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Gli anni ’70, la crisi del cinema

3.6.1 “Foto Pierluigi”, un esempio di dolce vita e paparazzo

4. Fase di decadenza: dagli anni ’70 ai giorni nostr

4.1 Gli anni ’70, la crisi del cinema

Alla fine degli anni ’60 il cinema italiano, sfruttando le ultime spinte degli anni d’oro appena vissuti, e favorito dalla capillare diffusione di un immaginario collettivo condiviso, concentra la sua azione verso la spettacolarizzazione dei suoi prodotti, al fine di renderne i contenuti e le tematiche più commerciali. Questo fu possibile soprattutto a seguito della riduzione dell’azione della censura sui temi di carattere sessuale. In questo clima più permissivo emerge e si intensifica, una volontà di trasgressione, che focalizza l’attenzione su tematiche audaci e scabrose.

E ovviamente su queste tendenze si allineò anche la fotografia, che vide il fiorire di serie di foto di scena osé, nel loro genere ricercate, e riprodotte a colori.

E con queste foto non possono non tornare alla ribalta i calendarietti delle dive, che ora si presentano più succinte che mai232.

Su questi presupposti si sviluppa il genere cosiddetto “nudo d’autore”. Sono queste foto posate, create ad arte negli studi fotografici, che poi vengono pubblicate in edizioni monografiche o cataloghi espositivi, e dopo gli anni ’70, le pubblicazioni di questi materiali conquistano una più generale diffusione, cominciando a comparire non più nei ristretti ambiti delle pubblicazioni specialistiche, ma un po’ ovunque colonizzando senza fatica ogni ambito editoriale233. A spingere ulteriormente la diffusione di questo particolare gusto, va segnalata in questi anni la vendita esponenziale di fotocamere Polaroid234, che permettono

232 Reteuna 2000, p: 247 233

Idem, pp: 298-299, Civirani 1995, pp: 134-136

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Polaroid sono le più diffuse e conosciute macchine fotografiche che sfruttano il sistema di fotografia istantanea. Prodotte dalla Polaroid Corporation, che detiene il brevetto per questa tecnica di stampa che permette di scattare e soprattutto sviluppare e stampare fotografie in tempi quasi istantanei (si parla di pochi secondi o minuti).

Questa particolare fotocamera, al suo interno presenta una cartuccia dove sono conservati una serie di fogli fotosensibili, singolarmente coperti da una pellicola impregnata di una sostanza reagente, direttamente a contatto con lo stesso foglio di sviluppo. Una volta eseguito lo scatto il foglio impressionato veniva estratto manualmente e, trascorso un intervallo di circa 1 minuto, la pellicola con il reagente veniva tolta, il risultato ottenuto era una immagine impressa direttamente in positivo. Venivano così eliminati tutti i passaggi, i tempi e soprattutto la preparazione tecnica professionale relativa allo sviluppo in camera oscura. E con gli sviluppi successivi si arrivò ad eliminare anche il foglietto reagente, e si introdusse un sistema di espulsione meccanica della foto già stampata.

Nonostante questo sistema di stampa portasse a risultati qualitativamente inferiori rispetto la stampa fotografica tradizionale, la Polaroid godette di una vasta fortuna negli anni ’70 e ’80.

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allo spettatore di incrementare la propria disponibilità di materiale, grazie al self service consentito da questi apparecchi.

Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 il cinema italiano, ed in generale prodotto in Italia, subisce una brusca battuta d’arresto. Comincia la crisi da cui non si è mai più ripreso. Si assiste ora alla diminuzione delle produzioni cinematografiche, inizialmente solo di quelle estere, realizzate in Italia, e subito dopo anche della stessa produzione autoctona. E col diminuire del numero effettivo di film prodotti, di pari passo anche la loro qualità fu soggetta ad un evidente calo.

Le cause di questa crisi furono molteplici: anzitutto, come osserva Praturlon in una delle sue ultime interviste: <<finché il cinema italiano ha funzionato artigianalmente, bene o male ma non ci sono mai state crisi del genere. Invece da quando ha preteso di porsi ed imporsi come industria, alla stregua delle grandi produzioni americane, non è più stato in grado di autosostenersi con le sue solo forze, perché non ancora adeguate a questo livello di cambiamento. Non mi si fraintenda, il nostro cinema ovviamente era già un’industria, ma tarata su modalità e standard lavorativi più vicini a quelli di una piccola-media azienda, basata sul lavoro di maestranze altamente specializzate e capaci ma non affini al funzionamento imprenditoriale di una grande industria>>235.

Praturlon continua poi sostenendo che una larga parte di responsabilità l’abbia avuta l’affermazione dei sindacati di settore. Il problema sindacale non fu tanto il compenso salariale formalmente stabilito, ma gli orari di lavoro, a causa dei quali spesso il programma di lavorazione subiva ritardi, ed i ritardi comportavano costi aggiuntivi consistenti.

Il produttore americano che prima risparmiava a fare film in Italia non ha più avuto convenienza a girare qui, per i continui ritardi. È in ballo anche la produzione italiana perché basta un po’ di negligenza e il film, come si dice in gergo, “sfora” cioè va fuori programma di lavorazione, tutto viene a costare il doppio e passano due anni prima che il produttore del film rientri nelle sue spese.236

E, a seguito di queste modifiche strutturali dell’intero apparato filmico, muta anche la figura del produttore, sulla quale prima si basava tutto il sistema cinematografico. Il produttore, infatti, era colui che finanziava la produzione del film, e la sua promozione, rischiando in

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Crozzoli, Maraldi 2002, p: 25

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questo fondi personali, ed assumendo come uniche garanzie al rischio i diritti di vendita e noleggio237.

Diventa ora sempre più difficile reperire i fondi necessari alla realizzazione di nuovi film, fatta eccezione per i grandi registi già affermati, per i quali si era più disposti a correre rischi di finanziamento. I capitali necessari ora vengono ricercati prevalentemente all’estero, spesso in forme consorziali di piccoli-medi produttori, a fronte di una diversa quota di diritti commerciali, o della spartizione delle zone in cui far valere gli stessi238.

In questa penuria di fondi ed anche di nuove, vitali fonti di ispirazione ideologica, questo cinema si presenta disomogeneo e discontinuo, sono in esso meno riconoscibili stili scenici e visivi. Si tratta quindi di produzioni medio-piccole, caratterizzate da una sostanziale intensificazione dello sfruttamento di ambienti e scenografie semplificate, ed in generale una riduzione del set e del numero di agenti e maestranze in essi impiegate. Soltanto i pochissimi autori di respiro internazionale rimasti attivi in questi anni, come Visconti, Bertolucci o Rosi, possono permettersi di adottare ancora grandi set, che sfruttano imponenti apparati tecnici e scenografie ampie ed articolate239.

I nostri nuovi giovani autori sono così indotti a lavorare in economia, disponendo set essenziali, a volte inespressivi; con il fine ultimo di realizzare del cinema, attraverso un mash-

up di frammenti sparsi e banali della vita quotidiana. Dimostrando in ciò un deciso

disinteresse nell’impegnarsi in altre attività di ricerca pratica e formale, e di ricostruzione e trasposizione scenica, reputandole a prescindere troppo dispendiose.

Nel complesso quello che si percepisce ora è un continuo work in progress, alla ricerca della propria logica ed il proprio equilibrio economico, con l’unico intento di restare faticosamente a galla nel mercato, reso anche più concorrenziale dalla sempre più capillare diffusione della TV con la conseguente creazione di produzioni ad hoc.

La fotografia, anche in questo caso, non può che seguire ed uniformarsi a queste tendenze, testimoniando, infatti, una sostanziale perdita d’interesse nella ricercatezza visiva, e di pari passo anche la quantità di immagini di scena diminuisce. La fotografia cinematografica ora è diventata un passaggio promozionale di minor rilievo, assistendo impotente all’incombere di nuove tecnologie di registrazione pronte a soppiantarla in breve tempo.

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Mario Tursi in intervista ad Andrea Di Lorenzo, http://www.andreadilorenzo.it, 21 Aprile 2008, agg. gennaio 2014

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Civirani 1995, p: 140

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Questi ed altri fattori come: l’altissima concorrenzialità data dall’esubero di fotografi ed agenzie fotografiche; la progressiva e sostanziale perdita di professionalità e tecnica a favore dell’immediatezza fortuita, dettata della crescente facilità nello svolgere questa attività; lo spostamento dell’interesse pubblico verso un tipo di immagini meno ricercate; determinano il radicale declino della professione di fotografo di scena, che diventerà palpabile già nella prima metà degli anni ’70.

E mentre i colpi di flash della Dolce Vita vanno scemando, per la nostra fotografia nazionale si affaccia un nuovo momento caratterizzato da due possibilità: da un lato la fotografia si impegna, come strumento di denuncia e lotta contro le ingiustizie sociali, volendo porsi come un duplicato attendibile di un vero dato di cronaca, riportato dalla macchina fotografica.

Dall’altro lato , si riscontra un crescente professionismo, in particolar modo negli ambiti di architettura, moda e attualità240.

Nella nuova cultura di massa, ora affermatasi anche nel nostro paese, l’imperativo è ovviamente la massimizzazione del profitto, che impone il contenimento dei costi. Nel nostro ambito d’interesse ciò comportò la fabbricazione, e quindi l’uso, di carte fotografiche marcatamente più povere di sali argentati, ed in generale l’impoverimento dei materiali e dei supporti utilizzati,

[..] e così anche le fotografie del cinema iniziarono a riflettere luci più “dure” prive di mordente, grigie e impostate, catramose, esenti da antiche accensioni e acuti tonali.241

I pochi fotografi di scena davvero professionisti, ancora presenti e attivi (tra cui da ricordare Cioni Velio, Civirani Walter, De Laurentis Aurelio, Pennoni Angelo, Pesce Ettore, Poletto GianBattista, Ronald Paul, Vaselli Armando, e sicuramente Strizzi Sergio e Tursi Mario (e non molti altri), dimostrandosi in grado di resistere alle dilaganti tentazioni della fotografia pubblicitaria (soprattutto relativamente alla migliore remunerazione), con le sue omologazioni iconografiche, perennemente subordinate alla resa commerciale dello scoop, sono in grado di conservare anche in questo momento di crisi, l’autenticità del loro sguardo verso il cinema ed i suoi interpreti 242.

240 Reteuna 2000, pp: 300- 302 241 Idem, p: 301

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Cfr. Cesare Biarese, Un intruso sul set, in Antonio Maraldi (a cura di), Fotografi di scena del cinema italiano, Centro Cinema Città di Cesena, Società Editrice Il Ponte Vecchio, Cesena, 1996, pag. 11

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Ma salvo queste troppo esigue eccezioni, la foto di scena, e di cinema in generale, come ha sempre fatto, continua a rispecchiare, sia gli sviluppi dei mezzi tecnici di produzione e riproduzione, sia i mutamenti del cinema nel suo complesso, che in questo momento si traducono in una crisi di settore, aggravata del moltiplicarsi di alternative forme e mezzi di comunicazione e pubblicità di massa.

Da questo momento la fotografia di scena sopravvivrà sostanzialmente nelle locandine e nei manifesti; ed in sterili forme espressive dalla funzione prevalentemente documentale243.