• Non ci sono risultati.

Gli scrittori italiani negli anni ‘70 fra reportage e inchieste

2. Un possibile retroterra

2.4. Gli scrittori italiani negli anni ‘70 fra reportage e inchieste

Negli stessi anni, il non-fiction novel è una pratica inesistente presso gli scrittori italiani, che, quando si cimentano in resoconti storici e attendibili, o in tentativi che escano dal romanzo per approdare alla saggistica, prendono una strada decisamente lontana da quella odierna, in cui «lo storytelling sembra essere diventato d’obbligo anche dove la tradizione lo voleva assente»1. Nell’epoca della fortuna critica dei termini fiction e non-fiction, riflessione personale e spunto narrativo si sviluppano insieme fondendosi in strutture di compromesso, che possono riecheggiare la natura polimorfa del romanzo ma se ne pongono al di fuori. Quanto alla vocazione comunicativa delle scritture non finzionali più recenti, si afferma la tendenza a utilizzare il materiale giornalistico non come spunto per innescare opere sostanzialmente autonome dal contesto di partenza (alla maniera in cui, poniamo, Stendhal o Zola utilizzavano gli articoli di giornale per costruire i loro romanzi), ma come oggetto di un approfondimento specifico, da restituire senza mascherarlo con elementi “finti” che, nell’estetica della letteratura contemporanea, finiscono per apparire falsi2 agli occhi del pubblico.

Negli scrittori degli anni ’70, le distanze appaiono più forti delle continuità. La verità, per il decennio considerato, è che sono ancora lontani dalla non-fiction a venire anche gli scrittori che come Moravia, Manganelli, Parise, Primo Levi, Sciascia, si sono distinti per i loro scritti narrativi non d’invenzione. La pratica della scrittura di viaggio, e dell’affine ma non sovrapponibile scelta del reportage, dato che la forma del saggio è ancora di là dal ricevere un’impronta narrativa decisa (Primo Levi e Sciascia fanno categoria a sé nel riadattare discorsi non finzionali di altra origine),

1 Raffaele Donnarumma, Ipermodernità, cit., p. 151.

2 Ha rilevato opportunamente Carlo Tirinanzi De Medici: «[…] si può dire che mentre per secoli il problema si poneva mettendo in primo piano il polo del finto (la discussione aristotelica sul verosimile) e nella prima modernità i poli rimanevano tre (vero, finto, falso), oggi sono in evidenza i due poli “vero” e “falso” ed è il finto a scivolare in secondo piano», Idem, Il vero e il convenzionale, Utet Università, Novara 2012, p. 17.

58

assume una fisionomia diversa a seconda dell’interpretazione del singolo autore. Di conseguenza, altrettanto personale finisce per diventare la posizione assegnata al filone della scrittura “giornalistica” rispetto alla propria produzione “maggiore”: due settori che rimangono separati e non danno mai luogo a romanzi non finzionali, scritture di confine o altro di simile. Lo delineano efficacemente Bovo-Romoeuf e Ricciardi nel tracciare un possibile percorso che ha portato all’odierna «esigenza di narrare» cristallizzata nelle forme derivate dal giornalismo:

Ma più che inventare storie e intrighi di personaggi, si tratta di raccontare il paese partendo dalla cronaca e assemblandola nell’impianto romanzesco, operazione alquanto singolare se si pensa che gli scritti referenziali (diario, memorie, autobiografie e biografie), sebbene ricorrenti nelle patrie lettere, solevano incanalarsi lungo binari paralleli rispetto a quelli del romanzo, genere narrativo per antonomasia. Quando, per intenderci, scrittori del calibro di Pasolini, Moravia, Calvino, Parise, Elsa Morante, si orientavano verso la critica letteraria o i reportage di viaggio o di guerra, questa loro produzione affiancava quella narrativa senza mai confluire in essa ma originando un fenomeno a sé stante, quel “giornalismo degli scrittori” che annovera volumi come Descrizioni di descrizioni, L’inverno nucleare, Una pietra sopra, Guerre politiche,

Pro o contro la bomba atomica, per citare alcune opere di questi autori particolarmente rappresentative in tal

senso.

Oggi, al contrario, non c’è una linea di demarcazione netta tra la prosa giornalistica e la narrativa di Pier Vittorio Tondelli, Sandro Veronesi e Alessandro Baricco, romanzieri affermatisi nell’ultimo ventennio in virtù di uno spiccato talento affabulatorio, nonché apripista di un genere spurio oscillante tra fiction e non-

fiction, coltivato con egregi risultati da Antonio Franchini, Edoardo Albinati, Gianfranco Bettin, Massimo

Carlotto tra gli altri1.

Alcuni esempi scelti da Bovo-Romoeuf e Ricciardi per illustrare il passaggio di consegne denotano una prospettiva teorica distante dalla nostra: Tondelli pratica a lungo la scrittura giornalistica, ma considerarlo «apripista di un genere spurio» al pari di un autore di non-fiction novel come Veronesi è eccessivo; raggruppare per gli anni ’70 testi così diversi fra loro (Una pietra sopra, Guerre

politiche e Pro o contro la bomba atomica sono accomunati davvero soltanto dalla mancanza di

invenzione) rischia di aumentare una confusione preesistente. Ciò non di meno, aderiamo al concetto di fondo per cui scrittura giornalistica e scrittura letteraria difficilmente s’intersecano. Di «fenomeno a sé stante» si può parlare per i numerosi reportage di Moravia. Lo scrittore concepisce due canali differenziali per parlare del presente, uno senza troppe mediazioni che interviene d’impatto sull’attualità, e uno capace di compiere il giro lungo sulla Storia. Che al primo canale appartengano gli scritti giornalistici e il secondo sia di proprietà del romanzo, lo chiarisce una riflessione di Moravia sull’impegno degli scrittori:

1 Martine Bovo-Romoeuf, Stefania Ricciardi (a cura di), Frammenti d’Italia. Le forme narrative della non-fiction 1990-

59

[…] la letteratura ha una natura tale da escludere l’impegno. Un intellettuale che voglia sentirsi impegnato dispone di altri modi per manifestare questa vocazione: l’articolo di giornale, il pamphlet, il discorso di piazza. Perché scomodare il romanzo o la poesia? Per me un romanzo “impegnato” è un cattivo romanzo come opera d’arte e una cattiva propaganda come opera politica1.

Nel racconto di viaggio del viaggio, dunque, cosa si può ancora dire? La scrittura odeporica è per lui un’occasione di critica al proprio essere occidentale e borghese. Lo si capisce a partire dall’insistita predilezione per civiltà con modelli culturali e di sviluppo economico radicalmente “altre” rispetto al contesto di partenza. Con una formula ricorrente nei libri di viaggio, sin da Un

mese in U.R.S.S., il «viaggiatore occidentale» trascrive pedissequamente le sue esperienze, non

trascurando i dettagli marginali, con la redazione di un diario (come in Passeggiate africane, 1987), e passa le sue osservazioni al filtro di una robusta cultura letteraria e filosofica2, rispettando uno «schema saggistico»3 che Cordelli trova quale elemento comune. Nonostante la figura per ipotesi del «viaggiatore occidentale» è insomma Moravia, quale personaggio cerebrale e distante che non si annulla dietro le sue peregrinazioni, a prevalere («La storia intera dell’India si spiega con lo sforzo costante di togliere ogni terribilità all’idea della morte. Ho avvertito questa presenza della morte per la prima volta a Bombay, in quella parte del lungomare che si allarga in vasta spiaggia poco dopo Malabar Hill»)4. L’osservazione puntuale resta subordinata a una riflessione che può ampliarsi fino alla dimensione politica, ma resta il più delle volte distinta dal resoconto del viaggio. Lo esemplifica l’introduzione di La rivoluzione culturale in Cina, che al racconto della visita nella Cina maoista premette un dialoghetto filosofico, elemento portante di tutta la narrazione. Addirittura, essa viene vista come un’occasione per un discorso sulla validità dell’utopia comunista e sulla spinta all’arricchimento personale nei paesi capitalisti (per Moravia, la cui posizione si rispecchia principalmente in quella dell’interlocutore A, non necessaria). Ciò che più conta per il viaggiatore sembra scrivere di “un’idea della Cina”:

B: Mi pare che ci siamo molto allontanati dalla Cina che è stata il punto di partenza per questa nostra discussione. La quale dopo tutto non è che un’introduzione ad un libretto sulla Rivoluzione Culturale.

1 Alberto Moravia, Intervista sullo scrittore scomodo [1978], a cura di Nello Ajello, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 33. 2 «La concezione indiana della vita rappresenta per l’europeo al tempo stesso un paradosso e una tentazione, nel senso che essa è non soltanto il contrario della sua ma anche la sola alla quale in un momento di stanchezza e di disgusto egli possa ricorrere con qualche utilità. Questo fu già proclamato da Schopenhauer ai tempi dei primi entusiasmi europei per la scoperta della filosofia indiana, e trova conferma in un libro di Albert Schweizer sul pensiero indiano», Alberto Moravia, Un’idea dell’India [1967] in Opere complete 14, Bompiani, Milano 1976, p. 211.

3 «Moravia non si limita a registrare un dato di fatto, una voce, una leggenda. Vi si butta a corpo morto, ne smonta il meccanismo, e infine cerca di spiegarlo. Questo è il secondo livello di traduzione, dalla favola (l’irrazionale) all’umano, al quotidiano, all’a tutti comunicabile», Franco Cordelli, Una pura realtà kantiana in Lontano dal romanzo, Le Lettere, Firenze 2002, pp. 82-83.

60

Dunque che c’entra la Cina con tutto ciò? […] Che ne facciamo insomma della Cina che è stato il pretesto per questa nostra discussione?

A: Non ne facciamo niente. Mi limito a ripetere che ho voluto spiegarti e spiegare a me stesso il motivo del senso di sollievo che mi aveva procurato lo spettacolo della povertà cinese. Questo è tutto. Che poi l’utopia della Cina sia per durare sempre o sia provvisoria e passeggera, questa è un’altra questione. A me è bastato trarne il pretesto per un certo discorso1.

Nonostante ciò, il resoconto del viaggio non diviene mai pretestuoso, non scompare dietro le valutazioni di Moravia, e rimane nel perimetro di una trascrizione il meno possibile distorta del paese visitato. Papuzzi ha notato opportunamente che «il giornalismo di Moravia è sicuramente impostato sul modello oggettivo: non altera i punti di vista, non tende a personificare la notizia, non catapulta il lettore nell’evento, non procede scene-by-scene»2. Solo in alcuni casi, si attua una lieve distorsione che dà ad alcune scene un ritmo concitato e grottesco:

L’ultimo ricordo dell’Africa è, in qualche modo, materno, come si conviene ad un continente che spesso viene chiamato madre. Sono all’aeroporto e sto soffrendo il caldo seduto sul sofà di velluto della sala d’aspetto. Ad un tratto, una donnona formosa, altissima, con un berrettino di addetta all’aeroporto, si affaccia, scorge il bastone di cui un recente incidente automobilistico mi costringe a servirmi e grida indignata: “Un invalido! Gli invalidi non aspettano, salgono immediatamente a bordo! Sì, a bordo, a bordo!” […] Tiro fuori dal sedile davanti al mio la tavoletta, prendo un foglio di carta, comincio a scrivere il presente articolo: “È il giorno della mia partenza per l’Italia. Alle sei del mattino la piscina dell’albergo, come nel poema di Rimbaud, è un “point d’ennui”, un luogo di tedio …”3.

La nota culturale («come si conviene ad un continente che spesso viene chiamato madre») e il rinforzo erudito (l’accenno a Rimbaud), tratti distintivi del discorso odeporico di Moravia4, finiscono per rovesciarsi di segno nella comicità già letteraria della scena. In più, il colpo di coda illusionistico della composizione ad anello, col reportage che si chiude sull’immagine dello scrittore che attacca a scrivere l’incipit del pezzo che abbiamo appena finito di leggere, alza con la

Ringkomposition la scrittura dal piano del referto e dinamizza la costruzione.

1 Alberto Moravia, La rivoluzione culturale in Cina in Opere complete 14, cit., p. 94. 2 Alberto Papuzzi, Letteratura e giornalismo, cit., p. 72.

3 Alberto Moravia, Passeggiate africane, Bompiani, Milano 1987, p. 70. Il diario è spesso condotto “ora per ora”, anziché giorno per giorno, a incrementare l’impressione di una trascrizione tachigrafica poco attenta a una confezione elaborata da romanzo – il che aumenta il ritmo concitato.

4 «Mentre il giornalista di viaggio si abbandona a siffatte libertà di investigazione, leggibili come alternativa e forse antidoto alle necessità della narrativa, il suo occhio resta quello dell’intellettuale occidentale e, ove occorra, dello scrittore-saggista capace di alchimie strutturali e saturo di memoria letteraria», Fernando Gioviale, L’esotismo oltre il

romanzo. Moravia “europeo” tra India e Africa in Idem (a cura di), La parola “quotidiana”. Itinerari di confine tra letteratura e giornalismo, Olschki, Firenze 2004, p. 208.

61

All’approccio “oggettivo” di Moravia si può contrapporre, pochi anni dopo, quello di Manganelli, che si fa carico invece di un’istanza raffinatamente nichilista, capace di ridurre ogni scenario a un proprio panorama mentale, astratto e asfittico. Che sfrutti la realtà di tutti i giorni per funambolici pezzi comico-sarcastici, non di rado inclini alla goliardia (è il caso dei testi raccolti nel Lunario

dell’orfano sannita, 1973), o che si rechi in Cina, in India o in altri paesi (per esempio nell’Europa

del nord, con gli scritti raccolti postumi L’isola pianeta e altri settentrioni, 2006), Manganelli muove in tutti i suoi articoli dalla convinzione che non ci sia nulla da scoprire, nulla da conoscere, perché l’atto stesso dello spostamento si coniuga con l’inganno, trasformandosi in uno stravolgimento sensoriale che è il contrario della registrazione («I viaggi hanno una loro vocazione mistificante o illusionistica che li rende fascinosi e intossicanti»)1. Il viaggiatore, così, si sposta col bagaglio delle proprie idiosincrasie per riversarle sul luogo che lo accoglie. Nemmeno la critica culturale e l’uso dell’esotico per un autoesame di letterato occidentale, sulla falsariga di Moravia, gli interessano, perché solo la sfera del solipsismo può dirsi sincera e raccontabile. La letteratura è menzogna e lo è altrettanto l’odeporica:

In definitiva, solo il pittore domenicale può riportare qualche cosa da raccontare, qualche immagine, anche solo cartoline, per gli amici, da un viaggio di dieci giorni: è abbastanza irresponsabile, incolto, egocentrico e chiacchierone. Credo tuttavia che abbia una sua minuscola parte di ragione. Essendo un passionale e un immaturo, sa che viaggiare comporta una serie di momenti amorosi, di vagheggiamenti, di scoperte innamorative: da pochi giorni di viaggio può accadergli di riportare una defatigante serie di amori a prima vista, una carriera di languori, un’enciclopedia, magari arruffata, di occhiate fatali. Chiunque può dirvi che in dieci giorni non si conosce un paese; ma lo si conoscerà in un anno? E che vuol mai dire conoscere, in questo caso?2

Manganelli dispone le tappe dei suoi viaggi, sempre restituiti nella misura dell’articolo breve, della prosa d’arte che si brucia nel giro di poche pagine, con elegante noncuranza («Sono capitato in Malesia nell’unico modo ragionevole che resti al viaggiatore: per puro caso, per un calcolato errore di fermata, per un gioco»)3. Il suo discorso presto scopre una piega derisoria, rivolta in primo luogo verso se stesso; la carica deformante e comica, che in Moravia è appena accennata, è invece in lui il punto di partenza. Dopo una descrizione scorciata del tempio cinese di Penang, l’autore valuta:

È una descrizione, lo ammetto, di una rara bassezza morale, ma dopotutto io sono un occidentale, e non posso perdere in pochi giorni il mio secolare meconio; pare riferirsi a un tempio di dimensioni grandiose, ma a Penang templi di queste dimensioni ci sono, e devo confessare che quando lo si vede all’opera, il

1 Giorgio Manganelli, Esperimento con l’India [1992], Adelphi, Milano 2009, p. 71. 2 Giorgio Manganelli, Cina e altri orienti [1973], Adelphi, Milano 2013, pp. 20-21. 3 Ivi, p. 70.

62

“sincretismo” religioso cinese è sconcertante. Noi occidentali siamo abituati alle nostre religioni tutte d’un pezzo, che ti catturano appena fuori dal grembo materno e ti timbrano, ti ritimbrano al matrimonio e ti sigillano al decesso1.

Nonostante il confronto con la cultura del posto, si vede come il viaggio per Manganelli sia una specie di paradossale evasione dentro se stesso, che assumerà caratteri alternativamente evasivi e funerei negli ultimi scritti di viaggio. Tredici anni dopo il primo scritto di viaggio dalla Cina, del 1973, la tendenza ludica dello scritto di viaggio manganelliano finisce per rendere i referenti geografici dei tropi svuotati di senso, prossimi a giochi del significante2. Ma ciò non implica affatto che il gioco di Manganelli sia privo di basi estremamente serie. Benché la sua vocazione satirica possa essere letta come un’esasperazione postmoderna del Viaggio sentimentale di Laurence Sterne (1768), che della travel literature sul Grand Tour satireggiava in primo luogo, rovesciandole, la presenza al grado minimo dell’io-narrante e la capacità di dar conto di usi e costumi dei luoghi senza disperdersi, la prosa manganelliana aggiunge al modello l’impronta di una «natura discenditiva»3 che si mostra con più nettezza fuori di casa: il viaggio restituisce lampi di un’estasi negativa e priva di salvazione. Se la Cina4 e i paesi del Medio Oriente5 conservano un’aura di alterità – a una prima occhiata intercambiabile – è l’India, affrontata con una serie di reportage per «Il Mondo» a partire dal 1975, a esplicare l’interesse primario dell’autore in viaggio. L’India è il paese di una rassicurante – per assurdo – cognizione dell’orrore fisico, è il tempio del disfacimento della carne6 non corrispondente a un luogo concreto, né individuato da qualche carta geografica: il raccontino in forma di dialogo che apre Esperimento con l’India emblematizza l’itinerario verso l’India come anzitutto mentale7. Nello scritto odeporico Manganelli trova un pretesto per un

1 Ivi, pp. 103-104.

2 «Arrampicato in cima al cielo, l’aereo guarda in giù. “Che strano,” mi dice “mi sembra di essere a Torino”. Assento. Non è bene contraddire gli aerei. D’altra parte un aereo ha uso di mondo, viaggia, si fa delle idee. Ad esempio, questa stravaganza: che questa cosa enorme, geometrica, questo disegno che si spalanca come una mappa sotto di noi, questo rigido ideogramma sia in qualche modo Torino, o insomma abbia del torinese. Conoscete Torino; strade rettilinee, angoli retti, piazze rettangolari, nell’insieme l’idea di una geometria fatta città. Ma questa sotto di noi non è Torino, è Pechino; anzi come presto impareremo a dire, è Beijing, un nome strano, che non ha la grazia da operetta di “Pechino”, un nome che mi fa sentire invecchiato. Come si può rinunciare ad un nome laccato, scintillante ed esotico come “Pechino”? Beijing è cupo, sordo, senza scintillii. Ma, mentalmente, dove siamo? A Pechino, o a Beijing?», Ivi, p. 227 (Cina (1986)).

3 Giorgio Manganelli, Hilarotragoedia [1964], Adelphi, Milano 1987, p. 9.

4 «Sembra impossibile uscire da questo luogo, dal tempo oscuro e segreto, questo luogo che ci insegue e trattiene con i suoi enigmi, i suoi giochi, la sua arcaica eleganza», Giorgio Manganelli, Cina e altri orienti, cit., p. 55.

5 «Non voglio dedicare il mio magro spazio tutto a questi compatrioti che, mentre sprecano la vita in modesti e miti litigi, si dimenticano che il mondo esiste, è complicato ed è del tutto diverso da una bocciofila. Forse una storia araba può essere più inafferrabile, un labirinto cerimonioso e magato», Ivi, p. 179 (In Arabia con Leone).

6 «In questo paese che non conosce l’orrore, l’uomo dell’orrore può uscire dai nostri ghetti mentali, dai nostri incubi, e trascinarsi ai nostri piedi. Alla sera, finito di mangiare, uscivo a passeggiare tra i mostri: ragni di carne, gambe morte, braccia vegetali e attorte, bocche scavate in una cartilagine di testa, ocarine da gemiti ed agonie. Che pace, che onestà questo commercio col mostruoso», Giorgio Manganelli, Esperimento con l’India, cit., p. 100.

7 «“È incredibile,” mi disse, prendendomi sottobraccio come fossi un condolente ad una cerimonia commemorativa, “è incredibile quanti errori psicologici, intellettuali, filosofici possa fare una persona che sta per andare in India.

63

processo di deformazione. L’India acquista tramite la chiave del misticismo orientale un’aura ciclica e ottundente che travalica il contesto: «tutto fluttua tra follia e rivelazione. Tutto è facile e intoccabile»1. È una forzatura della categoria di scrittura di partenza più netta rispetto ad altre del periodo, e di segno opposto rispetto alla precisa transitività del resoconto di viaggio in Moravia2. Ma forse proprio per questo troverà maggiori riprese nell’odeporica rivisitata dagli anni ’90 in poi, quando il reportage degli scrittori inizia a svuotarsi di prioritarie esigenze d’informazione e assume recisi caratteri “sentimentali”, misticheggianti e insieme autoironici fino alla decostruzione della tipologia (penso a Ultima India, 1996, di Sandra Petrignani; L’onda del porto. Un sogno fatto in

Asia, 2005, di Emanuele Trevi, che cita esplicitamente il modello manganelliano nella bibliografia

conclusiva; Antonio Franchini, Signore delle lacrime, 2010, che pure della «civetteria delle parole»3 di Manganelli non ha, negli anni ’90, grande considerazione): con un po’ meno di coerenza antinarrativa rispetto al modello, differenza che permette a questi successivi “esperimenti con l’India” di conservare un’ossatura narrativa non invasa dal meta discorso, di mantenere personaggi autobiografici meno respingenti, con cui è possibile una qualche identificazione – ci torneremo. I reportage di guerra di Parise, raccolti in Guerre politiche (1976, su Vietnam, Biafra, Laos e Cile) si pongono in una posizione mediana, in un certo senso, fra il viaggio iniziatico e parodistico di Manganelli e il preciso report saggistico (non esente da una dichiarata presa di posizione