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Limiti dell’invenzione, astuzie della menzogna

4. Alcune caratteristiche

4.2. Limiti dell’invenzione, astuzie della menzogna

Il trattamento disinvolto della psiconarrazione applicato a personaggi realmente esistiti e l’attribuzione di parole non verificate costituiscono già una spia finzionale impossibile da trascurare, che confuta, per la cosiddetta non-fiction, una distinzione dicotomica fra un testo di finzione e uno rigorosamente storico: la narrativa non finzionale recente trae la sua efficacia proprio dalla parziale violazione del principio di verifica, con la pretesa di essere considerata, nonostante il mancato rispetto di tale principio, un serbatoio di storie vere, non confondibili con la fiction. Un atteggiamento del genere è impensabile, come già detto, anche per gli storici che più insistono su una resa narrativa delle vicende su cui indagano. Se prendiamo un testo storico noto come Il

formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500 (1976), l’impostazione narrativa delle vicende

di Menocchio ci fornisce l’illusione di assistere ai suoi interrogatori, ai dialoghi con i suoi compaesani, si sviluppa in una trama che va dalle prime predicazioni eterodosse nel suo villaggio in Friuli al finale della condanna a morte sul rogo. Ginzburg nota a riguardo: «Gli incartamenti dei due processi tenutisi contro di lui a quindici anni di distanza ci dànno un ricco quadro dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, delle sue fantasie e delle sue aspirazioni»1. Ma il quadro fornito si mantiene sempre nel rispetto dell’esattezza, non azzarda interpretazioni su pensieri e sentimenti di Menocchio che vadano oltre il paradigma indiziario: quando non si può spiegare con ragionevole certezza la motivazione di qualche azione, quando i documenti lasciano dei vuoti fra una vicenda e l’altra, Ginzburg si arresta e riconosce il limite, e l’idea di creare delle focalizzazioni narrative sui protagonisti della vicenda non lo sfiora (come non sfiora altri storici contemporanei che si cimentano con racconti individuali, ricostruzioni biografiche, microstorie e storia evenemenziale2, ad esempio Georges Duby, Chiara Frugoni, Nathalie Zemon Davis, Alessandro Barbero, Anton Blok). D’altra parte, le fittissime Note che chiudono Il formaggio e i vermi riportano in modo esauriente le fonti delle affermazioni compiute nel racconto disteso dei processi di Menocchio3: si

1 Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500 [1976], Einaudi, Torino 2009, XI (Prefazione).

2 Sulla microstoria, v. Carlo Ginzburg, Microstoria: due o tre cose che so di lei in Il filo e le tracce. Vero falso finto [2006], Feltrinelli, Milano 2015, pp. 241-269.

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rileva un’esigenza documentaria che invece, nelle narrazioni non finzionali, è non solo, il più delle volte, assente, ma quasi avvertita come ostacolo alla scrittura.

Prendiamo un testo antitetico dalla parte della letteratura non finzionale, che illustra bene la forzatura delle categorie storiche di partenza: Il regno (2014) di Emmanuel Carrère, in cui si ricostruiscono gli esiti paralleli delle vite di San Paolo e dell’evangelista Luca. Le aporie del passato (molte e significative nella storia del Cristianesimo) costituiscono un incentivo a una narrazione che possa riempirle. Lo scrittore si impegna non a formulare delle congetture caute su cosa potrebbe essere successo (nel costume degli storici), bensì a riempire con l’immaginazione gli spazi vuoti, concorrendo, da romanziere, alla ricostruzione di alcune esistenze nel periodo dell’esistenza di Gesù, arbitraria e non suffragata che da deduzioni. I punti d’appoggio sono degli studi critici sull’argomento (citati in modo cursorio e non estremamente preciso), e poi soprattutto lo stesso Vangelo secondo Luca, che viene sottoposto a un’esegesi stilistica atta a distinguere gli episodi «che evidentemente hanno potuto essere alterati ma che corrispondono a qualcosa di reale» da quelli che «prendono dal mito o dall’immaginario religioso»1. L’analisi di Carrère si muove quindi fra riscrittura delle vite di alcuni Apostoli, esegesi dei Vangeli e autobiografia del proprio rapporto con la fede, secondo la poetica dell’interferenza autoriale all’interno della sua stessa inchiesta (o, come la chiama Carrère, la poetica degli sguardi rivolti alla macchina da presa2): sulla commistione di questi tre piani, che finisce talvolta per trasformare il Cristianesimo illustrato dall’autore in una specie di religione privata di sapore New Age, si sono appuntate alcune critiche feroci, ma non fuori fuoco3. Ma ciò che ci riguarda, qui, è il modo in cui funziona la scrittura del

Regno nei momenti più “romanzeschi”, quando, libera da scrupoli congetturali, ricrea scene dal

vivo4 parallele a quelle raccontate negli Atti degli Apostoli, senza porsi il problema se ciò che egli dà per certo o altamente probabile sia effettivamente dimostrato dai documenti. La direzione, lo attesta un passo in cui si esamina la Vita di Gesù di Renan, è verso una storiografia «non ad

probandum, ma ad narrandum»5: non importa dimostrare la base dei propri argomenti, ma la loro efficacia nel delineare una visione del mondo, una percezione, un’emozione da trasmettere. Poco importa che il risultato porti spesso a un «personaggio di fantasia»6 che s’incastra a fatica col

1 Emmanuel Carrère, La ressemblance [2014] in Il est avantageux d’avoir où aller, cit., pp. 503-504. 2 V. Emmanuel Carrère, Il Regno [2014], Adelphi, Milano 2015, p. 265.

3 V. Pierre Mari, Où sont les tenailles ? Le Royaume d’Emmanuel Carrère, uscito sulla rivista online «Stalker» il 18 ottobre 2014, qui: http://www.juanasensio.com/archive/2014/10/18/le-royaume-d-emmanuel-carrere-pierre-mari- pol.html#more; Raffaele Alberto Ventura, Carrère, spostati, facci vedere Cristo!, uscito sulla rivista online «Dude Mag» il 31 agosto 2015, qui: http://www.dudemag.it/letteratura/carrere-spostati-facci-vedere-cristo/.

4 V. la scena del primo incontro fra Luca e Paolo: Emmanuel Carrère, Il Regno, cit., p. 120. 5 Ivi, p. 129

6 «Quando sentiva Paolo dire peste e corna di Giacomo, il Luca che immagino io – perché naturalmente si tratta di un personaggio di fantasia, solo che, secondo me, è una fantasia plausibile – non poteva fare a meno di pensare nel suo intimo che Giacomo aveva un po’ di ragione», Ivi, p. 317.

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modello reale, perché ciò che importa è che questa fantasia riesca plausibile. La narrazione non finzionale trova, nell’indagine su una materia distante nella cronologia e parzialmente oscura, una sintesi di cronaca e invenzione che si pone a lato della storiografia per come la intendiamo: Il Regno ha una natura fattuale che si evince dall’incrocio di inchiesta indiziaria e autobiografia, dal rifiuto primario della finzione; ma il modo di costruire le scene e raccontare i personaggi rivela uno sforzo drammatico originale e un intervento pesante dell’immaginazione romanzesca. Ci viene suggerita un’identificazione mimetica, addirittura, fra l’operazione di Carrère e quella di Luca, il quale, nell’unire racconti riferiti e testimonianze oculari in una narrazione di apparenza veridica, viene definito sì un cronista nelle ambizioni, sulla scia di Tucidide più che dell’antecedente evangelista Marco, ma rivela ben presto la sua posizione di «collega» e romanziere ante litteram1.

In maniera analoga funzionano molti dei testi che sinora abbiamo esaminato: agli scrittori importa trasmettere un punto di vista marcatamente soggettivo e parziale della realtà, più che costruire uno sguardo “dall’alto” e oggettivo, ma sentito incapace di far presa sulla cronaca. Nella ricerca della trasparenza2, lo scrittore entra in un regime di veridicità che è quello dell’autobiografia, del

reportage, dello scritto di viaggio: bisogna raccontare ciò che si è visto e vissuto, oppure ciò per cui

si hanno prove che permettano congetture ragionate. Pure, le trovate retoriche di un racconto dichiaratamente veridico possono portare dentro un territorio che non è quello della finzione, ma quello del falso, nel momento in cui «dove si ferma il documento, quando la curiosità non può avere risposta, ecco che si apre lo spazio per l’invenzione: il lettore passa inavvertitamente dalla non- fiction alla fiction, dalla cronaca al racconto, dall’informazione alla suggestiva descrizione d’ambiente, di paesaggio, d’atmosfera»3. Se le narrazioni fattuali rifiutano, appunto, la finzione riconoscibile che porterebbe la cronaca a essere considerata alla maniera di un romanzo, l’unica alternativa è inventare di nascosto, correggere il disegno dal vivo senza stringere preventivamente un «patto finzionale» con il lettore4: in una parola, simulare (esponendosi al rischio di essere tacciati per bugiardi). Questo grado di invenzione, parallelo al “parlare per gli altri” di cui abbiamo detto, si può realizzare nelle mancate coincidenze onomastiche, nelle incursioni di elementi palesemente improbabili, in episodi sospetti di una qualche elaborazione a posteriori, ai fini di indirizzare meglio

1 Ivi, pp. 380-424.

2 Naturalmente, anche la veridicità delle narrazioni non finzionali può essere considerata frutto di una tecnica volta a far dimenticare la convenzionalità della costruzione letteraria. Ciò non significa che la “trasparenza” non venga da effetti accuratamente studiati. Cfr. Carlo Tirinanzi De Medici: «i romanzi veridici, che mirano a costruire un’opera il cui codice sia del tutto trasparente, in grado di lasciar filtrare direttamente la realtà ben oltre i più sfrenati sogni del naturalismo, finiscono per opacizzare quel codice così trasparente e concentrare l’attenzione su di esso», Idem, Il vero e

il convenzionale, cit., p. 199.

3 Luca Clerici, Le storie non inventate. Inventare storie vere in Vittorio Spinazzola (a cura di), Tirature ’05. Giovani

scrittori e personaggi giovani, Il Saggiatore, Milano 2005, p. 181.

4 V. su questo Wolfgang Iser, L’atto della lettura. Una teoria della risposta estetica [1976], Il Mulino, Bologna 1987; Federico Bertoni, Il testo a quattro mani, cit., 2010.

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il messaggio del testo. Generalmente, esso è inserito con misura all’interno del racconto, perché una quantità troppo forte e individuabile di finzione (cioè, per il regime di verità sotteso in questo caso, menzogna) farebbe saltare l’attendibilità basilare che si richiede al reporter come allo storico. Così, di norma, la compresenza di vero e falso nello statuto del discorso, che per esempio innerva il patto narrativo dell’autofiction e costituisce uno strumento illusionistico al servizio, tutto sommato, del romanzo di finzione, nella cosiddetta non-fiction non è accettabile. Non può essere tutto vero e falso allo stesso tempo, ma l’intenzionalità storica ricopre anche gli episodi implausibili, i passaggi a rischio d’inverosimiglianza con l’autorità testimoniale del suo narratore: siamo, naturalmente, anche da un’altra parte rispetto allo statuto finzionale del romanzo storico, che ricopre eventi e personaggi storici insieme a quelli d’invenzione. Nel collettivo Wu Ming, il passaggio si avverte chiaramente quando si considerano testi rigorosamente non finzionali come Timira. Romanzo meticcio (2013) e

Point Lenana. L’esergo di Timira di Wu Ming 2 e Antar Mohamed recita: «Questa è una storia vera … comprese le parti che non lo sono»1. Tuttavia, a uno sguardo approfondito Timira sconta il vincolo di documentare ogni riferimento storico, di rendere conto di ogni passaggio2 e insieme di aderire ai racconti orali e scritti di Marincola, italiana di origine somala e attrice negli anni ’50, per restituire un romanzo in cui rifluiscano le sue reazioni, il suo punto di vista sul mondo, i suoi ricordi3 e in cui, soprattutto non ci sia spazio per nulla di indimostrato. Questa adesione puntigliosa, d’altronde, è un motivo di distacco rispetto al romanzo, dove non si deve rendere conto a nessuno delle fonti utilizzate. Nel rimarcare la differenza, sembra affiorare in questo brano la percezione di una superiorità del racconto non finzionale:

[…] abbiamo deciso di mettere a nudo le collaborazioni (spesso involontarie) che ci hanno permesso di modellare e arricchire le memorie di Isabella. È un omaggio doveroso a tutti i coautori di questo racconto, quelli che nella convenzione cinematografica troverebbero spazio almeno nei titoli di coda, mentre in quella romanzesca vengono semplicemente taciuti, con la scusa che il lettore dev’essere lasciato libero di giocare

col testo e di trovare da solo citazioni e rimandi.

Chi volesse dedicarsi a quel gioco, non deve far altro che saltare le pagine che seguono4.

In Point Lenana di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara il meccanismo è lo stesso5, e l’accorta verifica di ogni dato del racconto fa il pari con l’esperienza centrale del libro, l’alpinismo, che apre

1 Wu Ming 2, Antar Mohamed, Timira. Romanzo meticcio, Einaudi, Torino 2012, pp. 3, 5.

2 «lo scenario dei singoli capitoli – specie quando si tratta di raccontare ciò che non si è vissuto in prima persona – ha un debito con cartoline, fotografie, documentari, lettere, mappe, memoriali, archivi, dipinti», Ivi, p. 503.

3 «Ciò significa che questo romanzo è fedele alle testimonianze di Isabella Marincola e le rielabora senza stravolgerne il contenuto. Esso dunque non intende raccontare una verità assoluta ma più modestamente la verità-di-Isabella, il suo punto di vista sul mondo reale e sugli esseri umani che vi ha conosciuto», Ivi, p. 505.

4 Ivi, p. 504. Seguono venti pagine di approfondimento e fonti bibliografiche (Titoli di coda, pp. 504-525).

5 «Timira e Point Lenana vanno considerati libri “cugini di primo grado”», Wu Ming 1, Roberto Santachiara, Point

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a una «letteratura testimoniale, fatta di esperienza diretta»1. Ma cosa accade nei casi, ben più numerosi, in cui manca una bibliografia fitta e puntuale a dimostrare il collegamento fra la realtà evenemenziale e il testo, o in cui la coincidenza autobiografica non viene affermata per essere sconfessata, come nell’autofiction, ma resa soltanto incerta in un racconto, per il resto, verosimile? Le prove della difficoltà di distinguere vero e falso in una narrazione storica, del resto, non mancano in alcuni esponenti della non-fiction italiana. In mancanza di segnalazioni precise2, diventa complicato discernere. A volte, come attesta l’esempio di due prose di Moresco (Lo sbrego e

Lettere a nessuno), inutile: l’obiettivo della cronaca è trasceso in una narrazione che completa

l’esperienza con il racconto fantastico, con la visione onirica, in modo da espandere l’empiria: il saggio narrativo Lo sbrego (2005) va in questa direzione, con il racconto parallelo della formazione umana e intellettuale di Moresco, dal seminario al trasferimento a Milano, e il corpo a corpo con gli autori prediletti (e le loro biografie). La sequenza “notturna” finale, che descrive un’identificazione imperfetta (e uno scambio, appena suggerito, di fattezze) con un cane randagio, allude a una dimensione espansa della realtà, che supera la sfera della contingenza3: nel raccontarla, Moresco non intende mescolare dati veri e invenzioni in una cornice di cronaca, e dunque sarebbe improduttivo, per la logica del testo, obiettare che l’episodio del cane è “falso” perché non può essere accaduto davvero nei termini in cui viene raccontato. Siamo palesemente in un altro ambito che non soggiace al giudizio di vero/falso nell’accezione di aderente o meno a un preciso evento verificatosi in un dato momento storico. Come precisa Moresco stesso nella conclusione di Lettere

a nessuno (1997): «Non è questione di realismo o non-realismo, dato che sia il realismo che il non-

realismo non sono possibili e neppure teoricamente ipotizzabili, per il semplice fatto che la realtà non è né può essere “realistica”»4. La narrazione di Moresco usa qui strumentalmente la cronaca e non richiede al lettore un costante esercizio di verifica: lo illustra con evidenza la prima edizione di

Lettere a nessuno (1997), un diario di quindici anni da autore non pubblicato, ignorato da editori e

scrittori della scena milanese. Gli incontri con persone chiamate in causa con nome e cognome (a volte volatili e inconcludenti, altre volte a costituire scene sospese e comiche, come nel dialogo fra

1 Ivi, p. 66.

2 V. per esempio La vita umana sul pianeta Terra di Genna. L’aggiunta d’immaginazione (l’arringa pronunciata, nel processo di Breivik, all’«Avvocato che non appartiene né alla difesa né all’Accusa», Ivi, p. 134) è segnalata nella sua natura distinta dalla cronaca del processo. Diversamente dalle autofinzioni di Dies Irae e Italia de profundis, qui memoria e immaginazione non si confondono: «La memoria è sospesa: dove sono tutte quelle morti che bisogna giudicare? / E chi sarebbe questa persona che sta per prendere la parola e contro la quale Anders Behring Breivik ha appena lanciato un anatema? / E cosa dovrebbe dire? Cos’altro? Cos’altro ancora?», Ivi, p. 133.

3 V. Raffaele Donnarumma, Ipermodernità, cit., pp. 196-199 (Controcanto. Il sacro: Moresco); Lorenzo Marchese, Su

Antonio Moresco, a partire dal suo ultimo lavoro, uscito il 10 aprile 2014 sul blog «Le parole e le cose», qui:

http://www.leparoleelecose.it/?p=14648.

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lui, Franchini e Busi alla Mondadori)1 si confondono con scene di fantasia (la surreale passeggiata con Papa Wojtyła)2, stralci di citazioni e note apposte in un andamento caotico: il diario è soprattutto concentrato sulla condizione sommersa del suo autore, più atterrito e minacciato dal mondo esterno che interessato a fornire un qualche resoconto, o ad appuntare giorno per giorno le cose che succedono3. Si capisce la distanza di Lettere a nessuno dalla cosiddetta non-fiction esaminando invece due testi che sono invece ascrivibili a quella categoria, rielaborando l’inchiesta del passato e alla tradizione del reportage: rispettivamente, essi sono Zio Demostene. Vita di

randagi (2005)4 e Zingari di merda (2008). Zio Demostene si apre su un dialogo fra Moresco e Giovanni Giovannetti5, dopo che quest’ultimo ha trovato al Casellario Politico Centrale di Roma una foto di Demostene Moresco (lo zio dell’autore) nei fascicoli dei sorvegliati speciali durante il fascismo: da qui, Moresco intraprende una ricerca che travalica lo spunto iniziale dell’indagine sullo zio, dissidente politico e inquieto, per allargarsi a una ricostruzione della famiglia. Zio

Demostene si muove sulle tracce di nonni, zii, genitori; Moresco non ricrea i personaggi reali, non

parla in loro vece, ma si affida ai segni del passato (principalmente la prima metà del ‘900) per raccontare esclusivamente quello che sa dalla sua prospettiva presente (in cui le persone oggetto d’indagine sono quasi tutte morte). A parlare sono le tracce delle fotografie, i documenti ufficiali, le lettere private a disposizione dell’autore, il quale, d’altro canto, non s’impegna in un’indagine approfondita, ma lascia parlare i referti a sua disposizione, interpretandoli con la memoria:

Altre cose non le so. Non ho fatto altre indagini per saperle, prima di mettermi a scrivere. Mi sono basato solo su testimonianze sentite direttamente o scritte, o frutto del passaparola tra le generazioni, che si sono fatte così ricordate, nello stesso modo in cui la loro memoria ha trovato la forma per ricordare e per ricordarsi e per testimoniare e per tramandare6.

Il supporto dei documenti è essenziale, come prova la sua riproduzione a margine del discorso scritto, pagina dopo pagina, condotta senza timore di apparire didascalici (così, Moresco riproduce sulla pagina le foto delle medaglie al valore militare del padre e spiega: «alcune medaglie di mio

1 Ivi, pp. 340-344. 2 Ivi, pp. 217-218.

3 È interessante notare che l’atmosfera onirica e disordinata di Lettere a nessuno sia evidente nella Parte prima (quella uscita nel 1997), mentre la Parte seconda s’impone, forse per la sua composizione a posteriori che implica una certa unitarietà, un andamento meno sfilacciato, serve spesso come autoantologia di interventi e contributi pubblicati altrove, ci permette una ricostruzione degli eventi più chiara e lineare e segna una discontinuità forte, rispetto alla Parte prima, con la realtà sospesa dei romanzi. L’aspetto appare nitido, nonostante la dichiarazione d’intenti con cui la Parte seconda si apre: «A differenza che nella prima parte, scritta giorno dopo giorno per undici anni, adesso racconterò tutto in una sola volta, in una campata sola, di getto […] Ma non ho intenzione di fare un lavoro d’archivio. Non accosterò avvenimenti e materiali seguendo un filo puramente temporale e lineare. Lascerò erompere anche adesso ogni cosa per libera associazione e invasione», Ivi, pp. 355-356.

4 Poi riedito, in un’edizione accresciuta ma immutata nella sostanza, per Mondadori nel 2014, col titolo I randagi. 5 Antonio Moresco, Zio Demostene. Vita di randagi, Effigie, Milano 2005, pp. 5-11.

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padre sono riprodotte qui sopra e a destra»)1. Il legame della scrittura con l’evidenza delle prove, per scrittura e immagini, segna una distanza evidente dal diario sommerso di Lettere a nessuno. In

Zio Demostene, il discorso funge da commento ai documenti, che a loro volta certificano, in una

sorta di contrappunto, le riflessioni concrete, qui mai visionarie, dell’autore. Raramente Moresco si discosta dal lavoro di raccoglimento delle tracce all’interno di un quadro il più possibile nitido e preciso: le accensioni dello stile si hanno per lo più di fronte allo zio Demostene che dà il nome al libro, dato che Moresco si considera quello che più di tutti ha raccolto la sua eredità di eccentrico e ribelle. È così che all’indagine può sostituirsi un rispecchiamento, un ‘ipotesi d’identificazione ancorata all’ottica dell’autore-reporter:

Non ho idea di quale sia stata la vita di Demostene in una situazione così ostile, per così lunghi anni. La riprovazione dell’ambiente, gli arresti, l’ubriachezza, in quel paesino del profondo Veneto e poi in giro in