica contrattuale su base economica.

In Per la storia naturale del diritto e del dovere, così si intitola per l’appunto l’aforisma numero 112 di Aurora, Nietzsche inserisce un elemento ulteriore nella sua analisi e pone il problema di come sia possibile stabilire, anche in condizioni estremamente sbilanciate come quella schiavo- padrone, il rapporto giuridico. Qual è insomma l’elemento che fa sì che schiavo e padrone possano arrivare all’accordo? Affinché esso sia possibile, i due soggetti devono riconoscersi come soggetti giuridici, cioè come soggetti in grado di promettere e di rispettare la parola data. Solo così possono dar vita a una relazione contrattuale:

I nostri doveri sono i diritti di altri su di noi. Per quale tramite li hanno acquisiti? In questo modo: col ritenerci capaci di stipular contratti e di essere retribuiti, col farci uguali e simili a loro, coll’affidarci, in questo senso, qualcosa, coll’impartirci un’educazione, degli insegnamenti e col prestarci soccorso. Noi osserviamo il nostro dovere – vale a dire: noi giustifichiamo quella rappresentazione di un nostro potere in vista del quale tutto ci fu tributato, noi restituiamo nella misura in cui ci fu dato. Così è il nostro orgoglio che ci ordina di fare il nostro dovere, – noi vogliamo restaurare la nostra sovranità, quando a quello che gli altri fecero per noi contrapponiamo ciò che noi facciamo per loro, – essi infatti hanno con ciò invaso la sfera del nostro potere e continuerebbero sempre ad averla nelle loro mani, se noi non effettuassimo col ‘dovere’, una controprestazione, vale a dire non violassimo il potere loro. Soltanto a ciò che è in nostro potere possono riferirsi i diritti degli altri; sarebbe irrazionale se essi pretendessero da noi qualcosa che a noi stessi non appartiene. Più esattamente si deve dire: soltanto a ciò che essi pensano sia in nostro potere, posto che sia la stessa cosa di cui noi pensiamo d’essere in potere94.

Come in Umano, troppo umano, anche qui la logica che presiede il diritto è la logica dello scambio, cioè un rapporto tra prestazione e controprestazione. E, come in quell’opera, Nietzsche specifica che la relazione tra prestazione e controprestazione, più che su un reale e oggettivo calcolo delle potenze in lotta, viene stabilita in base alla potenza percepita. È naturalmente la questione dell’equilibrio secondo la quale sui piatti della bilancia dove si stabilisce cosa è giusto – dunque il contenuto del Recht – non si pesa tanto la forza bruta dei contraenti quanto, appunto, la forza percepita. A questi temi, che come sappiamo Nietzsche ha messo in campo già a partire dal periodo sorrentino, si aggiunge qui l’esplicitazione del problema della promessa (Versprechung). È chiaro che per poter stipulare un patto bisogna essere in grado di promettere, cioè essere in grado di rispondere di sé nel futuro. Ma rispondere di sé nel futuro è appunto il problema della responsabilità.

Nietzsche problematizza in modo radicale la questione. Per lui, infatti, il processo grazie al quale l’uomo è in grado di rispondere di sé non è un fatto immediato e naturale, insito nell’essere umano fin dalle origini. Esattamente al contrario, esso è piuttosto un prodotto della cultura o, meglio, com’è stato scritto di un «crudele dressage»95 al quale viene sottoposto dai suoi stessi simili. Nella

Genealogia tutto ciò viene espresso in termini tragici, qui Nietzsche invece si limita a notare che tale

processo avviene attraverso l’educazione e gli insegnamenti che si ricevono ma che, comunque, non è un fatto originario ma frutto di un processo artificiale.

Ma l’elemento che rende l’aforisma 112 di Aurora fondamentale per la ricostruzione della dimensione giuridica della filosofia di Nietzsche non è tanto l’insistenza sull’importanza del contratto quanto piuttosto la questione del dono. Come si evince dall’affermazione secondo la quale «i nostri doveri sono i diritti di altri su di noi», sarebbe un errore separare concettualmente tra loro i diritti e i doveri. Diritti e doveri non esistono quali ‘cose in sé’ che siano tra loro irrelate. Essi non esistono in modo astratto, ma sono sempre determinati dalla situazione contingente dei rapporti di forza e vengono alla luce solo all’interno della relazione intersoggettiva. Si potrebbe dire, in altri termini, che diritti e doveri sono i due lati della medesima medaglia. In particolare, per come Nietzsche presenta la tesi in questo passo, si può dire che diritti e doveri si stabiliscono in base alla capacità di

invadere la sfera dell’altro soggetto. Fin dove si ha capacità invasiva, fin lì esiste il diritto soggettivo.

E parimenti, la sfera del dovere – cioè della contro-prestazione che si deve all’altro – è definita dalla misura della invasione che si è subìta. In questo modo, Nietzsche può affermare che i diritti hanno appunto origine «come riconosciuti e garantiti gradi di potenza»96 e che, come il diritto internazionale dimostra ancora oggi, «laddove domina il diritto, è mantenuto in piedi un certo stato e grado di potenza, e sono impediti una diminuzione e un accrescimento»97. Come si vede, i termini della spiegazione sono interni alla logica dell’equilibrio già elaborata in Umano, troppo umano. Cosa c’entra allora il dono in tutto questo?

In realtà, se si procede all’analisi dell’aforisma, si vede come Nietzsche utilizzi sì la logica dello scambio e dell’equilibrio ma anche come la declini in una nuova forma e come affianchi alla spiegazione utilitaria e mercantilista, egemone nei passi di Umano, troppo umano, un’altra ipotesi circa l’origine del rapporto giuridico. Questa modalità, alternativa alla categoria dell’utile economico, è quella del dono. In effetti, domandandosi in quale modo alcuni uomini possano avanzare pretese e prestazioni da parte di altri, Nietzsche risponde che ciò può avvenire in due modi: per timore o per

95 Cfr., M.C.FORNARI, La morale evolutiva, cit., pag. 169. 96 Ibidem.

donazione (Schenkung und Abtretung). Il primo aspetto della questione è quello ‘classico’: ci si allea e si cerca un equilibrio o per timore o per unire le forze contro una potenza nemica o, ancora, per ricevere una controprestazione da un altro soggetto. Ma oltre a tale prassi, tipicamente utilitaria e sostanzialmente generata dalla paura e dalla ricerca del vantaggio economico, esiste un altro modo per spiegare l’origine della obbligazione giuridica. Questa seconda modalità è la donazione. In questo caso, i diritti derivano dalla cessione di potenza di chi «ha potenza bastante, più che bastante per poterne cedere una parte e garantire la parte ceduta a colui cui ne fecero dono»98. Nel caso in cui l’obbligazione giuridica si fondi quindi sul dono non è tanto la logica del bisogno che crea il diritto (come invece avviene secondo una logica utilitaria) quanto piuttosto la logica della potenza, intesa come sovrabbondanza, come capacità di dare ed offrire senza esigere immediatamente una controprestazione. Eppure, e qui interviene la sfera psicologica sempre presente in queste considerazioni nietzschiane, tale Schenkung, sebbene sia un atto sostanzialmente gratuito, è comunque in grado di generare un vincolo giuridico. Essa fonda quindi una relazione obbligatoria tra una prestazione e una controprestazione. Infatti, secondo Nietzsche il dono non si esaurisce nell’accettazione del bene ricevuto ma implica che il donatario, proprio perché si sente ‘toccato’ e ‘occupato’ dalla forza dell’altro, sia naturalmente portato a voler ricambiare il dono perché vuole ripristinare la sua propria «sfera di potenza». Questa dinamica accenna quindi a una economia del dono, in contrapposizione a quella descritta per prima, la quale è invece interna ad un’economia mercantilistica. Mentre nel primo caso ad essere scambiate sono sostanzialmente merci, nel secondo caso lo scambio riguarda piuttosto elementi simbolici e psicologici. Analizzata da questo punto di vista, la genesi dei diritti e dei doveri avrebbe dunque una duplice origine: una mercantile-utilitaristica e una invece legata all’atto del donare. Per questo motivo, alcuni interpreti hanno avvicinato questo accenno sul dono presente in Nietzsche alle tesi sostenute nel 1924 da Marcel Mauss nel celebre Essai

sur le don e, in particolare, alle ricerche che il sociologo francese condusse sul potlàc99.

Secondo Mauss gli albori dell’economia non sono caratterizzati dalla forma-scambio del baratto, come vorrebbe l’economia classica, bensì da relazioni fondate sullo scambio rituale di doni100: ad essere scambiate sul mercato non sono le merci nel loro valore economico e assoluto ma

98 Ibidem.

99 Sul parallelismo tra Nietzsche e Mauss cfr., R.ESCOBAR, Nietzsche politico, cit., pp. 80-84; E.STIMILLI, Debito

e colpa, Roma, Ediesse 2015, pag. 63 sgg. e da D.GRAEBER, Debito. I primi 5000 anni di storia, Milano, Il saggiatore 2011, pp.76-80.

100 Su questo punto argomenta così Mauss: «La storia economica e giuridica corrente è in grave errore su questo

punto. Imbevuta di idee moderne, essa si costruisce delle idee a priori sull’evoluzione, segue una logica, cosiddetta necessaria; in sostanza, resta legata alle vecchie tradizioni. Niente di più pericoloso di questa “sociologia inconsapevole”, come l’ha chiamata Simiand. Cuq, per esempio, afferma: “Nelle società primitive si concepisce solo il regime del baratto; in quelle più avanzate si pratica la vendita per contanti. La vendita a credito caratterizza una fase superiore della civiltà; essa appare anzitutto sotto una forma, combinazione della vendita in contanti e del prestito”. In effetti, il punto di partenza

tutta una serie di elementi, sostanzialmente simbolici, che definiscono i rapporti tra esseri umani all’interno della tribù e tra tribù fra loro estranee. Per questo motivo, nell’età arcaica, il dono non andrebbe inteso semplicemente come scambio di ricchezze ma come «fenomeno sociale totale»; formula nella quale l’aggettivo ‘totale’ indica che in esso «si mescola tutto ciò che costituisce la vita propriamente sociale delle società che hanno preceduto le nostre – fino a quelle della protostoria»101. Nel dono, analizzato come fenomeno sociale, si trova infatti accanto all’elemento economico- giuridico anche quello morale, religioso, estetico e morfologico della società, in un amalgama molto difficile da districare102. Lo studio di Mauss, il quale si inserisce, come spiega l’autore, in una più ampia ricognizione sulle forme arcaiche del contratto, desidera analizzare essenzialmente un aspetto del dono e cioè il fatto di essere una prestazione ibrida. Esso è, infatti, una mescolanza tra una dimensione libera e gratuita e una dimensione invece vincolante e obbligatoria. Ed è proprio questo aspetto che richiama alla mente l’argomentazione nietzschiana e che può aiutare l’interprete che decide di servirsi dello studio dell’antropologo francese ad illuminare un po’meglio l’argomentazione di Nietzsche. Il punto centrale, a nostro avviso, è il seguente: il dono nella società arcaica – per come lo intende Mauss – costituisce una forma di obbligazione a partire da un atto solo in apparenza

gratuito. Nonostante la distanza temporale, che c’è tra i due autori, questa ambiguità del dono è ciò

che può far accostare l’uno all’altro. Infatti, la tesi di Nietzsche tange le considerazioni di Mauss: i doveri si generano a partire da un atto di donazione che è gratuito solo in apparenza.

Infatti, secondo Mauss, la caratteristica di tali prestazioni è che, nonostante esse siano volontarie – frutto cioè di un atto spontaneo –, tuttavia sono «in fondo, rigorosamente obbligatorie, sotto pena di guerra privata o pubblica»103 . In tal modo «la vita materiale e morale, lo scambio, vi operano sotto una forma disinteressata e obbligatoria allo stesso tempo»104. In effetti, il connotato principale del fenomeno del dono rituale è che esso si basa su una triplice forma di obbligazione: quella che obbliga a dare, quella che obbliga a ricevere e, infine, quella che obbliga a ricambiare ad usura il dono ricevuto. Come argomenta Mauss «la prestazione totale, infatti, non implica soltanto l’obbligo di ricambiare i regali ricevuti, ma ne presuppone altri due non meno importanti: l’obbligo

è altrove. Esso risiede in una categoria di diritti che i giuristi e gli economisti lasciano da parte disinteressandosene; si tratta del dono, fenomeno complesso, soprattutto nella forma più antica, quella della prestazione totale, di cui noi ci occupiamo in questa memoria; ora, il dono si porta necessariamente dietro la nozione di credito. L’evoluzione non ha fatto passare il diritto dall’economia del baratto alla vendita, e la vendita da quella in contanti a quella a termine. È da un sistema di doni, dati e ricambiati a termine, che sono sorti, invece, da una parte, il baratto, per semplificazione, per avvicinamento di tempi prima separati, e dall’altra, l’acquisto e la vendita, quest’ultima a termine e in contanti, ed anche il prestito», M.MAUSS, Saggio sul dono, Milano, Einaudi 2002, pp. 44-45.

101 Ivi, pag. 5.

102 Cfr., ivi, pag. 5 sgg. 103 Ivi, pag. 8.

di fare regali, da una parte, l’obbligo di riceverli dall’altra»105. Insomma, detto in altri termini, la

dinamica del dono genera naturaliter il debito, poiché «la natura peculiare del dono è proprio quella di obbligare nel tempo»106. Il debito stesso però, coerentemente con tutta la spiegazione che Mauss fornisce del fenomeno, non ha solamente carattere economico ma, in maniera ben più complessa, si configura come un vero e proprio «vincolo spirituale»107.

Secondo l’antropologo francese, tutta la logica che sottostà al dono come istituzione arcaica si mostra in una delle sue declinazioni più peculiari e nell’oggetto più noto del suo saggio: il potlàc. Il potlàc è il sistema di scambio di doni tipico delle popolazioni del Nord-ovest americano, ancora in uso all’inizio del secolo scorso come modalità principale per lo scambio di ricchezza. Come altre tipologie di doni rituali arcaici, anche il potlàc è interpretabile come fenomeno sociale totale poiché vi si ritrovano all’interno varie stratificazioni di senso: giuridiche, religiose, mitologiche, sciamanistiche, estetiche e di morfologia sociale. In realtà però, il potlàc è molto di più di un semplice dono rituale. Infatti, oltre ad essere un «fenomeno sociale totale» è anche una «prestazione totale di tipo agonistico»108 o, come la chiama Bataille commentando proprio queste pagine di Mauss, un «dono di rivalità»109. Esso si distingue per la violenza che gli è propria e per l’esaltazione

dell’agonismo tra i contendenti-donatori. Questi elementi lo rendono una vera e propria «lotta di ricchezza». In questa forma di dono rituale, scrive Mauss, «tutto è basato sul principio dell’antagonismo e della rivalità» e «il prestigio individuale di un capo e quello del suo clan sono legati maggiormente allo spendere e ricambiare puntualmente e ad usura i doni accettati, così da obbligare coloro verso i quali si era rimasti obbligati»110.

In questo senso il potlàc è un elemento di morfologia sociale: è attraverso di esso, infatti, che si stabilisce il rango all’interno della comunità. Ma l’elemento veramente interessante messo in luce da Mauss è che nel potlàc spesso si arriva, per impressionare l’avversario, alla distruzione suntuaria

dei beni, nel senso che «in un certo numero di casi, non si tratta neppure di dare e di ricambiare, bensì

di distruggere per non dare neanche l’impressione di desiderare qualcosa in cambio»111. In questo

105 Ivi, pag. 17. 106 Ivi, pag. 44. 107 Cfr. Ivi, pag. 18. 108 Ivi, pag. 10.

109 Cfr., G.BATAILLE, La parte maledetta, Torino, Bollati-Boringhieri 1992 pag. 72 sgg. 110 M.MAUSS, Saggio sul dono, pag. 54.

111 Ivi, pag. 47. Si veda anche, sul punto centrale della distruzione suntuaria e sul carattere agonistico del potlàc

quanto Mauss scrive poco prima in riferimento ai Tlingit e agli Haida, due tribù nordamericane che praticano il potlàc: «Presso queste due ultime tribù del Nord-ovest americano e in tutta questa regione, appare, però, una forma certamente tipica, ma evoluta e relativamente rara, delle prestazioni totali cui abbiamo accennato. Abbiamo proposto di chiamarla potlàc […]. “Potlàc” significa essenzialmente “nutrire”, “consumare”. Queste tribù, molto ricche, che vivono nelle isole o sulla costa, o tra le Montagne Rocciose e la costa, trascorrono l’inverno in una festa continua: banchetti, fiere e mercati che costituiscono, nello stesso tempo, l’assemblea solenne della tribù. Quest’ultima è disposta secondo le sue confraternite

senso, lo scopo del potlàc non è certo quello di sperperare le ricchezze ma quello di accrescere il proprio onore solo che, e questo è il punto, ciò non avviene attraverso la conservazione dei beni stessi ma attraverso loro distruzione. Come ha scritto giustamente Bataille, proprio commentando la dinamica agonistica tipica del potlàc, «si coglie male il senso della guerra e della gloria se non lo si mette in rapporto, almeno in parte, con quell’acquisizione di rango tramite un dispendio sconsiderato di risorse vitali»112. Tornando a Mauss, tale forma di dono che stabilisce «un sistema giuridico ed economico in cui si profondono e si trasferiscono costantemente ricchezze considerevoli» può essere considerata uno scambio e una vendita? In senso proprio, secondo Mauss, no. Infatti, l’elemento propulsivo dello scambio non va individuato tanto nel guadagno economico quanto piuttosto nella difesa dell’onore e nella conquista del prestigio sociale. È l’onore il grande protagonista e il soggetto principale del potlàc e, possiamo dire, l’oggetto della contesa. Tale logica implica, infatti, che presso tutte le tribù che utilizzano questo tipo di dono rituale chiunque si accinga ad effettuare lo scambio non come «commercio nobile, pieno di etichetta e di generosità» ma «in vista di un guadagno immediato, è oggetto di un disprezzo molto accentuato»113.

Tornando ora a Nietzsche e all’aforisma 112 di Aurora, è chiaro che in quel testo affiora una logica molto simile a quella descritta da Mauss. È vero: Nietzsche non parla né di potlàc né di distruzione suntuaria delle ricchezze. Ma sia l’onore sia la logica dell’eccesso sono identificati come elementi genetici della relazione giuridica, la quale, come in Mauss, prende avvio da un dono che è gratuito solo in apparenza. In realtà esso genera l’obbligo di essere ricambiato, tanto che «gli uomini hanno impegnato il loro onore e il loro nome molto prima di saper firmare»114. Quando Nietzsche scrive che è il «nostro orgoglio che ci ordina di fare il nostro dovere» e che obbedire al dovere equivale a una restaurazione di personale sovranità perché «noi vogliamo restaurare la nostra sovranità quando a quello che altri fecero per noi contrapponiamo ciò che noi facciamo per loro», egli fa chiaramente

gerarchiche, le sue società segrete, spesso confuse con le prime e con i clan; e tutto, clan, matrimoni, iniziazioni, sedute di sciamanismo e del culto dei grandi dei, dei totem o degli antenati collettivi o individuali dei clan, tutto si mescola in un groviglio inestricabile di riti, di prestazioni giuridiche ed economiche, di determinazioni di ranghi politici nella società degli uomini, nella tribù, nelle confederazioni di tribù ed anche sul piano internazionale. Ma ciò che è notevole nelle tribù di cui ci occupiamo è il principio della rivalità e dell’antagonismo che domina tutte queste usanze. Si arriva fino alla battaglia, fino alla messa a morte dei capi e dei nobili che così si affrontano. Si giunge, d’altra parte, fino alla distruzione