3. Fase di prosperità e sviluppo: dall’inizio degli anni ’30 alla fine degli anni ‘
3.2. Premesse al cambiamento
Se gli anni venti avevano messo in crisi la cinematografia italiana adombrata da quella tedesca e soprattutto da quella americana, a partire dagli anni ’30 comincia un generale svecchiamento e la ripresa del nostro apparato cinematografico, a partire dal complesso mediatico a supporto del cinema che si consolida ed espande, anche se non fino a raggiungere i livelli americani. Questo ha ripercussioni sia sulla stessa professione di fotografo di scena; sia sulla produzione e l’utilizzo delle foto di scena e di ritratto, al punto che si assisterà alla nascita di una inedita e stupefacente tipologia: il fuori scena, di cui parleremo tra poco.
In particolare il 1935 è l’anno che segna la grande rinascita del cinema italiano, caratterizzato da intenti di modernizzazione ed enfatizzazione, sia in riferimento alla produzione sia per quanto riguarda la sua diffusione e comunicazione. È con queste premesse che, a seguito di
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un incendio agli stabilimenti Cines-Pittaluga (verificatosi il 26 settembre), come una fenice, forte di nuova vita, dalle sue ceneri nacque Cinecittà. Di seguito le impressioni di quel momento, così come lo ricorda Luigi Freddi64 (1949) nelle sue memorie:
Fu in quelle condizioni e in questo stato, mentre fuori i vigili del fuoco combattevano coraggiosamente contro le fiamme… mentre i presenti guardavano con angoscia l’immenso braciere… e pensavamo a speranze distrutte e ai progetti ormai irrealizzabili. È in tale drammatico momento che nacque Cinecittà. Dalle ceneri, dalle fiamme la Cines sarebbe risorta più nuova, più bella, più grande, più adatta ai tempi che correvano e a quelli che sarebbero venuti65.
Sempre in quest’anno va registrata l’apertura del Centro Sperimentale di Cinematografia, scuola finalizzata all’insegnamento, ricerca e sperimentazione nel campo della cinematografia, a cui si accedeva tramite concorso, valido per cinque branche di studio: recitazione, ottica, fonica, scenotecnica e produzione.
Si annovera inoltre la costituzione dell’ E.N.I.C. (Ente Nazionale Industrie Cinematografiche), il primo circuito di sale sotto il diretto controllo dello stato, il quale disponeva di idonei strumenti informativi per un’efficace promozione e lancio delle opere cinematografiche66. A ciò fa seguito il progressivo spostamento del fulcro mediatico specializzato, da Milano e Torino migra sempre più verso Roma. Si attesta quindi la nascita di sei rilevanti testate di cinema: Intercine; Italia Cinematografica; Spettacolo; Film Corriere; Lo Schermo; e Cine
Omnia67.
E solo l’anno dopo, sempre a Roma, altre quattro riviste, tra cui Cinema, su cui si concentrerà gran parte del dibattito sul cinema italiano.
Questo rinnovato interesse e spinta allo sviluppo ritarda però nell’ambito della nostra fotografia di cinema, che rispetto all’estero, ancora si distingueva per arretratezza e disinteresse. È quanto attestato da Berne de Chavannes sulla rivista Cinema, nel numero 4 uscito il 25 Agosto del 1936, a pagina 158:
64 Luigi Freddi (1895 – 1977), giornalista e attivo politico. Nel 1934 nominato capo della Direzione generale
della cinematografia, organo di controllo del regime fascista sul cinema, sia nazionale che estero. A lui si deve il nuovo indirizzo , basato sul modello americano, assunto dalla nostra struttura cinematografica; sebbene subordinata alla rigida volontà politica, ideologica ed etica del regime fascista, che sovente si traduceva in una spietata censura.
Sotto la sua direzione furono creati il Centro sperimentale di cinematografia ed anche Cinecittà di cui divenne direttore. 65 Freddi 1949, p: 403 66 Reteuna 2000, p: 100 67 Idem, p: 70
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[…] ciò che è interessante conoscere è che le belle fotografie che invitano il pubblico ad entrare nei cinema sono riprese da un fotografo, indipendentemente dall’operatore cinematografico. Negli studi americani il fotografo di scena è un personaggio che gode di una certa considerazione ed è particolarmente protetto dai produttori, ciò lo pone, in confronto ai fotografi di altri paesi in una condizione di superiorità. Vi sono ad Hollywood degli stabilimenti appositamente attrezzati per le fotografie di film, in grado di poter tirare sino a 1500 copie per giorno. Nel suo complesso l’industria americana spende, per queste fotografie, circa 300,000 dollari l’anno, qualcosa come 3 o 4 milioni di lire italiane. Ma non dovunque il fotografo dello studio cinematografico gode dell’appoggio benevolo del produttore. Quando quest’ultimo non comprende l’utilità di queste “fotografie cinematografiche” o vi consente a malincuore, il fotografo finisce col divenire il paria degli studi. Lo si tollera, ma nulla verrà fatto per facilitare il suo compito. Si ripeterà quindici o venti volte la scena prima di “girarla”; si attenderà con pazienza che l’operatore abbia regolato i suoi effetti di luce, ma quando il fotografo chiederà modestamente, qualche minuto in più per fare due o tre pose, gli attori affermeranno di essere stanchi, l’operatore cinematografico inviterà il suo umile confratello a togliersi dai piedi e il regista, il padreterno della situazione, riassumerà sinteticamente il modo di pensare di tutti dichiarando, senza ambagi, che non ha tempo da perdere e che non è lecito seccar tanta gente per un fotografo. E se, terminato il film, il produttore richiede fotografie di una o di un’altra scena che, per caso, non siano state riprese, la conseguenza più semplice è il sentirsi dire che quando uno non sa compiere il proprio lavoro, non gli resta altro che andare a farsi impiccare altrove.68
Oltre a quanto evinto dal testo appena riportato ritengo indicativo sottolineare che questo risulta essere l’unico testo del tempo che tratti specificatamente il fotografo di scena e le sue condizioni lavorative; bisogna attendere fino a metà anni ’60 per ritrovare trattazioni in merito.
Ed ancora, il 29 gennaio 1936 Mussolini celebrò l'inizio dei lavori che avrebbero dato vita al nuovo complesso cinematografico di Roma, con la posa della prima pietra, e solamente 475 giorni dopo, il 28 Aprile di quello stesso anno, sempre il duce inaugura la nascita di Cinecittà69. In questo grande, moderno complesso appena edificato e una intera zona del complesso cinematografico, viene riservata alle attività fotografiche. La gestione dell’edificio fotografico, e delle pratiche ivi esercitate, fu affidata ad Arturo Bragaglia. Questo era dotato di un laboratorio completo e ben fornito, compreso di sala posa, diverse camere oscure e di
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Berne De Chavannes, 1936, p: 158.
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revisione, un fornito laboratorio di ritocco e di ingrandimento, anticamera, ufficio, deposito chimico.70
Ma nonostante questi nuovi impianti la mentalità di fondo, relativa alla fotografia di scena, in termini di produzione ed uso resta inadeguata e limitativa, incapace di stare al passo ai veloci sviluppi portati da Cinecittà.
È quanto denunciato anche sulla rivista <<Cinema>>71 in un intervento dello sceneggiatore e regista Jacopo Comin, il quale lamenta l’italiana mancanza di criterio ed organizzazione nel lancio degli attori e dei film; dovuto all’incapacità dei produttori italiani di comprendere l’importanza, se non la necessità, delle varie tipologie di materiale stampato, come base primaria per accendere l’interesse del pubblico, e per il lancio promozionale dei film da cui indubbiamente dipende una buona parte del suo successo commerciale72.
Nel nostro paese appunto, questo tipo di materiale era soggetto ad autolesionistiche politiche di risparmio, al puro materiale fotografico erano infatti destinate tra le 5000 e le 10000 lire. Questo falso risparmio comportava la rinuncia a pubblicare su stampa italiana e straniera da 500 a 1000 fotografie in più, e quindi anche da 500 a 1000 articoli che parlano del film, perché va da sé che, se c’è una foto che carpisce il primo sguardo del potenziale pubblico, c’è anche un articolo o almeno qualche riga esplicativa che l’accompagna, e che influenzerà la scelta o meno della fruizione del prodotto mostrato. Ciò nella pratica si traduce nella deliberata scelta di privarsi di una notevole parte delle proprie possibilità propagandistiche (Comin valuta questa perdita intorno al 99%, cifra sicuramente un po’ esagerata ma esplicativa del suo pensiero), a favore di un risparmio che va appena dallo 0,50% all’ 1% del preventivo del costo di realizzazione di un film, attestato mediamente intorno ad un milione, un milione e mezzo di lire73.
Allo scopo di dare concretezza al discorso, per un film con una durata di lavorazione media di un mese, erano previste dalle 50 alle 70 foto, ognuna delle quali veniva stampata in 3 copie, per un totale che va dalle 150 alle 280 copie fotografiche; un numero palesemente insufficiente per una appropriata azione propagandistica (non è un caso che le rare eccezioni per le quali questo limite massimo è stato superato, abbiano attestato una decisamente maggiore partecipazione di pubblico, al momento dell’uscita nelle sale. Alcuni di questi sono
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Reteuna 2000, pag. 73.
71Rivista italiana di critica cinematografica fondata nel 1936 da Ulrico Hoepli. 72
<<Cinema>>, Roma, nr.20, 1937, pp: 299-301
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Casta Diva di Carmine Gallone del 1935, Aldebaran di Alessandro Blasetti del 1935 , Scipione l’africano sempre di Gallone,girato nel 1937 e più tardi Il corsaro nero girato nel 1976 da Sergio Sollima)74.
Queste fotografie erano inoltre eseguite quasi esclusivamente per le serie cartonate da esibire fuori del cinema, il resto era secondario e per questo veniva fortuitamente riciclato da materiale utilizzato per gli altri mezzi.
In questo panorama di possibilità incomplete, e deliberatamente rifiutate, l’appassionarsi del pubblico ai singoli film nazionali, ai suoi attori ed al cinema in generale non era di certo facilitato, ma la situazione stava cominciando a migliorare.
Ci fu poi, verso la fine del 1938 un’ulteriore circostanza che andò ad implementare le spinte che determinarono una svolta per la cinematografia italiana: l’introduzione del monopolio di stato sui film esteri75. Questa manovra statale comportò una notevole rivitalizzazione della nostra industria cinematografica, che venne colta da un crescente numero di iniziative private, potenziando così l’intera produzione nazionale, in ciò facilitate anche dalla drastica riduzione dell’importazione dei film delle grandi major americane.
Lo sforzo produttivo del cinema italiano era perlopiù rivolto verso il conseguimento di risultati quantitativi76, ciò fu comunque uno stimolo alla formazione di una mentalità professionale ed il conseguimento di risultati anche esteticamente ed artisticamente rimarchevoli.
Questi ebbero ripercussioni su tutto l’apparato mediatico legato al cinema e in quegli ambiti considerati fino ad allora collaterali e poco rilevanti: iniziano a cambiare le impostazioni delle riviste cinematografiche italiane e dei rotocalchi divistici, aiutando lo sviluppo e la diffusione delle nuove forme foto-letterarie del Cineromanzo e poi anche del Fotoromanzo.
74 Reteuna 2000, pag. 73-74-75. 75
I produttori stranieri interessati alla vendita in Italia non si trovano più a dover interagire con una molteplicità di acquirenti locali, ma unicamente con il monopolio statale, che in mancanza di concorrenza paga il film al suo valore commerciale; quello poi passerà il film ai vari noleggiatori italiani. Gli utili così ricavati dal monopolio era previsto fossero messi a disposizione della cinematografia italiana nel suo realizzarsi . Altri provvedimenti dello stato a favore della produzione nazionale, sono anche: l’istituzione del Credito Cinematografico, l’erogazione di premi a percentuale sugli incassi, e per particolari qualità etiche ed artistiche, premi per noleggi o vendite all’estero di film nazionali, eventuali esoneri dalla tassa di doppiaggio; il tutto posto sotto specifiche norme legislative.
76 A testimonianza di ciò si riportano i dati rilevati dell’Almanacco del Cinema Italiano 1939, edito da Società
Anonima Editrice Cinema, Roma, 1939, p. 95; relativi ai film prodotti dal 1930 al 1939; 1930/31 n° 12 film; 1931/32 n° 13; 1932/33 n° 25; 1933/34 n° 30; 1934/35 n° 31; 1935/36 n° 38; 1936/37 n° 37; 1937/38 n° 44; 1938/39 n° 85 film prodotti.
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Ecco che l’utilizzo e quindi il bisogno e la richiesta di foto di scena aumentano. Era questo il preludio a quello che sarà il periodo d’oro della fotografia di scena, e che vedrà affermarsi un sempre maggior numero di fotografi che porteranno a sorprendenti sviluppi sia tecnici, relativi ai materiali e le attrezzature utilizzate, sia concettuali, riuscendo a farsi riconoscere il merito artistico che sempre avevano ricercato.
A testimonianza di tale sviluppo, già verso la metà del 1937, oltre ai già rinomati Pesce e Bragaglia, con i loro rispettivi studi (Foto Pesce e Foto Bragaglia), si affiancano un numero crescente di giovani fotografi e botteghe, di cui si ricordano qui Arnaldo Vaselli (ed il suo studio Foto Vaselli), Sandro Baio, il ritrattista Ciolfi, Vincenzo Palmarini, Ugo Urbino, Aldo Tonti, Strizzi, Assenza, lo studio Foto Unione, Osvaldo Civirani, Arturo Ghergo, Venturini, Lucio Redenti, Studio Foto Bruni, Luxardo77.