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2. Un possibile retroterra

2.5. Gli anni ’

Negli anni ’80, in cui la narrativa italiana trova un ritorno di pubblico e diffusione rispetto al decennio precedente, si allarga il ventaglio delle prose non finzionali che rompono la «linea di demarcazione netta tra la prosa giornalistica e la narrativa»3. La forzatura non viene esercitata però soltanto sui contenitori del giornalismo (dal reportage al taccuino di viaggio, fino allo scritto d’inchiesta), ma, rispetto ai decenni precedenti, passa anche per la forma del saggio, soggetta a un ripensamento interno che permette progressivi inserimenti di lacerti narrativi e spunti concreti. Il

personal essay (spesso di natura critico-letteraria) subisce una torsione narrativa che nella

contemporaneità, con autori come Pincio, Cordelli, Vasta, Giartosio, Trevi, porta a una trasformazione in un discorso dalle caratteristiche originali, equidistante tra il saggio critico e il romanzo-saggio, non identificabile con nessuno dei due. Preliminare alla sua rielaborazione è, come ha notato Raffaello Palumbo Mosca, la decisione di «costruire una narrazione che abbia i caratteri del racconto-testimonianza»4. Ma parlare di modello dell’autobiografia (come fa Palumbo Mosca), sembra centrato solo in parte. A ben vedere, la pratica dell’autobiografia nella produzione contemporanea si potrebbe ripartire in due linee di sviluppo: nella prima, rifluisce nella proliferazione di discorsi del sé (il modello premimente è il diario) sul Web e sui social network, nella letteratura commerciale d’intrattenimento (ne sono esempio le innumerevoli autobiografie di personaggi famosi, dai politici agli youtuber), così come nella letteratura “alta”5, nella seconda, viene rovesciata nel suo apriori narratologico (la garanzia di un patto narrativo improntato alla veridicità e alla fiducia del lettore in un discorso privo d’invenzioni) per proporre, in fin dei conti,

1 È questa per esempio la tesi di Alessio Piras, Oltre la cronaca. «L’affaire Moro» tra storia e letteratura in «Todomodo», II, 2012, part. pp. 225-230, con un’interpretazione di Sciascia, a mio avviso poco calzante, che lo vede affine alle teorie storiografiche di Hayden White sulla parificazione potenziale di stile e statuto di verità fra racconto storico e racconto d’invenzione (v. Retorica e storia, cit.).

2 Leonardo Sciascia, La palma va a nord [1980], Gammalibri, Milano 1982, p. 176. 3 Martine Bovo-Romoeuf, Stefania Ricciardi, Introduzione a Frammenti d’Italia, cit., p. 10. 4 Raffaello Palumbo Mosca, L’invenzione del vero, cit., p. 148.

5 Sulla recente fortuna trasversale dell’autobiografia come veicolo di un’espressione immediata di sé, v. Mario Barenghi, Ripartire dalla propria storia personale in Vittorio Spinazzola (a cura di), Tirature ’10. Il New Italian

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una variante del romanzo contemporaneo1. Nelle narrazioni non d’invenzione odierne, invece, i contenuti autobiografici autenticano e arricchiscono modelli di partenza che prevedono una presenza di un “io” autoriale a garanzia del racconto (reportage, saggio, scritto di viaggio), ma non si possono semplicemente ascrivere all’“autobiografia” o, in caso di mancanza dell’elemento retrospettivo, al journal intime.

Per tornare agli anni ’80, Raffaele La Capria è uno degli autori che, pur essendo più vicino alla generazione degli scrittori esaminati nel capitolo precedente, essendo nato nel 1922, si smarca dal loro uso del personal essay. Il suo abbandono del romanzo dopo il tentativo malriuscito di Amore e

Psiche (1973) a favore di un discorso saggistico improntato a un andamento da conversazione2, unisce, a seconda delle circostanze, la riflessione con la depurata autobiografia intellettuale, intensificata dall’uso distanziante di un doppio3 (False partenze, 1974). Altrove, si declina nel manifesto di poetica nella veste di un dialogo con un interlocutore immaginario (Lo stile

dell’anatra, 2001) o nel saggio rapsodico e discontinuo (Letteratura e salti mortali, 1990; La mosca nella bottiglia. Elogio del senso comune, 1996). Nel decennio considerato, è emblematica in L’armonia perduta (1986) la rielaborazione, risultante da un collage di articoli già apparsi in

prevalenza sul «Corriere della sera», del saggio sul degrado civile e morale della città di Napoli: il discorso dell’Armonia perduta viene sottoposto a un doppio movimento che raccorda da un lato l’excursus storico sulla cultura illuministica settecentesca della città (ad esempio nei capitoli La

storia interrotta, L’armonia perduta, La paura della plebe) e l’espediente autobiografico capace di

inverare le teorie dell’autore (distribuito nei segmenti finali del saggio con i capitoli Il filo

conduttore, La mia casa sul mare e A chi la spedisco questa cartolina?), al punto che questo libro

può costituire un precedente anche stilistico per il versante non d’invenzione del lavoro di Antonio Pascale, se si pensa all’ironia etnografica e al «progetto coerente di semplificazione»4 della Città

distratta, dove il giudizio dell’autore si scherma dietro ai personaggi-categoria che popolano la città

di Caserta, e se si guarda ai successivi Non è per cattiveria, Qui dobbiamo fare qualcosa. Sì, ma

cosa? (2009) e Questo è il paese che non amo (2010), che propongono a differenza della Città

1 V. Philippe Forest, Il romanzo, l’io. Nella vertigine dell’identità, Rizzoli, Milano 2004. Mi permetto di rimandare anche a Lorenzo Marchese, L’io possibile, cit., pp. 9-42 per un sunto più esteso.

2 L’impronta conversativa ha anche, all’inizio, esigenze pratiche: «[False partenze] è nato come testo radiofonico trasmesso dal Terzo Programma col titolo Le esperienze letterarie (e teatrali) di Candido dal ’38 al ’48 in quattro puntate (11, 18, 25 giugno e 2 luglio 1957). La destinazione radiofonica spiega il tono e l’andamento spigliato di questo testo chiaramente autobiografico […]», Raffaele La Capria, Nota dell’autore a False partenze, False partenze.

Letteratura e salti mortali. Il sentimento della letteratura, Mondadori, Milano 2002, p. 307

3 «[…] se la rappresentazione romanzesca scompare, continua a vivere la necessità del doppio: un doppio che permetta all’autore di assentarsi quando ne sente il bisogno [per esempio il Candido di False partenze]» Silvio Perrella, Il mondo

come acqua, in Raffaele La Capria, Opere, a cura di Silvio Perrella, Mondadori, Milano 2003, XXXI. L’uso di un

doppio (Tonino) si ripresenta nei racconti esplicitamente autobiografici di La neve del Vesuvio (1988). 4 Raffaele Donnarumma, Ipermodernità, cit., p. 91.

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distratta una figura di autore-personaggio idiosincratica e riconoscibile, riplasmato con

un’accezione più moralistica e responsabile rispetto all’autore di False partenze. La Capria, nella sua produzione post-romanzesca, si propone infatti di attenuare, col compromesso frequente della scelta dello pseudonimo, la distanza fra autore e narratore, dimostrando una preferenza per gli scrittori italiani del ‘900 più predisposti a creare un discorso disordinatamente composto di giudizi, aneddoti, valutazioni personali, citazioni e commenti a testi altrui:

Quando si leggono i libri di questi scrittori si ha la sensazione che i confini tra il romanzo e il saggio scompaiano; e la sensazione diventa più forte se entrando in libreria si vedono esposti, nelle belle edizioni Adelphi, saggi e romanzi, nella stessa collana e con le stesse copertine, così rendendo evidente, anche attraverso l’aspetto esteriore, che l’importante è la forza creativa del testo e non il genere1.

Al tempo stesso, si deve segnalare che La Capria non rompe mai dichiaratamente con la forma del saggio; non la narrativizza al punto da creare delle vere e proprie storie, ciò che rimane nei suoi saggi è «una musica di racconto»2, la possibilità di radicare il pensiero nella concretezza di un’individualità, ma non più di questo. Altrove, come nell’esperienza di Piergiorgio Bellocchio nei saggi atipici per la rivista «Diario» (1985-1993)3, lo spunto autobiografico si fa persistente e segnala l’antagonismo saturnino del saggista rispetto alla società in cui è costretto a vivere: ma la singolarità di Dalla parte del torto risiede anzitutto nella torsione insieme autobiografica e narrativa che imprime alla forma del saggio. A prescindere dai destinatari delle critiche di Bellocchio (la degradazione dei costumi, la televisione commerciale, Il nome della rosa di Umberto Eco, i trascorsi nazisti di Schmitt e Jünger), pezzi come Dalla parte del torto, Il recidivo, La donna delle

pulizie colpiscono proprio per la discontinuità di temi, discorsi, forme adottate. In essi si alternano

senza disegni prestabiliti il dialoghetto filosofico caustico e satirico4, il sogno persecutorio in cui l’autoesame spezza la superficie eterea che il saggio di La Capria conserva («La mia immagine che esce dal sogno è deprimente: sono un impostore, un retore, uno che finge superiorità morale, un

1 Raffaele La Capria, Il sentimento della letteratura [1997] in False partenze, cit., p. 230. Fra gli autori tenuti a mente, vengono elencati Papini, Soffici, Prezzolini, Boine, Barilli, Stuparich, Slataper, Savinio, Longanesi, Comisso, Flaiano, Carlo Levi, Pasolini, Manganelli, Ceronetti, Celati, Bellocchio, Magris, e in un gruppo a parte i «saggisti-scrittori» (Ibidem) con l’archetipo di Croce e i più vicini Cecchi, Praz, Macchia, Garboli, Citati, Calasso, Zolla.

2 «Anche i suoi saggi più propriamente di critica letteraria si presentano in realtà come saggi di autobiografia intellettuale e a volte di critica (o satira) sociale, ma nei quali resta sempre una musica di racconto, cioè la certezza che un’idea, qualunque idea, vale e può essere formulata nel modo più onesto se c’è qualcuno a pensarla in un certo tempo e luogo» Alfonso Berardinelli, Omaggio a La Capria, in Raffaele La Capria, Cinquant’anni di false partenze, ovvero

L’apprendista scrittore, minimum fax, Roma 2002, p. 156.

3 Confluiti parzialmente in Piergiorgio Bellocchio, Dalla parte del torto, Einaudi, Torino 1989. Cfr. anche il successivo

Al di sotto della mischia (2007).

4 «CLOV. Credi nella vita futura? / HAMM. La mia lo è sempre stata», Piergiorgio Bellocchio, Dalla parte del torto, cit., p. 14. O anche Ivi, pp. 62-68 (Una zuppa è una zuppa è una zuppa è una zuppa …), sul Nome della rosa di Umberto Eco.

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disonesto che casca subito nella trappola di pretendere denaro che non gli spetta …»)1, l’aneddoto, personale o orecchiato, il collage di titoli giornalistici a mimare la perdita di senso dell’informazione e del discorso pubblico2. Il risultato è una saggistica altamente disgregata e connotata da un fortissimo senso di isolata superiorità intellettuale3, in cui elemento concreto di partenza e riflessione personale si consumano nello spazio di una pagina, di qualche scambio di battute nei casi limite, e che non può essere ricondotta a un contenitore narrativo preciso sebbene conservi cadenze di racconto. Anni dopo, la separazione risentita dell’intellettuale rispetto alla comunità viene declinata in un ambiguo movimento di accettazione dell’esistente: lascia un’eredità mutata di segno in Bruno Pischedda, Francesco Piccolo, Trevi e Pascale4. Quanto alla struttura, un orizzonte mobile e divagante c’è anche nella prima edizione di un testo importante e autobiografico come Lettere a nessuno (1997) di Antonio Moresco: tuttavia lo “zibaldone” di Moresco, centrato sulla difficoltà di esordire come scrittore e delimitato cronologicamente dalla fine degli anni ’70 ai primi anni ’90, confonde i piani dell’invenzione narrativa (tramite episodi inverificabili e surreali, come il suicidio della bambina Antinisca, e incontri immaginari con eroi di romanzo e personaggi storici) e dell’aderenza al reale (come negli incontri con Maria Corti, Goffredo Fofi e altri protagonisti della scena editoriale e critica), con la conseguenza di trascenderli in una narrazione che riduce l’elemento saggistico e permette di inserire Lettere a nessuno nel sistema delle sue opere narrative, senza demarcazioni troppo nette fra un libro e l’altro5.

Meno innovativa e decisamente non antagonistica è l’opera di Claudio Magris, che si distingue per la prosa non d’invenzione, negli stessi anni, grazie alla ricostruzione storica di episodi tralasciati della Prima guerra mondiale (Illazioni su una sciabola, 1984), poi si cimenta con il genere della biografia, tanto da far parlare negativamente un recensore di «ermafroditismo letterario»6 (Un altro

mare, 1991, racconto al presente in terza persona su Enrico Mreule, amico di Carlo Michelstaedter).

Con Danubio (1986), il suo libro di maggior successo, Magris propone una digressione accademica

1 Ivi, p. 18.

2 «Il breve montaggio che segue è composto unicamente di frasi tratte da questi articoli. Nella scelta, ho cercato disperatamente di non omettere alcun possibile riferimento alle cause e alle ragioni dell’asperrima contesa, peraltro irreperibili», Ivi, pp. 95-96. L’oggetto del collage è la rimozione dall’incarico di un dirigente scolastico.

3 «-Ma che fa? Pubblica i suoi pensieri … così, a ruota libera … Neanche fosse Pascal! Leopardi! […] – Io sono soltanto un povero diavolo. Ma mi vado convincendo, ahimè, che oggi essere quel che sono, non sia poco … Per lei poi è addirittura troppo», Ivi, p. 111.

4 Questo punto verrà approfondito nel capitolo 4.

5 Sottolinea una certa continuità la recente ripresa di spunti e personaggi delle Lettere a nessuno nel romanzo Gli

increati (2015), smisurata epopea incentrata sulla figura autobiografica dell’autore con modalità rispetto al reticente Gli esordi (1998). Ciò non implica naturalmente che Lettere a nessuno e Gli esordi siano lo stesso genere di narrazione, ma

solo che trovano posto in un sistema di immaginario e stile comune.

6 Stefano Giovanardi, Caro Magris, che romanzo è mai questo? in «La Repubblica», 19 ottobre 1991. Nota Giovanardi, a proposito dell’irrisolta attribuzione di genere di Un altro mare: «i dati della vicenda biografica si susseguono sveltamente sullo sfondo immutabile del pensiero, esplicito o implicito, di Michelstaedter; e la cronaca viene abbandonata solo per far posto di tanto in tanto a improvvise accensioni liriche», Ibidem.

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su autori e personaggi della cultura mitteleuropea nella cornice a tratti evanescente della crociera fluviale. Il resoconto concreto del viaggio, destinato a sparire velocemente dopo un inizio di comicità garbata1, lascia lo spazio a una serie di approfondimenti di critica letteraria senza soluzione di continuità, cosicché anche l’osservazione sporadica dei luoghi reali visitati viene sottoposta puntualmente alla correzione del rinforzo erudito. Le città dell’Europa orientale hanno dignità d’esistenza solo nella misura in cui rimandano a biografie e testi di Kafka, Musil, Broch e così via; naturalmente, in tale libresca «oggettività delle cose» (piuttosto, un’oggettività delle nozioni), non si dà un’identità di sé che non sia turistica e disincarnata, e l’io diviene una presenza priva di consistenza e interesse, da cui distogliere l’interesse («Salgo il pendio e arrivo alla casa. Salgo, arrivo? L’uso della prima persona singolare è tutt’altro che incontestabile e soprattutto un viaggiatore è impacciato, dinanzi all’oggettività delle cose, a trovarsi fra i piedi il pronome personale»)2.

In un decennio dove le scritture non finzionali degne d’attenzione utilizzano la cronaca come spunto per la riflessione saggistica (La Capria), per lo scatto polemico (Bellocchio), o la trasformano in un artificio da inserire senza frizioni entro l’architettura del romanzo d’invenzione (Busi e Del Giudice, benché in maniere molto diverse fra loro), vanno in una direzione autonoma gli esperimenti narrativi di Gianni Celati e Pier Vittorio Tondelli, che appartengono a generazioni diverse e vicine – Tondelli studia al DAMS di Bologna nella seconda metà degli anni ’70, quando Celati vi insegna. Pur ribadendo una divisione di fatto fra scritti informativi (resoconto sul territorio per Celati, giornalismo di costume, scritto di viaggio e digressioni semiologiche per Tondelli) e produzione maggiore, votata al romanzo e al racconto breve, si nota già un tentativo di accentuare le interferenze fra di essi. Celati dal 1980 in poi si specializza in una scrittura di viaggio meditativa e perplessa di cui Verso la foce (1989) è l’esito originale: la raccolta di quattro narrazioni di viaggio nei luoghi della Pianura Padana (nell’ordine: Un paesaggio con centrale nucleare, 1986;

Esplorazioni sugli argini, 1983; Tre giorni nelle zone della grande bonifica, 1984; Verso la foce,

1983)3 viene dal sodalizio col fotografo Luigi Ghirri1, ma la sua dimensione non è quella del

1 «Certo, nel mondo amministrato e organizzato su scala planetaria l’avventura e il mistero del viaggio sembrano finiti; già i viaggiatori di Baudelaire, partiti alla ricerca dell’inaudito e pronti a naufragare in questa sortita, trovano nell’ignoto, nonostante ogni disastro imprevisto, lo stesso tedio lasciato a casa. Muoversi, comunque, è meglio che niente» Claudio Magris, Danubio [1986] in Opere I, a cura e con un saggio introduttivo di Ernesta Pellegrini, Mondadori, Milano 2012, pp. 887-888.

2 Ivi, p. 901.

3 «Il primo parla d’una camminata attraverso le campagne cremonesi, nei giorni immediatamente successivi allo scoppio nucleare di Černobyl. Il secondo è una esplorazione laboriosa degli argini del Po, con incontri che possono sembrare inverosimili. Il terzo è una visitazione delle zone della grande bonifica ferrarese, che va a finire abbastanza bene, mi sembra. Il quarto è un viaggio pieno di incertezze alle foci del Po, in cerca del limite delle terre e d’un gruppo di etologi tedeschi e forse d’altre cose (al momento del viaggio non chiare)», Gianni Celati, Romanzi, cronache,

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taccuino, nonostante ne conservi un aspetto di immediatezza e spontaneità che si ritrova nel racconto al tempo presente, nei dialoghi brevi e nel rifiuto dell’approfondimento e della psicologia a favore di un primato della percezione. Verso la foce viene sottoposto a un elaborato processo di riscrittura a partire dalla prima stesura della metà degli anni ‘80, con l’intento di trasformare i diari di viaggio in «racconti d’osservazione»2, nei quali la trascrizione del dato di realtà è subordinata a un esercizio di semplificazione dei dettagli e di (tentata) purificazione dell’ottica del narratore da sovrastrutture ideologiche:

Ogni osservazione ha bisogno di liberarsi dai codici familiari che porta con sé, ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non capisce, per poter arrivare ad una foce, dove potrà sentirsi smarrita. Come una tendenza naturale che ci assorbe, ogni osservazione intensa del mondo esterno forse ci porta più vicini alla nostra morte; ossia, ci porta ad essere meno separati da noi stessi3.

Nelle peregrinazioni di Celati, il mondo esterno diviene così l’oggetto d’osservazione ma al contempo si ha l’impressione che esso, a furia di costituire il risvolto di una laica meditazione personale, sparisca dietro l’occhio di chi guarda:

Ho camminato tre giorni per osservare qualcosa, ma già confuso quello che ho osservato, incerto quello che pensavo, solo incertezza per quello che verrà. Credo che tra pochissimo quasi tutti avremo dimenticato le notizie che solo qualche giorno da sembravano così impressionanti; saranno roba sfiorita e un po’ arcana, con l’effetto che mi facevano le persiane polverose d’una villa abbandonata di Orbetello. Deperibilità svelta del cosiddetto “mondo reale”, non si distingue bene da un miraggio. Per forza l’intelligenza arriva sempre in ritardo: non lo capisce proprio tutto questo passare e perdersi nell’incerto, la dimenticanza che dovunque ci avvolge e ci porta4.

Quartieri, bar, scene di provincia si avvicendano in Verso la foce, anonimi e insieme portatori caratteristiche singolari che il passaggio fugace del viaggiatore (o peggio, del turista, di cui Celati fa un autoritratto stralunato e feroce nei veri e propri diari di Avventure in Africa) presume soltanto di poter comprendere grazie ai propri schemi mentali5. È il contenitore dello scritto di viaggio a venire ridiscusso, quando l’attenzione si sbilancia dalla puntualità del resoconto a una semplificazione anti-cronachistica: anche l’attendibilità del racconto è sottoposta alle esigenze

1 «I diari d’osservazione scritti camminando lungo la valle del Po nascono da un’idea di Ghirri, che nel 1981 si rivolge a Celati per chiedergli di partecipare con un testo all’avventura del Viaggio in Italia [libro fotografico a cura di Luigi Ghirri, Gianni Leone ed Enzo Velati, Il Quadrante, Alessandria 1984], un lavoro fotografico sul nuovo paesaggio italiano», Nunzia Palmieri, Notizie sui testi in Gianni Celati, Romanzi, cronache, racconti, cit., p. 1766.

2 Gianni Celati, Romanzi, cronache, racconti, cit., p. 987. 3 Ivi, p. 988.

4 Ivi, p. 1022.

5 «Ogni volta è una sorpresa, scopri di non saper niente di preciso sul mondo esterno. Allora viene anche la voglia di scusarsi con tutti: scusate la nostra presunzione, scusate i nostri discorsi, scusateci di aver creduto che voi siate un pugno di mosche su cui sputare le nostre sentenze» Ivi, p. 1067.

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espressive della «rarefazione dell’io», come dimostra la gestazione lunga di Verso la foce (che passa per tre redazioni prima di approdare in volume)1. Piegando il taccuino a un esito originale, la letteratura di Celati, anche quella apparentemente più vicina a un’ipotesi di non-fiction, si mostra «un modello di comportamento simbolico, capace di restituire sulla pagina gli eventi significativi della vita »2: Verso la foce costituisce in questo un modello per gli scritti etnografici e «paesologici» di Franco Arminio, che sono declinati in una chiave più apertamente idiosincratica e nevrotica e portano con sé un’esattezza cronachistica che l’intento di denuncia (ben più forte che in Celati) richiede.

Pier Vittorio Tondelli, nello schema provvisorio fin qui tracciato, occupa con l’insieme della sua narrativa, fra racconti brevi e romanzi, un posto di rilievo per via dell’influenza esercitata su una lunga serie di narratori negli anni ’90 (da Giulio Mozzi a Silvia Ballestra, passando per l’esplicito riconoscimento di apripista da parte di Emanuele Trevi3). Nella fattispecie, Un weekend

postmoderno (1990) appare la sua opera che meglio sintetizza la volontà di riutilizzare la raccolta di

scritti giornalistici per andare verso un’architettura in senso lato unitaria. Definito un «felice ibrido di giornalismo, saggistica e narrativa, nonché testimonianza esemplare della condizione dell’opera