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II. Genesi dello Stato e diritto in Aurora, La gaia Scienza e Così parlò Zarathustra

1.1 Contro il finalismo evolutivo

Abbiamo lasciato Nietzsche sulle montagne dell’Engadina, nell’Agosto del 1879 intento nella lettura di Der Zweck im Recht di Jhering e nella compilazione del Viandante e la sua ombra. Passa l’estate e il filosofo si reca di nuovo in Germania, a Naumburg. Poco dopo decide però di abbandonare nuovamente la terra natale e torna così in Italia, ma non a sud. Prima è a Riva del Garda, poi a Venezia. In seguito, dopo una nuova parentesi estiva tra Marienbad e la Germania, di nuovo in Italia; ma questa volta Nietzsche sceglie la costa che guarda a ponente e va a Genova. In questo inquieto peregrinare, sempre afflitto da una salute più che incerta, Nietzsche compone la sua seconda opera italiana:

Aurora. Nonostante a prima vista Aurora non approfondisca – se si escludono un paio di aforismi

dedicati uno al diritto e l’altro al costume – la tematica giuridica, in realtà è un testo fondamentale nell’evoluzione del pensiero nietzschiano. C’è, infatti, in Aurora qualcosa di molto importante che pian piano sta maturando nella filosofia di Nietzsche e che va certamente seguito perché, da lì a poco, avrà grande importanza anche per le tesi sul diritto e sullo Stato. Ci riferiamo naturalmente al problema della potenza che, nato come una specificazione del problema dell’egoismo, pian piano evolve verso la ontologia del Wille zur Macht. Un passaggio fondamentale per il tema che stiamo affrontando poiché l’evoluzione che avviene all’inizio degli anni Ottanta, cioè quella dall’egoismo alla volontà di potenza, è la transizione da una visione che possiamo chiamare ‘economica’ ad una ‘antieconomica’ della vita, del suo ritmo, della sua logica. Infatti, è proprio a partire da qui che, negli anni seguenti, Nietzsche arriverà all’ipotesi secondo la quale «un’entità vivente vuole soprattutto scatenare la sua forza»1 e non semplicemente conservarsi.

Nel contesto teorico del Wille zur Macht, dove si nega che il primo impulso del vivente sia la spinta all’autoconservazione, anche la concezione del diritto andrà rivista. Infatti, proprio in considerazione dell’ontologia della potenza2, Nietzsche si allontanerà dalla tesi sostenuta in Umano,

1 JGB 13.

2 Da questo punto di vista, cioè in riferimento all’evoluzione interna del pensiero nietzschiano, ci sembrano

ancora valide le considerazioni svolte da Walter Kaufmann il quale scriveva: «la differenza basilare tra le prime teorie di Nietzsche e le successive è che la sua filosofia finale è basata sull’assunto di un singolo principio fondamentale, mentre la sua filosofia giovanile era segnata da una scissione che la divideva in due. Quando Nietzsche introdusse la volontà di

troppo umano secondo la quale il diritto nasce dal calcolo utilitario di una «intelligente conservazione

di sé». Gli anni che vanno da Aurora alla composizione del primo libro di Also Sprach Zarathustra (dove per la prima volta Nietzsche fa uso dell’espressione Wille zur Macht in un testo pubblicato) raccontano appunto questa evoluzione, che nelle pagine seguenti desideriamo ripercorrere con l’attenzione puntata sulla questione del diritto e della genesi dello Stato.

È soprattutto attraverso il confronto serrato con l’utilitarismo inglese – in particolare con la sua versione evoluzionista (Spencer) – e attraverso l’utilizzo contro di esso di elementi che gli provengono da altri tipi di letture, spesso a carattere scientifico e come vedremo specificatamente biologico, che Nietzsche cerca di fondare un’altra simbolizzazione del vivente, cioè la volontà di potenza. È un percorso lungo, che in fin dei conti non potrà dirsi mai esaurito poiché, com’è noto, Nietzsche non riuscirà mai a comporre il testo definitivo su tale questione, pur avendo fino all’ultimo desiderato farlo. Infatti, la crisi torinese del 1889 gli impedirà di portare a termine il lavoro così tanto desiderato. In ogni caso, tenendo ferme le affermazioni sulla volontà di potenza che Nietzsche compie a partire dallo Zarathustra e che ribadisce poi in Al di là del bene e del male e nella Genealogia, è chiaramente visibile una netta evoluzione del suo pensiero. Un pensiero impegnato a cercare una spiegazione del ritmo della vita, una spiegazione sganciata sia da una ingenua teleologia evoluzionistica sia da un rigido meccanicismo.

Buona parte delle affermazioni che Nietzsche compie in Aurora contro l’idea secondo la quale la natura sarebbe orientata verso un telos sono giocate contro Herbert Spencer di cui Nietzsche legge, con grande interesse, Le basi della morale pubblicato a Londra nella primavera del 18793. Il confronto che Nietzsche ingaggia con Spencer è un confronto lungo e che avviene su più livelli di analisi anche se com’è stato messo in evidenza – e questo è l’elemento che certamente dal punto di vista del Wille

zur Macht è il più importante – «la critica di Nietzsche, nei confronti di Spencer, riguarda in primo

luogo il suo finalismo evolutivo»4. Per quanto riguarda l’evoluzione del nucleo teoretico della filosofia di Nietzsche, questo è senza dubbio l’elemento fondamentale. Infatti, è proprio contro la visione spenceriana della natura che il filosofo utilizzerà alcuni autori che gli daranno la possibilità

potenza nel suo pensiero, tutte le tendenze dualistiche che l’avevano lacerata precedentemente potevano essere ridotte a semplici manifestazioni di questa tendenza fondamentale. Fu quindi realizzata una riconciliazione tra Dioniso e Apollo, tra natura e valore, tra dispersione e finalità, tra io empirico e “vero” io e tra physis e cultura», W.KAUFMANN, Filosofo,

psicologo, anticristo, Firenze, Sansoni 1974, pag. 199.

3 Nella Biblioteca di Nietzsche: H.SPENCER, Die Thatsachen der Ethik. Autorisierte deutsche Ausgabe. Nach

der zweiten englischen Auflage übersetz von Prof. Dr. B. Vetter, Stuttgard, Schweizerbart’sche Verlagshandlung 1879.

Per la traduzione italiana facciamo riferimento a H.SPENCER, Le basi della morale, a cura di G. Salvadori, Torino, Fratelli Bocca Editori 1904.

4 Cfr., M.C.FORNARI, La morale evolutiva, cit. pag. 216. Molte delle considerazioni che seguono in questo

di ‘leggere’ in modo alternativo i processi di sviluppo, tanto in ambito organico quanto in ambito inorganico, e che lo metteranno sulla strada di un’interpretazione della natura completamente estranea sia al finalismo evoluzionistico sia al meccanicismo.

Nelle Basi della Morale, Spencer avanzava invece proprio una visione finalistica ed evoluzionista dell’uomo e dell’universo. A differenza di Darwin, che aveva circoscritto l’evoluzionismo alle specie viventi e che, quindi, aveva parlato solamente di un evoluzionismo di tipo biologico, Spencer applica il concetto di evoluzione a ogni campo della realtà. Per il filosofo inglese, gli enti sono sottoposti a una legge generale secondo la quale tutto ciò che esiste si sviluppa da una forma omogenea a una più eterogenea e dal semplice al complesso. Nelle specie viventi il passaggio da omogeneo a eterogeneo è sinonimo di un progressivo adattamento all’ambiente circostante. Parallelamente all’adattamento, per l’organismo migliora anche la capacità di sopravvivenza e la «quantità di vita», cioè la possibilità di interagire in maniera sempre più soddisfacente con l’ambiente. Il processo di adattamento è quindi ciò che aumenta in generale le «attività vitali»5 e il benessere

dell’individuo. Così, nella natura si vede – scrive Spencer – che gli organismi più semplici e meno sviluppati hanno poca capacità di interazione con l’ambiente, perché le loro azioni non sono finalizzate; essi, infatti, agiscono senza scopi precisi e hanno una vita molto breve. Al contrario, gli organismi più sviluppati possiedono una capacità maggiore di interazione con l’ambiente circostanze e hanno una capacità di sopravvivenza maggiore proprio perché le loro azioni si svolgono secondo fini e scopi ben precisi. Questo finalismo biologico, che si attua attraverso il processo di adattamento, tenderebbe alla conservazione della vita, la quale, in termini generali, consiste nel «continuo adattamento delle relazioni interne alle relazioni esterne»6. La storia degli esseri viventi è quindi la storia di un continuo progresso verso la forma piena del loro adattamento dal quale scaturisce necessariamente un maggiore benessere, un prolungamento della vita e un incremento di felicità.

Fiducioso in uno sviluppo naturale e spontaneo orientato verso un sempre maggiore benessere del vivente ben adattato, il filosofo inglese deriva da tale convinzione i presupposti della sua etica normativa. Egli considera infatti come azioni moralmente buone tutte quelle attività che favoriscono l’adattamento e che permettono quindi di raggiungere quel termine ad quem dell’evoluzione che consiste in uno stato di pace permanente nel quale la vita – valore supremo – sia salvaguardata e

5 Cfr. H.SPENCER, Le basi della morale, cit., pp. 11-12: «Donde segue che stimando la vita col moltiplicare la

sua lunghezza per la sua estensione, dobbiamo dire che l’aumento di essa, che accompagna l’evoluzione della condotta, risulta dal crescere di ambedue i fattori. I più molteplici e variati adattamenti di atti a fini, per i quali l’essere più sviluppato soddisfa di momento in momento più numerose esigenze, separatamente accrescono le attività che sono esercitate in prima linea, e separatamente aiutano a render più lungo il periodo attraverso il quale tali simultanee attività perdurano. Ogni ulteriore evoluzione della condotta estende l’aggregato delle azioni, mentre conduce al prolungamento di essa».

sviluppata al massimo grado possibile7. Come ha messo in rilievo Fornari8, è proprio contro questa declinazione dell’evoluzionismo e dell’utilitarismo che Nietzsche prende posizione con l’aforisma 108 di Aurora:

Lo sviluppo non vuole felicità, bensì sviluppo e nient’altro. Soltanto se l’umanità avesse una meta universalmente riconosciuta, si potrebbe proporre che «agire in questo o in quel modo è un dovere»: ma per il momento una siffatta meta non esiste. Non si devono, dunque, porre in relazione all’umanità le esigenze della morale: è un’irrazionalità e un trastullarsi.

Mettere in cuore all’umanità una meta è tutt’altra cosa: in questo caso la meta è pensata

come qualcosa che sta nel nostro libito; posto che piacesse all’umanità quel che le è stato proposto, essa potrebbe in questa direzione darsi anche una legge morale, egualmente a suo libito. Ma fino ad oggi la legge morale doveva star piantata sopra il libito; propriamente questa legge non volevamo darcela, bensì da qualche luogo prenderla, o in qualche luogo

trovarla, oppure da qualche luogo farcela imporre9.

L’umanità – scrive Nietzsche – non ha alcuna meta determinata da raggiungere e verso la quale procede finalisticamente. Per questo motivo, le morali che si basano – come quella spenceriana – sul finalismo evolutivo sono da rifiutare. Se nella natura non agisce nessun fine, nessuna teleologia, allora l’approccio utilitarista è criticato, perché il concetto stesso di utile è un’illazione della ragione. Infatti, ‘utile’ è sempre il mezzo per raggiungere il fine ma, se il fine è sconosciuto, in quanto non determinabile, l’utilitarismo etico è un errore logico. Insomma, secondo Nietzsche non si può definire nessun concetto di bene morale che sia universale poiché non è vero che nella natura è rintracciabile una linea evolutiva chiara e distinta in grado di suggerire il principio primo di un’etica normativa. Il bene, come valore assoluto, secondo Nietzsche, non è determinabile. Ciò fa sì che cada il presupposto stesso dell’utilitarismo etico: «non sarà mai possibile determinare il valore della moralità adoperando per essa un metro, per esempio l’utilità (oppure la felicità); anche l’utilità deve infatti essere misurata

7 Su questo argomento, Spencer sostiene che «quindi il limite dell’evoluzione può esser raggiunto dalla condotta

soltanto nelle società dove vi sia pace permanente. Quell’adattamento perfetto delle azioni ai fini nel mantenere la vita individuale e nell’allevare nuovi individui, che è compiuto da ciascuno senza impedire agli altri di compiere simili perfetti adattamenti, costituisce, come mostra la sua stessa definizione, una specie di condotta a cui l’umanità si può avvicinare soltanto a misura che la guerra diminuisce e si estingue», ivi, pag. 16.

8 Cfr., M.C.FORNARI, La morale evolutiva, cit., pp. 144-148.

9 M 108. Si veda anche FP 6[59], 1880: «L’umanità non ha alcuno scopo, così come non lo ebbero i Sauri, ma

essa ha uno sviluppo: cioè la sua fine non ha più significato di un punto qualsiasi del suo cammino! NB. Di conseguenza non è possibile definire il bene come se fosse il mezzo per ‘lo scopo dell’umanità’. Sarebbe, questo, ciò che prolunga al massimo possibile lo sviluppo? oppure, che la porterebbe al culmine più alto (tra ascesa e discesa, divenire e perire)? Ma questo presupporrebbe, a sua volta, un metro per stabilire qual è il punto più alto! E perché, poi, il più a lungo possibile? Anche ciò presuppone un bene, per esempio, il piacere dell’esistenza. Il massimo piacere possibile come fine? Ma così non è possibile dirigere nemmeno la vita individuale, giacché noi non conosciamo le fonti del piacere, gli istinti, quanto ai loro bisogni più intimi; per esempio, non sappiamo se il massimo piacere possibile non presupponga anche un’enorme quantità di dispiacere».

su qualcosa – sempre relazioni: il valore assoluto è un’assurdità»10. Il valore assoluto, cioè il valore fisso in base al quale calcolare il mezzo utile al suo raggiungimento non esiste. Nietzsche, insomma, contesta alla radice la logica delle etiche utilitaristiche moderne nelleloro diverse configurazioni a partire da Bentham; contesta in generale la pretesa di fondare l’etica su un valore apoditticamente certo11 e contrappone all’utilitarismo un radicale scetticismo etico12. Inoltre, se anche fosse possibile stabilire la felicità come il fine da raggiungere, i mezzi per farlo sarebbero altrettanto indeterminabili13.

Se dal punto di vista speculativo si passa all’indagine storica, questa non fa che confermare la fallacia argomentativa delle etiche utilitaristiche. La storia della morale dimostra, infatti, il più grande disaccordo in campo etico; un disaccordo determinato proprio dall’impossibilità strutturale di giungere a un’univoca e apodittica idea di bene e felicità14. Per esempio, nella storia della morale non

c’è accordo neanche sul giudizio da dare al sentimento dell’altruismo; nell’etica stoica – scrive Nietzsche – l’altruismo, che oggi è ovunque considerato moralmente buono, era condannato come immorale15. E d’altronde, non c’è stato disaccordo solo circa i valori relativi di questa o di quella

morale ma spesso il disaccordo ha riguardato i veri e propri valori assoluti. Anche sul più «ovvio valore dei valori, la vita» non c’è stato mai un consenso unanime16. Insomma, secondo Nietzsche il

10 FP 4[27], 1880.

11Cfr. M 474: «Dialettica è l’unica via per giungere all’essere divino e dietro al velo dell’apparenza’: questo

afferma Platone, con lo stesso tono solenne e appassionato con cui si esprime Schopenhauer riguardo al contrario della dialettica - e hanno entrambi torto. Perché ciò per cui vogliono mostrare la strada non esiste affatto. E tutte le grandi passioni dell’umanità fino ad oggi non sono state, come queste, passioni per un nulla? E tutte le sue celebrazioni - celebrazioni di un nulla?».

12 Su quale tipo di scetticismo Nietzsche propugni si veda però quanto scrive in FP 6[356], 1880-81:

«Scetticismo! Sì, ma uno scetticismo degli esperimenti! Non la pigrizia della disperazione».

13 Secondo Spencer il piacere, nel senso ampio di felicità, è ciò che muove l’azione, è il movente e il fine

dell’evoluzione; egli sostiene infatti che il buono è universalmente il piacevole. In questo senso, ciò che è sentito come piacevole è quindi anche utile e buono. Nietzsche si distacca invece da questa visione, per lui eudemonistica, e afferma che il piacere non può costituire l’elemento in virtù del quale un’azione viene ritenuta utile. Cfr. ad esempio FP 11 [43], 1881: «Questi esaltatori del finalismo della selezione (come Spencer) credono di sapere quali siano le circostanze favorevoli di uno sviluppo! e non ci mettono il male! E che cosa sarebbe diventato l’uomo, senza paura, invidia, avidità! Non esisterebbe più: e se si pensa l’uomo più ricco, nobile e fecondo senza il male, si pensa una contraddizione». Sempre contro Spencer nel frammento 8 [12] del 1880-1881, Nietzsche scriveva: «La felicità viene raggiunta per vie opposte, perciò non è possibile determinare un’etica (contro Spencer)».

14 Cfr. ad esempio 4 [79], 1880-1881: «Tutte le morali passate partono dal pregiudizio di sapere per qual fine

l’uomo esista: dunque dal pregiudizio che il suo ideale sia noto. Oggi si sa che esistono molti ideali: la conseguenza ne è l’individualismo dell’ideale, la negazione di una morale universale».

15 Cfr. FP 7 [246], 1880: «L’ingenuità di tutti i moralisti di oggi! Essi credono che i sentimenti per gli altri, i

sentimenti di simpatia siano morali in sé! Non si accorgono che è soltanto un gradino della civiltà a mettere innanzi a tutti, nella sua valutazione, questi sentimenti: altri ne hanno messo altri, anzi opposti! Morale ‘in sé’! - Si lodano i compassionevoli, si biasimano i duri di cuore - per l’appunto! Perfino le parole acquistano uno strano sapore corrispondente. Eppure gli stoici avrebbero lodato gli uomini indomiti e senza pietà, quelli che non si lasciano impressionare da nulla, e avrebbero biasimato i compassionevoli! E anche questa era una morale! Una morale che ha prodotto qualcosa di più grande che non la nostra».

16 FP 6 [105], 1880-1881: «Si potrebbe pensare un tempo nel quale l’umanità, per conservare la specie - e questo

deve essere certo un dovere! - dovesse respingere da sé tutti i tipi di vita superiore, e limitarsi a tipi sempre più bassi, perché i primi risultano troppo dispendiosi e sterilizzanti: così come un uomo anziano deve rinunciare alle sue migliori

finalismo evoluzionistico è da rigettare in toto nel suo assunto principale che consiste nella pretesa di conoscere lo scopo al quale tende la vita. La critica nietzschiana include ogni tipo di fine o scopo dell’azione; per Nietzsche, infatti, neanche il piacere o la vita stessa sono in grado di spiegare l’azione, nel senso che neanche il piacere o l’istinto di sopravvivenza possono essere considerati il telos che sta alla base dell’azione del vivente. Una volta riconosciuto questo limite della ragione, ne deriva anche l’impossibilità di determinare ciò che è ‘utile’ al fine, non potendosi determinare nessun fine in modo certo. In conseguenza di questo radicale scetticismo epistemologico, il fine presunto è un’illazione della mente umana, un errore della logica. L’idea di una finalità della natura è solamente una interpretazione simbolica del fenomeno che chiamiamo ‘vita’ ma non è un’autentica conoscenza delle sue leggi e della sua natura. La morale, quindi, non può più pretendere di fondarsi su un piano naturale e biologico, come ancora tentava di fare Spencer. Essa deve sempre essere una prescrizione autonoma dal mondo naturale del quale, in ogni caso, non si può conoscere l’intima essenza.