• Non ci sono risultati.

3. La manipolazione dei discors

3.1. Scritti di viaggio

Non esistono criteri stilistici o strutturali per catalogare la scrittura di viaggio come genere a sé stante2. Ci limitiamo qui a esaminare soltanto l’odeporica fattuale escludendo dall’orizzonte quella finzionale (cioè che racconta di viaggi inventati, alla maniera della Storia vera di Luciano o dei

Viaggi di Gulliver di Swift), nonostante entrambe le pratiche conoscano una lunghissima fortuna e

si scambino nei secoli dispositivi, posture, linguaggi3. La scrittura di viaggio non coincide con il

personal essay perché può assumere un andamento narrativo deciso, e al tempo stesso intervallarlo

con descrizioni, approfondimenti di carattere storico-scientifico, raccolte di testimonianze degli abitanti del luogo: ma al saggio si avvicina per la capacità autoriflessiva che l’autore-viaggiatore mostra nel corso del suo itinerario, fino a configurarsi come evasione esotica, fuga da se stesso, ricerca di un senso nell’altrove (una tendenza che diverrà significativa per qualità e quantità, come ha notato Adrien Pasquali, con il Romanticismo)4. Nemmeno la categoria di reportage, la forma dell’inchiesta “in presa diretta” degli eventi più controversi e irraggiungibili nell’orizzonte fisico e culturale della vita quotidiana dei lettori (esemplificati dalla forma del reportage di guerra, che ha finito per ricoprire quasi tutto lo spettro semantico del termine), si può sovrapporre all’odeporica.

Franchini illustra la via preferenziale della propria scrittura (la citazione originale è: «scrivere sgretolando generi, personaggi, storia», Antonio Franchini, Signore delle lacrime, Marsilio, Venezia 2010, p. 106).

1 Della scrittura vincolata scrive Benedetti, sull’ispirazione della libertà paralizzante dell’artista moderno secondo Hegel nell’Estetica. A proposito del postmoderno italiano e francese, e in particolare dell’Oulipo, Benedetti nota: «Tramite l’autoimposizione di una regola si costruiscono infatti dei vincoli a cui lo scrittore deve sottostare, così come un tempo doveva sottostare o alle regole metriche, versificatorie, compositive di un sonetto, o alle regole drammatiche di una tragedia», Carla Benedetti, L’ombra lunga dell’autore, cit., p. 171. Questi vincoli portano a una delega delle responsabilità dall’autore a principi formali e di genere a lui esterni (Ivi, p. 189).

2 Sull’inclassificabilità strutturale della scrittura di viaggio, v. Luigi Monga, The Unavoidable “Snare of Narrative”:

Fiction and Creativity in Hodoeporics, Hodoeporics Revisited / Ritorno all’odeporica, a cura di Luigi Monga, in

«Annali d’italianistica», 21, 2003, pp. 7-46.

3 Pone l’accento sui due versanti della scrittura di viaggio Riccardo Capoferro, Frontiere del racconto. Letteratura di

viaggio e romanzo in Inghilterra 1680-1750, Meltemi, Roma 2007, pp. 7-16.

4 «Al racconto di esplorazione di un mondo sempre meno ignoto si sarebbe sostituito il racconto di una esperienza individuale che poggia sull’ambivalenza fra l’evasione fuori dalle costrizioni di un luogo di partenza e la formazione di una nuova identità del soggetto a contatto col mondo, come per Stendhal o Nerval, e più tardi H. Michaux o N. Bouvier», Adrien Pasquali, Récit de voyage et autobiographie in, L’odeporica / Hodoeporics. On travel literature, a cura di Luigi Monga, «Annali d’italianistica», 11, 1996, p. 73.

90

Difatti, nonostante la comune garanzia di uno scrittore implicato come spettatore negli eventi di cui parla, la scrittura di viaggio non esige la molla dell’estremo di cronaca e non è legata all’esigenza dell’informazione giornalistica d’attualità. Il reportage è soggetto al vincolo dello spostamento, perché è precondizione indispensabile che il reporter vada effettivamente nei luoghi d’interesse1, e risponde a esigenze di immediatezza e denuncia che la tradizione della letteratura di viaggio non possiede, secondo una distinzione di Enrico Falqui:

Arrivar primi: ecco l’imperativo categorico da cui è tiranneggiata la produzione dell’inviato-speciale, se vuole restar tale. Arrivar primi e fare colpo. Non così i letterati viaggianti. Ad essi è consentito convertire le impressioni in ricordi, le immagini in riflessioni, depositandole nel taccuino, finché, tornati a casa, le riordinano e le stendono con armonia e rigore. La loro è una “specialità” diversa; più libera ma nel contempo più vincolata dalle leggi artistiche […]2.

Una volta che si sia garantita nel proprio discorso un’esperienza diretta del luogo descritto, in modo da stabilire un patto di fiducia con il lettore, potenzialmente tutte le strade sono valide, per adottare una metafora dello stesso ambito. Lo ha osservato Luigi Marfè:

Da sempre nel sottoscala della letteratura questo genere di scrittura ha convogliato dentro di sé testi molto vari per origine, mezzi stilistici, destinazioni. Di volta in volta, esso ha assunto la forma di reportage, racconto, raccolta epistolare, memoria autobiografica, prosa tecnica e ogni sorta di soluzione intermedia3.

La scrittura di viaggio tende a includere, insomma: con in più rispetto al romanzo un ineliminabile carattere di occasionalità e l’obbligo a riferire l’esperienza. Non è indispensabile l’intervento della memoria per riferirla, considerata la fortuna dell’uso del taccuino di appunti4 per trascrivere i dettagli salienti del viaggio, ma un’inflessione autoriflessiva, di prossimità autobiografica, contraddistingue più di ogni altro aspetto l’odeporica otto-novecentesca5. Alla dimensione introspettiva si accompagna il criterio autoptico: si può parlare soltanto di posti visti con i propri occhi, riferire ciò di cui si hanno notizie di prima mano. Erodoto, il padre ideale (oltre che della

1 «Sarà opportuno rammentare subito come la voce, francese ma derivata dall’inglese to report, riconduca all’atto del “riportare, riferire” proprio del viaggiatore in paese lontano, e per vari motivi ritenuto meritevole d’esser reso noto o più noto a un pubblico di riferimento» Monica Farnetti, Reportages. Letteratura di viaggio del Novecento italiano, Guerini, Milano 1994, p. 7.

2 Enrico Falqui, Giornalismo e letteratura, Mursia, Milano 1969, p. 107.

3 Luigi Marfè, Introduzione a Sulle strade del viaggio. Nuovi orizzonti tra letteratura e antropologia, a cura di Luigi Marfè, prefazione di Francesco Remotti, con un saggio di George Santayana, Mimesis, Milano-Udine 2012, p. 23. 4 Sul giornale di viaggio quale esito possibile della pratica journal intime, v. Riccardo Scrivano, “La penna che spia”:

giornale intimo e scrittura in Anna Dolfi (a cura di), “Journal intime” e letteratura moderna, Bulzoni, Roma 1989, pp.

21-22; Béatrice Didier, Le journal intime, Presses Universitaires de France, Parigi 1976.

5 Ancora Pasquali argomenta: «Il racconto di viaggio fattuale di cui mi occupo si avvicina all’autobiografia se considero che Autore/Narratore/Personaggio sono identici ma funzionalmente e testualmente distinti», Adrien Pasquali, Récit de

91

storiografia) dell’odeporica, sancisce il criterio dell’autopsia del racconto storico1 (che nel suo caso si sovrapponeva in larga parte con quello etnografico), che di fatto rimane stabile nei secoli a venire, fino a diventare un motivo d’interesse in sé per le scritture che qui ci interessano. Difatti, il primo modo che scrittori come Arminio, Trevi, Pascale, Piccolo hanno per dimostrare la conoscenza effettiva dei luoghi visitati è inserirsi nel quadro che allestiscono, raccontare mettendosi in qualche parte del campo quali personaggi degni di attenzione: lo spostamento geografico, inoltre, finisce non di rado per innescare l’autobiografia. Espungere l’io dal resoconto di viaggio non suona come garanzia di distanza oggettivante, ma come un ostacolo alla comunicazione: per essere legittimati dal lettore, bisogna mostrarsi implicati in ciò di cui si riferisce (un meccanismo che non vale solo per la scrittura di viaggio, come vedremo per Gomorra di Saviano). È talmente rara la trascrizione del viaggio entro la forma di un non-fiction novel con narratore esterno in terza persona, sull’esempio di A sangue freddo, che ha ingenerato anche dei fraintendimenti. Nella Premessa del 2006 a Occhio per occhio, uscito in origine nel 1992, Sandro Veronesi ricorda a proposito del quarto reportage del volume, California: la madre di tutte le partite di flipper, sull’esecuzione capitale di Robert Alton Harris nel 1992:

Poiché la quarta delle storie qui raccolte, quella americana, non mi vede coinvolto in prima persona come le prime tre, ma è raccontata in terza persona raccogliendo insieme i fatti e le voci dei protagonisti, qualcuno ha creduto, e sostenuto, che io l’abbia scritto da casa mettendo insieme articoli di giornale […] Perciò, per sgombrare il campo da quest’ultimo equivoco, eccomi qui a dichiarare che in California, a raccogliere materiale per ricostruire la mia storia, a incontrarne i protagonisti, a intervistarli uno per uno, a interpellare testimoni, specialisti, preti, giornalisti, a consultare testi e documenti […] ci sono stato eccome2.

Dei quattro luoghi visitati in Occhio per occhio (oltre a Sudan, Taiwan, URSS) la California sembra la più facile e accogliente per il proprio compito di inviato (come Veronesi stesso precisa nel brano), ma la mancanza dell’implicazione personale fa sospettare un’esperienza non di prima mano. È un equivoco in cui gli scrittori-viaggiatori venuti dopo non incappano quasi mai, prendendo la strada inversa. Il taccuino di viaggio è attraversato da tensioni differenti: pamphlet, diario, studio sociologico, osservazione di sé “in terza persona”, digressione lirica si affastellano spesso senza che una di esse riesca a imporsi e a imprimere un’identità chiara. Al tempo stesso, infatti, lo spostamento del focus dal luogo attraversato non implica una concentrazione esclusiva su di sé. Si riscontra una forte impronta autobiografica, sia per la componente autoriflessiva marcata sia per

1 V. sull’argomento François Hartog, Le miroir d’Hérodote. Essai sur la représentation de l’autre, Gallimard, Parigi 1980; Arnaldo Momigliano, Sui fondamenti della storia antica, cit.; Ryszard Kapuściński, In viaggio con Erodoto [2004], Feltrinelli, Milano 2005, pp. 235-242.

92

l’esigenza accentuata del criterio autoptico, ma queste scritture non si risolvono in essa. Non sono semplicemente autobiografie sotto false vesti: l’attenzione alle vite degli altri, la tentazione realizzata a più riprese di cedere il comando del discorso ad altri personaggi, insomma il bisogno di uscire da se stessi distolgono questi testi da una vocazione accentratrice. Di pari passo, si sovverte l’apriori contenutistico. L’attenzione non è più riservata al luogo visitato; al contrario, concentrare l’attenzione su luoghi minimi o non degni di nota (come Mullur in India per Trevi, il Molise presentato da Pascale, i paesi dell’Italia interna per Arminio) ponendo al centro il proprio io permette di argomentare oltre la notazione circoscritta e passeggera. Al centro rimangono i destini particolari, aperti alla possibilità di essere convertiti a un significato che li travalichi. Neppure, nonostante la forte componente autoriflessiva, si può parlare in questo contesto di viaggi «sedentari», una categoria che Sergio Zatti ha utilizzato per fissare «un canone particolare, specifico: quello dei viaggiatori che i viaggi, invece di farli, li sognano soltanto o li immaginano nel chiuso delle loro stanze»1. L’elemento autoriflessivo, potremmo dire “mentale”, apre all’immaginazione del viaggiatore, che «svela la radice antropologica profonda che connette il viaggio alla scrittura»2. Il viaggiatore sedentario rivendica per la letteratura «in certo modo uno spazio innocente e una vocazione originaria, quelli della propria autoreferenza»3. La formulazione di Zatti nel nostro caso è parzialmente centrata: gli scrittori che ci interessano, nonostante sottraggano l’odeporica all’ambito della cronaca pura con artifici e rielaborazioni letterarie (non invenzioni) della materia di realtà, non fanno sprofondare nelle nebbie della globalizzazione o della mistica luoghi, tragitti e viaggiatori. In sintesi, ritengono che aver compiuto il viaggio sia essenziale, ma che dallo spostamento si debba partire per compiere un discorso più vasto, fra l’ampiezza della letteratura e la puntualità della storia vera. Il baratro dell’insensatezza è solo costeggiato, non si risolve in una mappa mentale anche se la scrittura mette in mostra gli schemi, le immagini precostituite, i filtri culturali e del turismo di massa, per decostruire l’atto di viaggiare, per servirsene al fine di un discorso sul mondo.

Una scrittura di viaggio così impostata ha avuto una certa fortuna editoriale. Un filone consistente si può individuare all’interno della collana «Contromano» della casa editrice Laterza. «Contromano» è nata nel luglio 2004, inizialmente a cura di Gianluca Foglia e, da qualche anno, di Anna Gialluca, con Get back! I giorni del rock di Alberto Campo: novantaquattro titoli dopo, fino all’ultimo

Oceano padano di Mirko Volpi (2015), la collana resta uno dei collettori più vasti per una

1 Sergio Zatti, Viaggi sedentari in Hodoeporics Revisited, cit., p. 57. Zatti esamina testi e personaggi finzionali, a partire dal Marco Polo delle Città invisibili di Italo Calvino, per poi individuare un riferimento ideale in alcune riflessioni di Ariosto nell’Orlando furioso e nella terza delle Satire. Altri spunti per la progressiva importanza simbolica del viaggio mentale su quello materiale sono dati dall’Adone di Marino e dall’Infinito di Leopardi.

2 Ivi, p. 58. 3 Ivi, p. 68.

93

ricognizione esauriente di non-fiction italiana (con un ventaglio ormai molto ampio di scrittori pubblicati) e insieme uno dei più coesi, per approcci e impostazione del discorso: in generale, i libri di «Contromano» presentano reportage etnografici in prima persona, autobiografie che parlino di luoghi di nascita o d’elezione, racconti di viaggi e divagazioni, con una marcata preferenza per un’attitudine “sentimentale” anziché scientifica, per un discorso su luoghi e situazioni reali che non vuole essere, di norma, di inchiesta o di denuncia ma piuttosto di scavo psicologico e coinvolgimento umoristico. La forzatura delle modalità pregresse della scrittura di viaggio è quasi sistematica. Le eccezioni, è chiaro, non mancano, a partire dal libro di Campo, che è una ricostruzione vagante della musica rock dal 1964 al 2004 e si differenzia anche per la sua grossa mole: di solito, da un lato i libri «Contromano» si attengono a una fedeltà empirica di massima al reale, dall’altro si presentano decisamente esili. La ricostruzione di avvenimenti storici, se c’è, passa per l’esperienza di un autore fortemente implicato, anche come personaggio, nella storia di cui parla, e la preferenza è data in ogni caso allo scritto di viaggio, o alla descrizione (partecipata, raccontata) delle città: a questo secondo gruppo «Contromano» ha dedicato finora una trentina di titoli1, connotandolo come il più praticato e vendibile. Trevi, Alajmo, Pascale sono fra i più importanti a contribuire alla collana, con più titoli (Trevi vi pubblica nel 2004 anche Senza verso.

Un’estate a Roma; Pascale nel 2009 Qui dobbiamo fare qualcosa. Sì, ma cosa?), e a esplicitare

l’andamento divagante, il tono colloquiale, l’interazione fra l’autore-personaggio e il lettore che connotano la manipolazione della scrittura di viaggio nella non-fiction.

Prendiamo il libro di Roberto Alajmo Palermo è una cipolla (2005). Esso si presenta come un’introduzione divagante alla città di Palermo, svolta alla seconda persona e tutta in forma ipotetica. Alajmo scrive come se facesse un discorso preliminare al viaggiatore appena arrivato nella «Città» (come viene chiamata per tutto il libro), sfidandolo a liberarsi dei suoi preconcetti: «Tu osservi tutto questo e pensi di essere arrivato nel posto più bello del mondo. Ammettilo: credevi di esserti fatto un’idea della Città e dell’Isola perché è difficile sfuggire ai luoghi comuni; ma di fronte allo spettacolo della costa intorno all’aeroporto ogni giudizio cade all’istante»2. Dopo essere atterrato a Punta Raisi, all’inizio del libro, il viaggiatore ipotetico di Alajmo si rifugia nel suo hotel, aspettando di trovare il coraggio di fare esperienza della Città. Il discorso del narratore, una sorta di guida turistica anomala propedeutica a far uscire il viaggiatore dal suo albergo, da qui si dipana in una serie di excursus tematici dettagliati e divertiti (il cibo, il rapporto con la morte, la cultura, il tempo libero, la legalità, la mafia, eccetera). Alajmo passa in rassegna gli stereotipi su

1 Per una ricognizione fino al 2009, v. Davide Papotti, Ragionati atlanti di geografie private, pubblicato sul blog dell’«Indice dei libri del mese» il 26 ottobre 2012, qui: http://lindiceonline.blogspot.it/2012/10/i-racconti-urbani-nella- collana.html.

94

Palermo, che vengono decostruiti pur conservando un margine di verità1 e di bellezza2, per invogliare il turista a chiudere il libro e uscire a vivere la città3. Se la guida di Alajmo è in forma ipotetica, comunque presuppone il riscontro concreto e predilige una possibilità di conoscere che non è mentale, non si basa su idee fisse, sull’astrazione delle esperienze “autentiche” e impersonali, come spiega Alajmo con la similitudine della cipolla:

Alla luce di ogni strato che vai svelando, quello precedente ti pare grossolano. Se ti fossi accontentato di quello avresti commesso uno sbaglio, perché quello sotto ti pare ancora più autentico, nella sua rarefazione. Fino a quando, a un certo punto, ti pare di avere colto la perfetta essenza della cipolla […] La togli con estrema attenzione e scopri che sotto non è rimasto più niente4.

Sugli stereotipi della visione gioca anche Francesco Piccolo in alcuni suoi libri di viaggi e

reportage, che esprimono, fra euforia repressa e critica spuntata, un accoglimento sorridente della

cultura di massa (Allegro occidentale, 2003; L’Italia spensierata, 2007). Di questa cultura è una metonimia l’esperienza turistica della realtà da parte dell’autore, nei suoi viaggi in giro per il mondo (Hong Kong, un villaggio-vacanze a Ostuni, Sri Lanka, Australia). Il racconto di viaggio (Piccolo imprime un andamento narrativo più deciso di Alajmo) alterna scenette comiche, dialoghi, aneddoti familiari, ragionamenti capziosi e labirintici su piccoli dettagli autobiografici e atti mancati, ma mantiene al centro l’io con il suo carico di idiosincrasie e timori. È l’autore stesso un ostacolo al proprio racconto: mentre fotografa degli elefanti che si fanno il bagno in Sri Lanka, come tutti i turisti intorno a lui fanno e come la guida prescrive5, si rende conto di non poter restituire altro un resoconto standardizzato e piatto6, oscillando perciò fra aspirazione all’assenza e accettazione spensierata e fatua dell’esistente con tutti i suoi stereotipi (un polo incarnato da Il desiderio di

essere come tutti, 2013, su cui torneremo).

1 «Gli abitanti della Città credono di essere estremamente complicati. Si offendono delle semplificazioni che li riguardano», Ivi, p. 60.

2 «Ma forse è proprio questo che ti spaventa e ti blocca. La paura delle tinte forti mescolata alla paura opposta: quella di rimanere affascinato dalle tinte forti», Ivi, p. 110.

3 «Questa specie di guida sta per finire e tu sei ancora barricato nella tua cameretta, a tormentarti le mani e guardare dalla finestra, incerto se venire fuori o meno […] In queste pagine non hai trovato una conferma o una smentita di questi luoghi comuni, ma piuttosto tutta una serie di implicazioni che hanno contribuito a confonderti le idee. Ciò che si chiede a una guida, seppure scombinata come questa, sono delle motivazioni a intraprendere il viaggio. Una guida deve amare il posto che descrive e deve trasmettere passione a chi la legge. In questo senso devo fare una serena autocritica», Ivi, p. 111.

4 Ivi, p. 122.

5 «Tutto quello che posso fare – tutto quello che la gente vuole ed è riuscita a ottenere con incredibile precisione – è guardare attraverso il mio obiettivo la scena esatta che ho visto nella foto sulla guida o sul dépliant dell’agenzia di viaggi e replicarla come se fosse unica e reale. Non è unica, e non è nemmeno reale», Francesco Piccolo, Allegro

occidentale [2003], Einaudi, Torino 2013, p. 61.

6 «Del resto non racconti bugie, ma letteratura, e come con la letteratura, pian piano ti convinci che sia la realtà: racconti quel che davvero avresti voluto vivere, e quel che avresti realmente vissuto quando il turismo non c’era e di conseguenza non c’eri neanche tu. Ecco: quel che avresti voluto vivere è un mondo dove tu non ci saresti stato», Ivi, p. 63.

95

Sul versante opposto, il viaggio può essere il propellente di una scrittura che rappresenta un’iniziazione non standardizzata, che possiede motivazioni insondabili fino alla bizzarria. Nell’O

di Roma Tommaso Giartosio attraversa la capitale seguendo un percorso tracciato su una mappa col

compasso: il viaggio assume i contorni di un gioco il cui senso sfugge allo stesso viaggiatore1, diventa una sfida con se stessi e l’occasione per dimostrare al lettore l’unicità della propria performance. Le ricadute, in un itinerario pieno di echi culturali e sovradeterminazioni semiserie, sono fisiche, e quindi L’O di Roma insiste di continuo sulla fatica del compito, sulla tensione fisica e sugli stati d’animo del viaggiatore2. Nell’egocentrismo del racconto, nominare i luoghi visitati finisce per diventare un elemento fra tanti («Non scrivo una guida turistica, questo lo so. E

neppure un travelogue a sfondo storico o sociale»)3. All’autore importa soprattutto creare «un

impasto di senso che conglomera tutti i frammenti accidentali e insignificanti della giornata di