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Il giornalismo italiano negli anni ‘

2. Un possibile retroterra

2.3. Il giornalismo italiano negli anni ‘

Per i giornalisti italiani che scrivono negli stessi anni di Wolfe, Capote, Mailer o Didion, invece, appare piuttosto lontana una sostanziale innovazione verso un nuovo ordine del discorso, per non parlare delle inesistenti contaminazioni con il novel2, dato che lo sforzo, nel nostro dopoguerra, è per lo più quello di avvicinare una produzione dallo stile, in media, retorico e liricheggiante, a modelli di concisione e obiettività anglosassoni3; a quest’altezza, gli esempi più noti vengono da settimanali di attualità come «L’Europeo» e «L’Espresso»4. Manca nel nostro giornalismo, soprattutto, una volontà di rinnovare dall’interno il proprio discorso permutandolo in una narrazione che cerchi di essere al tempo stesso affidabile e letteraria, al punto che a quest’altezza cronologica il problema dei rapporti fra discorso storico e discorso d’invenzione non viene sentito con la stessa

1 Norman Mailer, Le armate della notte, cit., p. 389.

2 Goffredo Fofi valuta la scarsa influenza del modello di Capote in Italia all’inizio degli anni ’80 (prima dell’effettivo ritorno al non-fiction novel dei romanzieri, quindi). Esso sarebbe «troppo “diverso” e “serio” per servire da esempio di un positivo possibile», Idem, Narrativa e giornalismo. Nota su Truman Capote in «Linea d’ombra», 1, 1983, p. 104. 3 «Il rinnovamento in Italia del linguaggio giornalistico avvenne, giocoforza, in direzione dello stile conciso e obiettivo del reporting anglosassone, strettamente organizzato sui dati di cronaca. Il modello americano è il punto di riferimento delle nuove generazioni di giornalisti italiani, entrate nel mestiere negli anni cinquanta e sessanta; l’alternativa era rappresentata, dunque, da una tendenza all’obiettività nella ricostruzione degli avvenimenti e dall’impegno a favore d’un giornalismo democratico, che non facevano parte della storia e della tradizione della stampa italiana. Quando i fautori del new journalism rivendicavano il diritto di sostenere i loro articoli con ogni tipo di artifizio, misurandosi in particolare con gli sperimentalismi linguistici, i giornalisti italiani erano ancora alle prese con processi di americanizzazione della notizia», Alberto Papuzzi, Letteratura e giornalismo, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 46-47. 4 «Sia “L’Europeo” sia “L’Espresso” rinnovano radicalmente il linguaggio giornalistico, grazie allo spazio riservato ai reportages in forma di racconto, prodotti da giornalisti versati nella scrittura narrativa», Ivi, p. 50.

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impellenza di A sangue freddo o Le armate della notte. Per figure come Montanelli, Cederna, Bocca, Pansa (alcune delle firme più note del giornalismo del secondo ‘900; ma il discorso vale anche per i loro colleghi) la priorità è di fornire resoconti affidabili e la loro importanza si dispiega soprattutto nel reperimento delle fonti, nella presenza sul campo, nel giudizio pronunciato sugli eventi. L’obiettività da raggiungere, la possibilità di prendere una posizione anche politica sui fatti riportati, il campo dello stile, sono i tre ambiti che interessano di più i giornalisti del periodo. Si tratta di campi che non riguardano direttamente la separazione fra il romanziere e lo storico (dopotutto «se l’attendibilità, o inattendibilità, distingue l’uno dall’altro; non è altrettanto certo che la bella o cattiva scrittura differenzi gli scrittori dai giornalisti»)1 e non hanno implicazioni narratologiche né comportano una ridiscussione dei giudizi di vero e falso sugli eventi riportati e un’incertezza di genere dei report. L’attendibilità del cronista (uso qui la formula di cui si serve Isgrò: «attendibilità è una credibilità suffragata da sufficienti motivi di veridicità o valutazione positiva»2) rimane una conditio sine qua non che un professionista del settore non deve intaccare con focalizzazioni zero, discorsi dell’interiorità e altri dispositivi finzionali. Così, gli spunti narrativi possono inserirsi in una tradizione di prosa d’arte e schizzi satirici (come in Montanelli)3, di per sé notevole ma non significativa per il non-fiction novel dagli anni ’90 in poi; oppure, i libri d’inchiesta di Camilla Cederna, quali ad esempio i dibattuti Pinelli. Una finestra sulla strage (1972), sulla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli precipitato da una finestra della questura di Milano e Giovanni Leone. La carriera di un presidente (1978), che ricostruisce la formazione di un presunto sistema di favoritismi familiari gestito dall’allora presidente della Repubblica, sono interventi d’attualità che provocano forti controversie circa i loro contenuti, ma entrano nella tradizione del giornalismo di denuncia senza rovesciarla, dal momento che «intervallano l’esposizione con schizzi di atmosfere e personaggi, e la movimentano con un continuo intreccio di tensione drammatica e umorismo sulfureo»4. Siamo ancora all’interno di un «vittorioso processo di emancipazione, o di svincolo, dai lacci delle istituzioni letterarie tràdite»5 che negli anni ’70

1 Piero Isgrò, Scritture di serie B? in Fernando Gioviale (a cura di), La parola “quotidiana”. Itinerari di confine tra

letteratura e giornalismo, Olschki, Firenze 2004, p. 40.

2 Piero Isgrò, art. cit., p. 35.

3 «Credo che Gli incontri del 1961, più che le addizioni procurate da Montanelli nel corso degli anni successivi, riassumano esemplarmente la fase centrale del suo lavoro: che mette a frutto il ricordo della tecnica compositiva dell’Ojetti di Cose viste, sapiente e letteralmente consumata fino ai limiti del manierismo e oltre, investendoci di suo una prodigiosa attitudine alla costruzione di ritratti “ipotetici”, e tuttavia in ultima istanza non del tutto destituiti di una loro attendibilità “profonda” piuttosto che immediatamente referenziale» Franco Contorbia, Introduzione a Giornalismo

italiano III, cit., XLVI.

4 Clotilde Bertoni, Letteratura e giornalismo, cit., p. 43.

5 Franco Contorbia (a cura di), Giornalismo italiano, IV (1968-2001), Mondadori, Milano 2009, XLVIII (Introduzione dell’autore).

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conosce poche, timide innovazioni, a differenza del ventennio successivo1. La posizione del narratore rispetto alle vicende, nel giornalismo italiano e nelle prove non finzionali degli scrittori negli stessi anni, si muove fra due estremi: a un estremo (come in Terzani, nei reportage di Fallaci o negli scritti di viaggio di Moravia, Parise, Manganelli), troviamo il narratore come testimone

engagé interno alla vicenda che racconta, all’altro capo il narratore ha le fattezze di chi insomma

ricostruisce delle vicende per riscattarle dalle retoriche dominanti e dalle versioni di comodo, ma, da buono storico, non interferisce con la sua figura all’interno del racconto, non si concede di riscrivere i pensieri dei suoi personaggi, non simula un’onniscienza che non possiede. Nel movimento fra questi due poli sta probabilmente la specificità della non-fiction italiana fino agli anni ’80: un’altra peculiarità, secondaria, risiede nella preminente vocazione critico-politica, assente in chi, come Wolfe, Didion, Capote, resta sul piano dell’esperienza senza sbilanciarsi troppo nell’interpretazione delle strutture economiche, degli intrighi politici, delle ideologie.

Nel territorio dei giornalisti-testimoni, è interessante il caso di Tiziano Terzani, che negli ultimi anni della sua carriera produce alcuni libri di meditazione autobiografica sul senso della vita occidentale e sul rapporto con la morte, che non presentano un esclusivo fine informativo, con lo sfondo mobile dei paesi dell’Estremo Oriente(Un indovino mi disse, 1995; Un altro giro di giostra, 2004. Ma già prima, negli stessi ambienti del continente asiatico, i reportage Pelle di leopardo (1973) e Giai Phong! La liberazione di Saigon (1976) si presentano come cronache di guerra che cercano di travalicare la dimensione del taccuino impersonale. Terzani si reca in Vietnam con una precisa idea sulle forze in campo e sullo schieramento per il quale propendere, contro l’intervento statunitense («Ogni generazione cerca degli eroi con cui identificarsi, degli eroi a cui ispirarsi. Per la mia furono i vietcong»2, riflette Terzani nella prefazione all’edizione del 2002). La forma è ancora quella di un diario di guerra giorno per giorno, ma la voce critica dell’autore emerge per brevi sprazzi in un racconto sbilanciato nell’ottica della lotta di liberazione. Terzani, oltre che testimone, è partigianamente implicato nella guerra:

Non si può parlare, scrivere di questa o di un’altra guerra, se non la si va a vedere, se non si è disposti a condividerne i rischi […] Mi pareva che andare alla guerra fosse necessario per capirla, fosse anche una forma di lealtà nei confronti di chi la combatte. Non ho cambiato idea, ma ora che ci sono ho paura e ciò che

1 «oggi, a meno di dieci anni dalla fine di quel secolo, le relazioni tra Giornalismo e Letteratura tendono a complicarsi, a configurarsi secondo moduli meno lineari che nel passato remoto e prossimo, forzando e incrinando i confini di genere, e, ancor più, producendo, o propiziando, un vero e proprio sfondamento delle paratie che separano (separerebbero)

fiction e choses vues», Ivi, XLIX. Appena dopo, Contorbia indica Saviano come paradigma di questa forzatura dei

confini di genere.

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mi fa più paura è accorgermi che questa guerra non la si può vivere che da una parte del fronte, diventando in un certo modo combattente1.

Il successivo Giai Phong! si discosta lievemente da Pelle di leopardo. Sebbene racconti il processo di pacificazione del Vietnam nel 1975 (è uno dei pochissimi giornalisti occidentali ad assistervi), Terzani ripartisce il testo in sette capitoli, a loro volta divisi in paragrafi non scanditi da alcuna data, fatta esclusione per l’antefatto I giorni avanti che contiene due sezioni intitolate 29 aprile e 30

aprile. La rinuncia formale al criterio del racconto giorno-per-giorno va di pari passo con una

narrazione che si serve degli appunti in vista di una rielaborazione più compiuta e omogenea2, incentrata sulle fasi della liberazione di Saigon. Solo di rado a qualche piccola digressione paesaggistica («Il cielo era rimasto l’unica via aperta. A Saigon ormai non s’entrava, non s’usciva che da lì. In alto, denso ed azzurro; verso il mare, chiaro e luminoso con spumose nuvole leggere, sfumate di arancioni e bianchi caldissimi. Immobile, riflesso nelle acque del fiume; mutevole col passare delle ore»)3, e anche la raccolta di documenti, accurata ed esaustiva per quanto lo permettano le condizioni d’emergenza4, si risolve nella continuità, senza presentarsi direttamente come referto sulla pagina. Il filtro è, di nuovo, la posizione rivendicata del giornalista che non si pone al di sopra delle parti: anche se di ogni affermazione fatta viene garantita l’attendibilità, Terzani premette che essa è viziata dalla sua stessa scelta politica, che vede la vittoria del Vietnam come un processo di liberazione («Non pretendo affatto di essere obiettivo: io stesso ho i miei pregiudizi, principi, simpatie ed emozioni che certo hanno influenzato la scelta delle stesse cose che vedevo e registravo»)5.

A differenza di Terzani, che si muove all’interno del reportage di guerra, Corrado Stajano propone negli stessi anni ricostruzioni del presente che vanno contro la tradizione del romanzo, non mancando di esercitare un’influenza su alcune inchieste italiane di statuto particolarmente ambiguo (su Saviano, ad esempio)6. Il sovversivo. Vita e morte dell’anarchico Serantini (1975) ricostruisce

1 Tiziano Terzani, Pelle di leopardo, cit., p. 3.

2 «Avremmo dovuto girare dappertutto in città, parlare con più persone possibile, raccogliere ogni sorta di documenti, di testimonianze. Ogni sera ci saremmo riuniti per mettere assieme, confrontare le nostre esperienze e buttare giù degli appunti. Lo facemmo», Tiziano Terzani, Giai Phong! in Pelle di leopardo, cit., p. 174. Questo brano fa parte della

Prefazione alla prima edizione del libro (1976).

3 Ivi, p. 177.

4 «[…] quattordici quaderni di appunti, venti cassette con interviste, registrazioni di discorsi, conversazioni con la gente per strada e pacchi di giornali, documenti, traduzioni. Da questo materiale è uscito il libro che segue», Ivi, p. 175. 5 Ibidem.

6 L’influenza di Stajano è riconosciuta dallo stesso Saviano: «Un libro che mi ha segnato è stato L’abusivo di Antonio Franchini, Il sovversivo o Africo. Una cronaca italiana di governanti e governati, di mafia, di potere e di lotta di Corrado Stajano, che trovai su una bancarella perché era fuori catalogo. Mi sono reso conto che erano libri che io volevo poter “continuare” […] loro facevano non-fiction, nessuno di loro ha inventato, i loro libri avevano il rigore documentario del saggio e l’efficacia di rappresentazione della narrativa autentica, cioè la loro realtà è modellata dalla loro scrittura letteraria, e sono in realtà tutti libri di inchiesta», Gianpaolo Mazza, Scrivere per esistere … e per

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la morte dello studente ventenne Franco Serantini, arrestato per una presunta aggressione alle forze dell’ordine durante una manifestazione antifascista a Pisa il 5 maggio 1972 e morto in carcere per le percosse ricevute dalla polizia. In una definizione retrospettiva dello stesso Stajano, si tratta di «una narrazione e un’inchiesta che attraverso un accumulo di reperti, di documenti, di testimonianze, tenta un’analisi sociale e politica su un paese che allora (e oggi) non ha risolto molti dei suoi problemi»1. A ben vedere, la definizione di «accumulo» sottolinea il modo di procedere di Stajano sulla materia di cronaca: le testimonianze dei partecipanti al corteo pisano, le relazioni giudiziarie, i rilievi dell’autopsia le citazioni di carattere più personale (come quella dall’Antologia di Spoon

River di Edgar Lee Masters) si giustappongono, più che integrarsi nel discorso del narratore, fino a

creare sporadiche sospensioni narrative che, a differenza di quanto potrebbe sembrare, non vogliono intensificare il mistero sullo svolgimento dei fatti, ma suggerire lo svolgimento che l’autore ritiene più probabile2. La manifestazione universitaria del 5 maggio, per esempio, si sparpaglia in un catalogo disordinato di testimonianze che riflette i diversi punti di vista degli studenti partecipanti: a Stajano non interessa creare una scena di sintesi, ma rimarcare l’evidenza, negata a più riprese dallo Stato, di una repressione violenta e ingiustificata del corteo, culminata nell’omicidio di Serantini, e per farlo raccoglie più pareri che può. La sua scomposizione della scena attraverso i resoconti, che coinvolge anche un medico partecipante all’autopsia e i negozianti di Borgo Stretto che assistono alla reazione violenta delle forze dell’ordine, non va certo nella direzione di un discorso relativistico, secondo il quale è impossibile ritrovare la verità di quel giorno e snidare i responsabili di un caso «che ha assunto un valore di simbolo del rapporto fra cittadino e stato di diritto, fra autoritarismo e libertà»3. Al contrario, la collezione delle testimonianze scritte e orali, priva di un commento autoriale esplicito e ininterrotto, serve da garanzia principale all’attendibilità della ricostruzione e «fa sì che il pathos si sprigioni esclusivamente dall’accurata presentazione dei fatti, impedendogli così di dilagare troppo, e di ottundere la comprensione delle implicazioni retrostanti»4. Probabilmente è eccessivo parlare, a riguardo, di finzionalizzazione del racconto nella misura in cui lo fa Claudio Milanesi5: la raccolta dei documenti e la moltiplicazione dei punti di

resistere: intervista a Roberto Saviano [2010] consultabile sul sito Wuz, qui: http://www.wuz.it/intervista-

libro/4910/Intervista-Roberto-Saviano.html (ma già uscita, in precedenza nel 2010, per la rivista cartacea «Stilos»). 1 Corrado Stajano, Il sovversivo. L’Italia nichilista. Storie di una società ferita, Einaudi, Torino 1992, VII.

2 Ad esempio, nel passo seguente, che chiude il capitolo, sono evidenti l’allusione alla responsabilità delle forze dell’ordine e la stoccata alla posizione del Pci: «Le notizie degli scontri, delle barricate, dei caroselli di jeep si diffondono con rapidità di rione in rione. Prima di sera, il Pci prepara un duro manifesto in cui accusa i gruppuscoli di essere “le controfigure dei fascisti”. / Alle dieci, in città non c’è più un solo bar aperto. Circola la voce che ci sarebbe un morto. In una caserma della polizia si sente cantare fino a tardi», Corrado Stajano, Il sovversivo. L’Italia nichilista, cit., p. 63.

3 Ivi, p. 132.

4 Clotilde Bertoni, Letteratura e giornalismo, cit., p. 45.

5 Claudio Milanesi, Corrado Stajano, écrivain étranger à son passé in «Cahiers d’études italiennes. Novecento … e dintorni», 3, 2005, ELLUG, pp. 188-189.

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vista non sono utilizzate da Stajano per rendere finzionale il racconto, perché non c’è spazio per il minimo sospetto di invenzione né di rielaborazione letteraria nell’indagine sulla morte di Serantini. Anzi, è proprio la sua vicenda tragica a recare i crismi di una grottesca invenzione a beneficio del potere costituito («Quella di Serantini è una storia che sembra sempre ai limiti dell’invenzione settaria, piena com’è di miseria, di violenza classista, d’ingiustizia»)1, e Stajano usa le sue tecniche narrative per opporsi a una simile invenzione extratestuale, non certo per dare un’impronta romanzesca al Sovversivo.

La riflessione sul genere di appartenenza, in fondo, non interessa troppo Stajano, che anche per il successivo L’Italia nichilista. Il caso di Marco Donat Cattin, la rivolta, il potere, parla a posteriori di «una mescolanza di generi – narrazione, inchiesta, saggio politico, tentativo di ricostruzione storica»2 (è da notare semmai che evita accuratamente di riferirsi al romanzo. L’attenzione è rivolta alla lettura della vicenda del terrorista di Prima Linea Marco Donat Cattin, figlio del ministro della Democrazia Cristiana Carlo Donat Cattin nell’ottica, sottile ma persistente, di una ribellione violenta all’autorità dei padri3, ma l’aspetto è di nuovo quello di una raccolta eterogenea di documenti, testimonianze, commenti di personaggi implicati a vario titolo nella questione. Solo la «soggettività controllata»4 di Stajano, rispetto al Sovversivo e alla ricostruzione del villaggio calabrese di Africo (1979), aumenta di pari passo con il giudizio negativo sulla classe dirigente italiana, e trova il suo culmine con Un eroe borghese. Il caso dell’avvocato Giorgio Ambrosoli

assassinato dalla mafia politica (1991). Qui, Stajano elabora una ricostruzione accurata delle cause

dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli su mandato di Michele Sindona. Essa può funzionare da paradossale racconto giallo5 di cui sono già note, e potenzialmente verificabili, le dinamiche, e allo stesso tempo il consueto ventaglio di pareri e testimonianze si evolve rispetto alla raccolta di voci del Sovversivo: «il filo rosso del racconto è rappresentato dal diario della vittima e dal testamento redatto sin dal 1975 ed affidato alla moglie»6. Restringere l’angolo d’osservazione serve a

1 Corrado Stajano, Il sovversivo. L’Italia nichilista, cit., p. 8. 2 Ivi, VIII.

3 «Difficile comprendere le radici del conflitto e conoscerne le motivazioni. Marco Donat Cattin viveva nell’orbita del padre – la sua proiezione – ma agiva pervicacemente soprattutto contro di lui, felice se poteva indispettirlo, tormentarlo, ma bisognoso del padre che ogni volta doveva salvarlo, liberarlo dai guai, cancellare i guasti, sanare le pene. Sulle cose da fare o da non fare, ciò che contava, per Marco Donat Cattin, coscientemente o meno, era solo il giudizio paterno. In tutte le sue scelte era in competizione con lui, in un approccio alla realtà che avrebbe voluto essere tutto l’opposto e finiva invece con l’identificarsi, estremizzato, nel modello paterno. In un gioco di sfida totale, con delle poste in gioco sempre più elevate», Ivi, pp. 138-139.

4 Stefania Ricciardi, Gli artifici della non-fiction, cit., p. 46.

5 Proprio di «giallo» e «piccolo manuale che racconta la politica mafiosa» parla Stajano nella nota senza titolo premessa al testo (che rievoca l’ascendente letterario della peste di Manzoni come correlativo ciclico del degrado morale di Milano), cfr. Corrado Stajano, Un eroe borghese [1991], Einaudi, Torino 2011, VIII.

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«mostrare la levatura morale di Ambrosoli»1, nonché il senso del suo isolamento fra la finanza criminale e uno Stato che non è riuscito a proteggerlo: così, Stajano crea un personaggio di eroismo verosimile e votato all’understatement, al pari di un narratore che, pur non risparmiandosi giudizi e valutazioni anche nette sulle forze in gioco, resta di estrema discrezione e chiuso alla finzionalizzazione degli avvenimenti reali. Lo connota l’assenza di autorappresentazione, che riveste invece un ruolo centrale in Terzani e in Fallaci – e avrà una diffusione ampia nelle prove fra letteratura e giornalismo dagli anni ’90 in poi. L’ulteriore elemento di distinzione è però la caratura del controdiscorso di Stajano. Proporre un’inchiesta significa, come abbiamo visto per Operazione

massacro, rivelare la versione degli oppressi e impostare un discorso in opposizione al Potere,

anche se Stajano rifiuta l’illusionismo del punto di vista “interno” delle vittime: non abbiamo mai, nel Sovversivo, la possibilità di captare la percezione dei fatti da parte di Serantini: la sua versione è ricostruita tramite le testimonianze dei presenti alle vicende. Inoltre, la postura antagonistica trova in Stajano (e, potremmo dire, nel giornalismo italiano coevo) un’applicazione narrativa discordante da quella del New Journalism e del non-fiction novel: mancano nel Sovversivo, come nei libri successivi, la costruzione scena per scena, l’insistenza descrittiva, la caratterizzazione drammatica delle persone implicate.

Con Oriana Fallaci lo slittamento verso opere narrative lunghe dall’identità ambigua può dirsi compiuto, e per questo la affrontiamo alla fine di questo breve approfondimento: il discorso d’informazione ha per contrappunto il personalismo esasperato ed emotivo dell’autrice, una delle