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Il non-fiction novel: Capote e Mailer

2. Un possibile retroterra

2.2. Il non-fiction novel: Capote e Mailer

Nel calderone di chi innova i linguaggi giornalistici, negli anni ’70, non entrano ovviamente solo i

reporter di professione, perché un contributo forse più persistente per approfondire le possibilità

retoriche della scrittura non d’invenzione, forzandone i vincoli di affidabilità (con l’obiettivo latente riformulabile in: “raccontare qualcosa di realmente avvenuto e approfondire, senza dire esplicitamente il falso, tramite delle licenze narrative”), viene dai romanzieri veri e propri2. Quelli antologizzati da Wolfe nel 1973, Capote e Mailer, sono tra i riconosciuti iniziatori di una tipologia di romanzo che si prefigge di non presentare alcun personaggio o vicenda inventata: così «il new

journalism trova il suo complemento nella narrativa che prende le mosse dal giornalismo, il non fiction novel»3. Sull’etichetta non-fiction novel, coniata da Capote con un intento promozionale nel

risvolto di copertina di A sangue freddo, si è già detto, preferendo per quanto possibile evitare l’uso di un termine che, in partenza, presenta uno spessore teorico abbastanza inconsistente. Ma preme sottolineare che gli approcci dei due scrittori americani alla trattazione della cronaca come romanzo divergono fortemente: meditato, memore di un realismo “ottocentesco” (flaubertiano), privato della figura dell’autore-personaggio quello di Capote (per lo meno in A sangue freddo); personalistico, accentratore e compiaciuto (ma dotato dell’autoironia che sembra mancare ad altri esponenti del gruppo, Didion in testa) quello di Mailer.

1 Joan Didion, Verso Betlemme, cit., p. 13.

2 «Ciò che più importa, romanzieri affermati passarono temporaneamente dalla fiction alla scrittura intorno ai nodi della contemporaneità. Quei critici che hanno lodato la vitalità del new journalism hanno visto in esso una fusione della passione dei giornalisti per i dettagli e la visione personale dei romanzieri. E così, ancor più di prima, le differenze una volta sancite con chiarezza fra giornalismo puro e letteratura, fra arte d’élite e arti popolari, sono diventate sempre più difficili da distinguere», John Hollowell, Fact & Fiction, cit., p. 61.

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Capote inizia molto presto a scrivere pezzi in rivista, interviste e reportage su città degli USA e dell’Europa, come testimoniano le brevi descrizioni-raccontini di New Orleans e New York (datate al 1946), e parallelamente sviluppa un gusto eccezionale per la definizione icastica di personaggi famosi del mondo dell’arte e dello spettacolo (in Observations, 1959, dove i suoi commenti accompagnano le foto di Richard Avedon). In mezzo, stanno alcuni tentativi di respiro più ampio: il

reportage divertito su una tournée di musicisti afroamericani in URSS intitolata Si sentono le Muse

(1956, uscita in principio sul «New Yorker»), dove Capote, viaggiando al seguito del gruppo musicale che eseguirà a Leningrado Porgy and Bess di Gershwin, crea una narrazione spedita che gioca sui reciproci clichés di statunitensi e sovietici in piena Guerra Fredda, rende il viaggio in treno una specie di divertito affollamento di personaggi. Dopo Si sentono le muse, il capolavoro nonfinzionale resta A sangue freddo, che ha avuto una risonanza eccezionale, dovuta in effetti al suo essere un tentativo “di confine” che non era stato mai condotto prima con una simile autonomia dai dettami del giornalismo. Come Capote stesso dichiara a posteriori in un’intervista:

Il mio obiettivo era scrivere ciò che io definivo un romanzo-verità: un libro da leggere esattamente come un romanzo, solo che ogni parola sarebbe stata autentica al cento per cento […] Ci avevo già provato due volte, ma la materia scelta non si era rivelata abbastanza proficua per fare quello che volevo fare. Poi finalmente mi decisi per questo incomprensibile crimine avvenuto in un angolino sperduto del Kansas, perché sentivo che se l’avessi seguito dall’inizio alla fine mi avrebbe fornito materiale tale da realizzare una vera prodezza tecnica. Fu un esperimento letterario, in cui scelsi un soggetto non perché mi attirasse così tanto, sarebbe falso dirlo, ma perché serviva ai miei scopi letterari1.

Capote sceglie un fatto di cronaca proprio per la sua distanza da lui, dopo averne trovato notizia in un trafiletto di giornale: lo sterminio della famiglia Clutter a Holcomb, nel Kansas, da parte di due sbandati, Perry Smith e Richard (Dick) Hickock. Segue il caso per sei anni, trasferendosi nella cittadina insieme all’amica e collega Harper Lee, che lo aiuta nel lavoro di trascrizione e collezione delle testimonianze. Infine, mette assieme circa 1200 pagine di materiali, che saranno sottoposti a un pesante filtro fino ad arrivare alle circa 400 pagine finali. Lo sforzo è evidenziato dallo stesso Capote nell’introduzione al volume, che segue la prima pubblicazione a puntate per il «New Yorker», del 1965:

Tutto il materiale di questo libro non derivato da mia osservazione diretta o proviene da registrazioni ufficiali o è il risultato di colloqui con le persone direttamente interessate, colloqui che molto spesso si sono protratti per un tempo considerevole. Poiché questi “collaboratori” sono già nominati nel testo sarebbe prolisso

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elencarli qui, tuttavia desidero esprimere la mia gratitudine perché senza la loro paziente collaborazione il mio compito sarebbe stato impossibile1.

Ma non si tratta solo di uno sforzo materiale, comunque impressionante, a segnare Capote: è anche «il suo forte coinvolgimento emotivo verso la personalità e l’intimità stessa degli assassini»2, che sfocerà in un’attrazione sentimentale dello scrittore per Perry Smith e lascerà pesanti strascichi dopo la loro esecuzione capitale. Nell’orizzonte del testo, invece, l’autore rimane assente: la sua figura non compare e insieme è ovunque, come una sorta di pulviscolo onnipresente, a causa della scelta di un’onniscienza narrativa. Il narratore in terza persona conosce in anticipo lo sviluppo degli eventi, dosa il suo materiale per creare degli effetti di tensione («Poi, portata una mano alla visiera del berretto, [Herbert Clutter] tornò verso casa, tornò alla sua giornata di lavoro, senza sapere che sarebbe stata l’ultima»)3, esordisce dipingendo uno scenario di quiete rurale destinato a essere infranto, con un’articolazione narrativa di sapore tragico4, quasi non stesse proponendo una storia già conclusa all’altezza del 1966 ma un racconto il cui esito dipende dalla fantasia dell’autore. Quasi, appunto: poiché i documenti, pur esposti con estrema parsimonia e di preferenza incorporati nell’andamento della narrazione (o, nel caso delle interviste concesse dai protagonisti della vicenda a Capote, nei discorsi indiretti, nel resoconto della vita interiore) esplicitano l’esigenza di aderire pedissequamente ai fatti. Il sostegno dei dati ribadisce il “realmente accaduto” e rimarca il carattere, per Capote, di non-fiction. All’ambito del novel invece spetta, come spiegato, un’onniscienza che si spinge fino alla capacità di vedere attraverso la vita interiore dei personaggi, con un’operazione che, se ha una qualche basa documentaria (grazie alle interviste e alle numerose conversazioni ottenute), è del tutto “finzionale” nel momento in cui Capote fa pensare i suoi personaggi reali nel racconto dei fatti del 19595. Quando, per esempio, Perry Smith viene introdotto nella narrazione, a seguito della presentazione di Herbert Clutter, i dati che pure sono serviti per “costruire” la scena vengono integrati nell’economia delle frasi, portando a una «focalizzazione zero»6 che all’apparenza si presenta in tutto simile a quella di un romanzo:

1 Truman Capote, A sangue freddo [1966] in Romanzi e racconti, a cura di Gigliola Nocera, con un saggio di Alberto Arbasino, Mondadori, Milano 1999, p. 437.

2 Gianluigi Simonetti, Fiction/Non-fiction, cit., p. 258. 3 Truman Capote, A sangue freddo, cit., p. 452.

4 «Fino a una certa mattina di metà novembre 1959, pochi americani, anzi, persino pochi kansasiani avevano sentito parlare di Holcomb. Come le acque del fiume, come gli automobilisti sull’autostrada e come i treni gialli che sfrecciano sulle rotaie della Santa Fe, neanche il dramma, sotto forma di avvenimento eccezionale, si era mai fermato qui», Ivi, p. 441.

5 «È l’autore, sempre e solo lui, a sapere tutto, e a imprigionare il lettore nel cerchio della sua conoscenza; con improvvise proiezioni nel futuro, e con comunicazioni subliminali che lo catapultano più avanti nella storia», Gigliola Nocera, Uno, cento, mille Sud in Truman Capote, Romanzi e racconti, cit., LXX.

6 «Focalizzazione zero» è secondo Genette l’ottica per cui il narratore è onnisciente, ubiquo e nulla della psiche, del passato e del futuro dei personaggi gli è precluso, v. Gérard Genette, Figure III. Discorso del racconto [1972], Einaudi, Torino 2006, pp. 233-242.

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Al pari di Herbert Clutter, il giovanotto che stava facendo colazione in un caffè chiamato Piccolo Gioiello, non beveva mai caffè. Preferiva una bibita gassata. Tre aspirine, una gassosa fresca e alcune sigarette: era questo il suo spuntino ideale […] Di Dick, ancora, neppure l’ombra. Ma era sicuro che sarebbe arrivato; dopotutto era stato lui a dargli appuntamento lì, sua era l’idea del “colpo”1

Nel corso del romanzo, il punto di vista di Smith resta preferito a quello di Hickock, e soprattutto a quello delle vittime, il cui approfondimento resta confinato alle prime trenta pagine. A volte, l’oscillazione del punto di vista è utilizzata strumentalmente per proporre, al pari di un romanzo naturalista, una lettura sarcastica e critica della società. Il caso più evidente è nella presentazione della moglie di Herbert Clutter, che soffre di una malattia nervosa di cui i suoi familiari sembrano non avere piena coscienza; una critica sottile al “sogno americano” incarnato dalla presentazione della famiglia Clutter, e infranto letteralmente dal quadruplice omicidio:

Era forse possibile che la tensione nervosa, quel suo chiudersi in se stessa, quei singhiozzi soffocati sul cuscino, a porte chiuse … tutto ciò fosse dovuto a una spina dorsale deviata? Se così era, Herbert Clutter, nel discorso che avrebbe tenuto a tavola il Giorno del Ringraziamento, avrebbe ben potuto recitare una preghiera colma di gratitudine2.

Qui Herbert Clutter sembra non vedere la radice del malessere di sua moglie. Altrove, quando l’autore riferisce l’opinione della comunità di Holcomb, l’ironia è meno percepibile. Nel finale, quando gli assassini sono stati catturati, lo stupore si mischia a un sotterraneo dispiacere perché le interpretazioni complottistiche degli abitanti sono crollate:

Infatti la maggior parte degli abitanti di Holcomb, dopo aver vissuto per sette settimane tra dicerie morbose, sfiducia generale e sospetti, sembrava ora delusa ad apprendere che l’assassino non era uno di loro. Anzi, erano in molti a rifiutarsi di accettare il fatto che due sconosciuti, due ladri forestieri fossero i soli responsabili3.

La disposizione della fabula, in questo caso già compiuta nella realtà e conchiusa in un arco temporale definito4, passa per un intreccio che assomma anticipazioni, analessi (è il caso del racconto dell’omicidio, per bocca di Perry Smith, narratore di secondo grado, nella sua confessione alla polizia) e piccole sospensioni nella trama, fra cui anche un sogno inquietante del commissario di polizia Alvin Dewey, di cui Capote ricostruisce il coinvolgimento emotivo nelle indagini.

1 Truman Capote, A sangue freddo, cit., p. 452. 2 Ivi, p. 444.

3 Ivi, p. 708.

4 «Per porsi anch’egli come osservatore imparziale sul territorio degli eventi, in A sangue freddo Capote abbandona il tempo interiorizzato, gotico o mitico, dei precedenti romanzi, portando piuttosto alla ribalta un tempo fortemente cronologico. I personaggi di questo romanzo, uccisori e uccisi, vittime e vendicatori, sono costretti, volenti o no, a fare i conti con l’orologio della storia», Gigliola Nocera, Uno, cento, mille Sud, cit., LXIX.

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Inizialmente viene presentato come una scena “reale”, eppure la sua caratura onirica è presagita dalla progressiva irrealtà dell’inseguimento e svelata solo dall’ultima parola del brano (di cui citiamo solo la fine):

Pistola in pugno, avanza per quegli austeri vialetti finché, udendo delle risate, e dirigendosi là donde provengono, si accorge che Hickock e Smith non stavano affatto nascosti, bensì eccoli là sopra la fossa ancor priva di lapide di Herb, Bonnie, Nancy e Kenyon, in piedi, a gambe divaricate, le mani sui fianchi, la testa rovesciata indietro, a ridere, ridere … Dewey fa fuoco … e poi ancora … e poi ancora. Nessuno dei due cade sebbene entrambi siano stati colpiti al cuore almeno tre volte: solo si sono fatti trasparenti … a poco a poco dileguano nell’aria … ora sono invisibili ma la loro risata seguita a risuonare, sempre più fragorosa … finché Dewey esasperato si allontana di là, si mette a correre in preda a una disperazione così intensa da svegliarlo1.

Il principio ordinatore di A sangue freddo resta una distanza calibrata commista a un narratore onnisciente in grado di esplicitare i pensieri dei suoi personaggi2. Il suo nucleo di novità un equilibrio fra diverse componenti: risalto dei personaggi e descrizione dell’ambiente, uso dei documenti e loro incorporazione nel narrato, coinvolgimento emotivo e pathos senza patetismo né protagonismi dell’autore. La scelta di Capote ha pochi continuatori in Italia, tutti a partire dagli anni ’90 (Bettin, Veronesi, Covacich, più avanti, con esiti lontani a parte il trait d’union del riuso dell’onniscienza narrativa sulla cronaca, Sortino) e solo in parte se ne possono ricondurre le ragioni alla sua altissima coerenza narrativa. In effetti, non viene proseguita nemmeno da Capote, che dopo

A sangue freddo non riesce più a pubblicare romanzi e resta nel perimetro dei pezzi più brevi.

Uno di questi, Bare intagliate a mano (nel 1979 in rivista, nel 1980 nel volume Musica per

camaleonti), è per molti versi il rovescio di A sangue freddo, sebbene il sottotitolo lo designi come A Nonfiction Account of an American Crime. Il racconto lungo, in prima persona e con l’autore ben

presente nel proprio racconto, riporta un’indagine su una serie di delitti che un conoscente di Capote, l’investigatore Jake Pepper, attribuisce al ricco proprietario terriero Bob Quinn, senza avere nessuna prova della sua colpevolezza. L’unico indizio di partenza è costituito da piccole bare intagliate a mano che ogni futura vittima riceve, prima di essere uccisa3; a parte ciò,

1 Truman Capote, A sangue freddo, cit., p. 666. Sogno di Alvin Dewey rivelato all’ultimo momento, irrealtà della scena dell’inseguimento di Hickock e Smith è giustificata dalla presenza onirica – e sottolinea come Capote si prenda il lusso di elaborare ciò che ha raccolto creando delle scene da romanzo vero e proprio.

2 Si ricordi che Dorrit Cohn vede l’onniscienza del narratore come marca finzionale per distinguere un racconto inventato da uno storico, Idem, The Distinction of Fiction, cit., p. 129.

3 «E in mano non avevamo nulla: nessun elemento concreto. Otto omicidi e neanche un indizio atto a collegare le vittime fra loro e a fornire una parvenza di movente. Nulla. Salvo quelle tre minuscole bare intagliate a mano. Mi sono detto: No! Non è possibile. C’è una mente dietro tutta questa storia, una ragione … […] E pregavo: Buon Dio, per favore, non permettere che questo figlio d’un cane la faccia franca!», Truman Capote, Bare intagliate a mano in

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l’interpretazione dei delitti è fondata su un castello di supposizioni di Jake, da cui Capote, nel racconto, progressivamente si allontana scettico, dopo un’iniziale fiducia pre-razionale («sapevo che la fede fondamentale che avevo in Jake era giustificata»)1. Siamo di fronte a una declinazione del caso, tutto novecentesco, del “giallo senza soluzione”, in cui l’ipotesi risolutiva assume a poco a poco i contorni dell’immaginazione paranoica («Non mi fido di nessuno. Di nessuno che abbia a che fare con questo caso»2, rimarca Jake). Mentre A sangue freddo si avvale della fortissima consapevolezza del “poi”, e riesce pertanto a tenere in ordine una materia intricata assegnando torti e ragioni, opinioni e pensieri senza mostrare, nel narratore, grandi incertezze, Bare intagliate a

mano è il segno dell’irresolutezza non solo del detective, ma su un piano più alto dello stesso

scrittore non finzionale. La storia non riesce a prendere una direzione, resta sospesa nell’impossibilità di una verifica. Ciò ha delle conseguenze anche nella struttura frammentaria, costituita da stralci diaristici in cui Capote riporta i suoi discontinui colloqui con Pepper: dialoghi pieni di congetture e smentite sulla colpevolezza di Quinn, brevi isole narrative, al punto che la forma conchiusa del non-fiction novel sembra giunta a un punto di rottura. Per assurdo, la torsione decisiva di un racconto che, va ribadito, si dichiara d’aver preso direttamente dalla realtà, viene da una memoria involontaria dell’autore nel corso di una partita a scacchi con il presunto assassino Quinn3. In questa occasione, Capote ritorna con la memoria a un battesimo in un fiume compiuto dal reverendo Bobby Joe Snow: il ricordo, in apparenza irrelato, prefigura la morte per annegamento nel fiume, più avanti in Bare intagliate a mano, della fidanzata di Jake, Addie, a pochi giorni dalle nozze. Dell’episodio non viene mai ricostruita con esattezza la dinamica, e in tal modo l’interpretazione colpevolista di Jake (per cui Quinn è colpevole della morte di Addie) assume un decisivo carattere paranoico (in che modo avrebbe potuto annegarla? Non è piuttosto un incidente senza colpevoli?) e apre a un finale senza soluzione: chi ha cercato di ricondurre la realtà a un principio ordinatore è rimasto sconfitto dal caos degli eventi, e non è più possibile mettere un filo logico nella violenza della storia. Più in generale, l’autore che per primo e più decisamente ha elevato il racconto di cronaca alla dignità del romanzo è anche il primo a rovesciarne le conquiste con uno scritto dallo statuto di verità palesemente controverso4.

Quanto a Norman Mailer, il suo contributo al non-fiction novel è più ricco di quanto descriva Capote con una certa malignità nell’introduzione a Musica per camaleonti, dove sottolinea che

1 Ivi, p. 982. 2 Ivi, p. 944.

3 «Ma per me la scacchiera si era annebbiata; la mia mente era come se fosse incappata in una deformazione del tempo, oscurata da ricordi rimasti sopiti per quasi mezzo secolo», Ivi, p. 966.

4 «[…] il racconto fa qualcosa che il giornalismo semplicemente non deve fare: forza la credibilità fino a oltrepassare il punto di rottura», John Hersey, The Legend on The License, cit., p. 291. Hersey stigmatizza nella sua recensione le licenze inventive di altri esponenti del New Journalism, fra cui Wolfe.

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Mailer è uno dei primi a contestare la validità di A sangue freddo, salvo poi produrre tre non-fiction

novel (Le armate della notte, Un fuoco sulla luna e Il canto del boia) «facendo molta attenzione a

non definirli mai tali»1. L’opinione di Capote è fuori fuoco, dal momento che Mailer inizia a dedicarsi dopo di lui a un tipo di scrittura storica che pesca a piene mani dalle strategie del romanzo. Non tutte le sue opere sono debitrici di A sangue freddo. Lo è sicuramente Il canto del

boia, una ricostruzione mastodontica della vita e della condanna a morte (nel 1977) di Gary

Gilmore, pluriomicida statunitense e primo detenuto a essere giustiziato negli Stati Uniti dopo il reinserimento della pena di morte (1976). Questo romanzo di oltre mille pagine «si fonda direttamente su interviste, documenti, atti di tribunali e altri materiali di prima mano raccolti in numerosi viaggi nello Utah e nell’Oregon»2, e sulla scia tracciata da Capote la lunghissima ricostruzione documentaria (rivendicata non senza una punta di compiacimento: «Si può tranquillamente dire che la trascrizione integrale di tutte le conversazioni registrate riempirebbe quasi 15.000 pagine»3) sfocia in una narrazione più sintetica, che si concentra sulle dinamiche di Gilmore con i suoi amici e conoscenti, con i giudici e gli avvocati, con la compagna Nicole Baker: di quasi tutti i personaggi viene ricostruito il passato, con poche note sintetiche. La loro psicologia e i loro rapporti con Gilmore sono trasfusi in una narrazione, di nuovo, a focalizzazione zero, ottenuta mediante una raccolta di testimonianze. Il lavoro del romanziere, in questo caso, consiste in buona parte nell’intramazione e nella cernita delle voci raccolte. Un impegno che, Mailer non manca di precisare, comporta precise responsabilità:

Su queste rivelazioni è stato costruito il libro e la storia è esatta, per quanto questo può essere possibile. Ciò non significa che si sia avvicinata alla verità molto più dei ricordi dei testimoni. Anche se gli eventi più importanti sono stati confermati, ogni volta che si è potuto, da altre testimonianze, dato il carattere della storia, non sempre si è riusciti a farlo, e naturalmente ci sono a volte divergenze tra due versioni di uno stesso episodio. In questi casi, l’autore ha scelto la versione che gli pareva più probabile. Sarebbe vanità sostenere che abbia sempre avuto ragione. Una notevole quantità di tempo è stata dedicata al succedersi degli avvenimenti4.