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Saggio narrativo: fra saggio critico e romanzo-saggio

3. La manipolazione dei discors

3.2. Saggio narrativo: fra saggio critico e romanzo-saggio

Il saggio ha un’identità sfuggente, anche più dello scritto di viaggio. Per cominciare, non necessita dell’espediente dello spostamento fisico per giustificare il proprio discorso. Esso è infatti una tipologia di discorso divagante che, tenuto fermo il principio dell’impossibilità di inventare e di appoggiarsi alle cose esistenti senza camuffarle, fonda la propria ragione d’essere sul «dare nuovo ordine alle cose già esistite»4. Strumento di riflessione e d’informazione (trova il suo sviluppo, come nota Berardinelli, con la nascita nel ’700 di un’informazione non legata direttamente alle corti e all’aristocrazia)5, incarna un discorso del singolo, che possa adattarsi a qualunque argomento, che rifletta criticamente sulla cronaca, la politica, la letteratura, i costumi, ma non si appella all’autorità dei generi letterari codificati né a costrizioni sociali. All’opposto, il saggio si fonda sulla separazione e sulla singolarità dell’io che scrive, il quale diviene riferimento di ogni valutazione, e finisce per rifiutare, con il noto giudizio di Adorno, ogni punto di vista che non sia strettamente personale6. È proprio Adorno a far discendere da questa libertà individuale concessa all’autore alcune caratteristiche ancora attuali della forma del saggio, legate al suo contenuto veridico:

1 Franco Arminio, Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia [2008], Laterza, Roma-Bari 2012, p. 97. 2 Franco Arminio, Circo dell’ipocondria, cit., p. 13.

3 Gianni Celati, Avventure in Africa [1997] in Romanzi, cronache e racconti, cit., p. 1131.

4 «Il saggio parla sempre di qualcosa che è già formato o almeno di qualcosa che è già esistito una volta, è proprio della sua essenza non ricavare novità dal nulla ma dare nuovo ordine alle cose già esistite. Proprio perché le mette in un ordine nuovo esso non plasma qualcosa di nuovo dall’informe, è legato ad esse e deve sempre dire “la verità” sul loro conto, trovare un’espressione per la loro essenza», György Lukács, L’anima e le forme. Teoria del romanzo [1911], Sugarco, Milano 1963, p. 34.

5 «È comunque il Settecento il secolo in cui la forma saggistica dispiega tutte le sue potenzialità. La nascita del giornalismo e dell’”opinione pubblica”, i compiti politico-pedagogici della filosofia e delle scienze, la curiosità enciclopedica e il nomadismo più o meno forzato dei philosophes in conflitto con i centri di potere tradizionali rappresentati dall’aristocrazia cortigiana e dal clero: tutto questo favorisce il genere saggistico sopra tutti gli altri per la sua efficacia, mobilità e duttilità», Alfonso Berardinelli, La forma del saggio, cit., p. 22.

6 «Al saggio si rimprovera mancanza di ubi consistam e relativismo perché esso non accetta alcun punto di vista esterno», Theodor W. Adorno, Il saggio come forma in Note per la letteratura 1943-1961, Einaudi, Torino 1979, p. 24.

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disinvoltura metodologica1, capacità autocritica (vale a dire, il saggio può mettere costantemente in discussione il suo stesso andamento e il rapporto che il saggista istituisce con il suo argomento)2, vocazione oppositiva e perfino polemica (a un contesto sociale, a una repressione politica, a una moda culturale), colloquialità, a-sistematicità (come in una conversazione fra sé e sé, o con una cerchia ristretta di destinatari), dimensione frammentaria e incompletezza del dettato, che non per forza si risolve nella quiescenza di un approdo teorico, tanto meno di un finale. Come si vede, quelli esposti da Adorno sono attributi che definiscono una materia fluida e rifiutano qualsiasi prescrizione d’argomento, ma al tempo stesso impediscono di sovrapporre il saggio ad altri strumenti espressivi contigui. È complesso definire, prima di tutto, quanto il saggio tolleri un impianto narrativo e in che misura, di conseguenza, abbia a che fare con il romanzo e l’autobiografia. Gli spunti narrativi (da Montaigne almeno) sono ampiamente accettati, se si usano per innescare la riflessione del saggista, oppure per fungere da esempi che rafforzino la logica del discorso: il procedimento non è qualitativamente diverso da quando in un saggio si cita una fonte letteraria o filosofica per garantire, evocando un’autorità esterna, la validità di una propria affermazione. Ma se la narrazione da spunto diviene il centro del discorso, prevale un resoconto autobiografico: la voce autoriale vede ridotto il proprio margine di movimento, costretta a concentrarsi su una storia ben definita, e si perde di fatto il principio argomentativo e non sistematico del saggio, per il quale la narrazione è un utile supporto, ma non è un membro indispensabile. Se dalla demarcazione fra due categorie vaste (riflessione e narrazione) ci spostiamo sul terreno dei generi (saggio, romanzo, autobiografia), si possono tracciare altre linee di separazione, a partire dall’archetipo discusso della forma del saggio moderno, i Saggi di Montaigne. Nell’avvertenza Al lettore, Montaigne illustra bene i principi elencati, sottolineando l’unicità del saggio rispetto sia alla fiction sia all’autobiografia:

Questo, lettore, è un libro sincero. Ti avverte fin dall’inizio che non mi sono proposto con esso alcun fine, se non domestico e privato. Non ho tenuto in alcuna considerazione né il tuo vantaggio né la mia gloria. Le mie forze non sono sufficienti per un tale proposito. L’ho dedicato alla privata utilità dei miei parenti e amici: affinché dopo avermi perduto (come toccherà loro ben presto) possano ritrovarvi alcuni tratti delle mie qualità e dei miei umori, e con questo mezzo nutrano più intera e viva la coscienza che hanno avuto di me. Se lo avessi scritto per procacciarmi il favore della gente, mi sarei adornato meglio e mi presenterei con atteggiamento studiato. Voglio che mi si veda qui nel mio modo d’essere semplice, naturale e consueto,

1 «Nel saggio vengono fusi con il contenuto di verità anche i passaggi scandalosi della retorica, dove l’associazione, la polivalenza dei termini, l’omissione della sintesi logica rendevano facile il compito dell’ascoltatore e lo indebolivano per poi assoggettarlo ai voleri dell’oratore», Ivi, pp. 27-28.

2 «Il saggio infatti non procede alla cieca, da automa, come invece fa il pensiero discorsivo, ma deve a ogni istante riflettere su se stesso. E non riflette certo solo sul rapporto che lo lega al pensiero stabilizzato, ma anche sul rapporto tra se stesso, la retorica e la comunicazione», Ivi, p. 29.

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senza affettazione né artificio: perché è me stesso che dipingo. Si leggeranno qui i miei difetti presi sul vivo e la mia immagine naturale, per quanto me l’ha permesso il rispetto pubblico1.

Dal saggio sono separati, per cominciare, i testi d’invenzione, romanzi o racconti brevi che siano, perché dove c’è una riconoscibile finzione di eventi, persone, ambienti, non può esserci l’attendibilità storica. Ma anche l’autobiografia moderna, che ha in comune con il saggio almeno, a riprendere la citazione di Montaigne, l’intenzionalità storica, il patto di sincerità e la presenza ingombrante di un autore che fa dell’osservazione di sé uno degli oggetti principali del discorso («Così, lettore, sono io stesso la materia del mio libro»)2, è a uno sguardo approfondito lontana dal saggio. Difatti, rispetto a esso, rivendica una fisionomia unitaria e retrospettiva, uno svolgimento di vicende concrete e definite dallo scorrere del tempo. Una scansione narrativa si coniuga al saggio solo a prezzo di ricomporne la frammentarietà, e peggio si concilia con la premessa costitutiva dell’autobiografia, cioè la scelta di osservare il proprio passato a partire dal presente (spesso, a dire il vero, indefinito e offuscato dal cammino a ritroso della memoria) di chi si è messo a scrivere e riferire degli eventi della propria esistenza incanalandoli in una forma; laddove invece, argomenta persuasivamente Raffaele Manica, «il saggio è forma in movimento, forma che trova se stessa nel movimento, dunque, perché non dimostra tesi, ma procede per forza argomentativa o suggestiva: […] si qualifica esattamente come esperienza della forma che cerca una forma»3. L’io autoriale nel saggio è una materia strumentale per esercitare un giudizio sul mondo, e non l’argomento principale: nei Saggi, d’altronde, il contenuto autobiografico proposto da Montaigne è discontinuo, fornito per accenni, sempre propedeutico a riflessioni di taglio generale.

Sono le differenze sostanziali fra romanzo, saggio, autobiografia (senza dimenticare la scrittura in versi) a incoraggiarne le interazioni sin dai primordi nel ‘700, quando trovano un forte sviluppo i

contes philosophiques, le polemiche in versi, le satire sociali, e i romanzi nascono tenendo fede a

un’inclinazione riflessiva e divagante (come quelli degli illuministi, Voltaire, Diderot, Rousseau, o, in un caso estremo e parodistico, Sterne)4. Saggio e narrazione procedono strettamente legati nel corso degli ultimi due secoli, portando a nuove fisionomie. Quando i personaggi romanzeschi, a cavallo fra l‘800 e il ‘900, incorrono nella disgregazione di un’identità narrativa fissa e unitaria5, e lo svolgimento delle vicende è fortemente alterato dall’inserzione di un cospicuo elemento di

1 Michel de Montaigne, Saggi, a cura di Fausta Garavini e André Tournon, Bompiani, Milano 2014, p. 3. 2 Ibidem.

3 Raffaele Manica, Stili di lettura in Exit Novecento, Gaffi, Roma 2007, p. 34.

4 «Si può dire che nel Settecento il saggio tenda a inglobare perfino i generi più consolidati e più nobili (come la poesia: poemetti satirici, descrittivi, filosofici), o il genere moderno per eccellenza, con tutta la sua freschezza e vitalità: e cioè la narrazione romanzesca (è una tendenza ben chiara sia in Defoe che in Swift e Sterne, sia in Diderot che in Rousseau)», Alfonso Berardinelli, La forma del saggio, cit., p. 22.

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riflessione saggistica, siamo di fronte a una forma simbolica della crisi della modernità, che è stata definita «romanzo-saggio»1 e annovera fra i suoi esempi, per abbracciare un arco temporale ampio, libri come A ritroso di Huysmans, L’uomo senza qualità di Musil, Doktor Faustus di Mann. Nel romanzo-saggio il tempo dell’azione è rallentato all’estremo per concedere lo spazio prevalente alla riflessione saggistica2, che d’altra parte non è, spesso, rivendicata da un autore-narratore- personaggio (come nel saggio vero e proprio), ma è delegata a personaggi immaginari o alla voce di un narratore in terza persona. Il saggio è quindi la forma che viene impiantata nell’architettura del romanzo, senza disattenderne i presupposti finzionali; un’operazione analoga a quanto succede in certa autobiografia novecentesca, in cui al racconto degli eventi subentra la loro analisi (avviene ad esempio, secondo Ricoeur che parla per il ’900 di «eclissi del personaggio», nell’autobiografia di Leiris3; oppure nelle Parole di Sartre). Nel panorama non finzionale odierno, invece, si parte dal saggio, che viene sottoposto a una tensione narrativa presa a prestito dalla fiction, a un’impostazione della voce rubata all’autobiografia. Il racconto dei fatti fornisce al saggio una traccia da seguire, gli conferisce un’ipotesi di unitarietà che non ne preclude la natura frammentaria, portando così a testi non finzionali che sono stati definiti, ed è l’etichetta provvisoria che si adotta qui, saggi narrativi4.

Il saggio narrativo si pone così su un altro piano rispetto al romanzo-saggio: sebbene i due elementi dell’operazione siano simili, l’ordine dei fattori è mutato, con delle implicazioni sul tempo della narrazione, sulla coesione interna e sull’identità del saggista. Se il romanzo-saggio è una narrazione

1 «Il romanzo-saggio presenta la fusione organica di due forme distinte, il romanzo e il saggio. Emerse come genere in Francia, nell’ultimo quarto del diciannovesimo secolo, e raggiunse il suo picco di complessità formale in Austria e in Germania, nel periodo fra le due guerre. Inquadro l’emergere del romanzo-saggio entro la crisi ideologica che ricadde sull’apparato epistemologico e simbolico della modernità negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo, e che culminò in seguito con i disastri della Prima guerra mondiale e poi della Seconda. In questo senso, nella mia teoria il romanzo- saggio è la forma simbolica della crisi della modernità», Stefano Ercolino, The Novel-Essay, cit, XV.

2 «Rifletto perciò sull’effetto fondamentale prodotto dall’inserzione del saggio nel romanzo, che consiste in un drastico rallentamento del tempo narrativo», Ivi, XVII.

3 «Per precisare la posta in gioco filosofica di una siffatta eclissi dell’identità del personaggio, è importante sottolineare che, a misura che il racconto si avvicina al punto di annullamento del personaggio, il romanzo perde anche le sue qualità propriamente narrative, sia pur interpretate, come poc’anzi, nel modo più flessibile e dialettico. Alla perdita di identità del personaggio corrisponde, così, la perdita di configurazione del racconto e in particolare una crisi della chiusura del racconto […] la decomposizione della forma narrativa, parallela alla perdita di identità del personaggio, fa oltrepassare i limiti del racconto e attrae l’opera letteraria nelle vicinanze del saggio. E non è un caso se numerose autobiografie contemporanee, quella di Leiris per esempio, deliberatamente si allontanano dalla forma narrativa e vanno a raggiungere, anche esse, il genere letterario che è meno configurato, e cioè precisamente il saggio», Paul Ricoeur, Sé

come un altro [1990], Jaca Book, Milano 1996, p. 241, Sesto studio. Il sé e l’identità narrativa.

4 «non possiamo che salutare l’arrivo di un nuovo genere di saggio narrativo o, meglio, il ritorno alla giocosità enciclopedica di Diderot o Montaigne. Il romanzo può dare il benvenuto a queste innovazioni senza sentirsi minacciato», Salman Rushdie, In difesa del romanzo, ancora una volta, cit., p. 68. Rushdie risponde ad alcune posizioni di George Steiner e V. S. Naipaul, che teorizzavano a fine anni Novanta «la morte del Romanzo, alla quale il professor Steiner aggiunge, per sicurezza, la morte (o almeno la radicale trasformazione) del Lettore», In difesa del romanzo, cit., p. 64. A giudicare dagli esempi portati, Rushdie intende però per saggio narrativo una nebulosa che include il

reportage, lo studio letterario, il saggio vero e proprio, poiché cita come esempi Il negus di Kapuścinsky, Danubio di

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d’invenzione resa “espansa” dalla meditazione e sparpagliata nei suoi spunti saggistici, il saggio narrativo limita le divagazioni perché le pone al servizio del racconto di alcuni fatti, scongiurando l’eccentricità del romanzo-saggio; come il primo è portato a debordare, il secondo tende a partire da spunti concreti e a essi tornare. Inoltre, mentre il romanzo-saggio vede di solito un personaggio principale separato dal contesto sociale e costretto a un confronto polemico e negativo con il proprio tempo1, nel saggio narrativo il confronto del saggista con il mondo esterno assume le fattezze di un colloquio, di un confronto concreto e più affabile, dato che il protagonista e gli oggetti del suo discorso (spesso personaggi reali a loro volta, o testi, nel caso della rielaborazione, preponderante per l’Italia, del saggio di critica letteraria)2 interagiscono nella storia. Il saggista narrativo è inoltre l’attore principale della vicenda e si mostra una personalità dalla coscienza labile ma non disgregata, di modo che lo studio critico incrocia obliquamente l’autobiografia, senza distendersi in essa. Lo spazio maggiore se lo prende la riflessione e la materia di racconto rimane minoritaria. Per tale ragione, è difficile definire il recente La scuola cattolica (2016) di Edoardo Albinati un saggio narrativo, per molteplici motivi. La dimensione riflessiva è calata nell’andirvieni temporale delle diverse età dell’autore-protagonista: La scuola cattolica si concede la riflessione filosofica e sociologica per indagare i rapporti mutati fra eros e civiltà negli anni ’70 e cercare le motivazioni degli autori del delitto del Circeo, compiuto da compagni di scuola. Ma non si può dire che il testo veda la netta presenza di una voce saggistica, né che abbia il carattere complessivamente dispersivo del saggio narrativo: anche le digressioni più lunghe o servono da supporto al fluire dei ricordi d’infanzia e d’adolescenza3, o vengono spezzate, come nei passi sul delitto del Circeo, da spiegazioni tentate dal narratore4 (lunghe qualche decina di pagine, su un testo che ne conta 1294).

La scuola cattolica non ha un impianto di saggio: è anzitutto un romanzo della memoria5 senza una

1 «Troppo tempestivo e troppo polemico, dominato dal demone della meditazione e da quello del presente effimero, schiavo dell’occasione e libero di divagare, il saggista, incapace di creare un altro tempo rispetto al tempo storico e al tempo della vita quotidiana, non ha riparo. Non può evadere né fortificarsi dentro la trascendenza della forma artistica. Non può fluire in un racconto né sollevarsi nel canto. Rispetto a quella del narratore e del poeta lirico, la sua ispirazione è sussultoria, incostante, disorganica. Se si oppone al mondo sociale in cui vive, non può farlo felicemente e liberamente: ne subisce di più l’ossessione, proprio perché crede di sfidarla e combatterla», Alfonso Berardinelli, La

forma del saggio, cit., p. 18.

2 È chiaro che ci sono anche eccezioni, come Scienza e sentimento (2009) di Antonio Pascale: il suo discorso s’incentra sui pregiudizi antiscientifici e passatisti dell’agricoltura contemporanea (Pascale ha una formazione da agronomo), dimostrando i ragionamenti con esempi autobiografici, disposti per di più in una sequenza lineare che va dall’infanzia alla formazione universitaria, per chiudersi sull’età adulta.

3 V. il capitolo sulla famiglia borghese, incentrato sulla famiglia particolare di Albinati: Edoardo Albinati, La scuola

cattolica, Rizzoli, Milano 2016, pp. 409-433.

4 V. per esempio i capitoli sulle parentele tra stupro e sessualità maschile: Ivi, pp. 847-910, 922-949, 991-1003.

5 Albinati stesso lo definisce un romanzo, con i dovuti distinguo: «Com’è tutto casuale! Nessuna letteratura mai saprà restituire questa casualità. E anche se sapesse farlo, non vorrebbe! Non vuole! Un romanzo è l’esatto contrario del caos, è il nemico naturale del disordine», Ivi, p. 333.

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fascinazione particolare per l’autenticità1, nonostante la prima persona di un autore coincidente col protagonista che cerca di mettere ordine nei ricordi, diffida del supporto documentario (in questo, a dire il vero, simile ai testi che ci riguardano):

Sono anni che mi riprometto di fare un sopralluogo alla casa del Ddc [delitto del Circeo]. Esito, rimando. Dubito che sia utile, che sia utile, cioè, il puntiglio, per poter dire “Io ci sono stato”, “Io ho visto”. L’esperienza diretta mi serve di più quando è involontaria, casuale … e i miei occhi vedono meglio quando non sono obbligati a osservare2.

Infine, il discorso della Scuola cattolica tiene in equilibrio precario le molte storie parallele convocate3 (dei compagni di classe, di Arbus, degli assassini del Circeo, del professor Cosmo) e non dà l’impressione di un rallentamento, o perfino un arresto, del tempo del racconto: se volessimo fare un paragone più appropriato, il modello a cui Albinati sembra guardare, con un di più di autobiografia non camuffata, è la narrazione memoriale, concentrica e introspettiva della Recherche di Proust (che è controverso definire romanzo-saggio)4.

Tornando al saggio narrativo di argomento critico-letterario e a chi lo abita, potremmo parlare di un critico-personaggio, sulla suggestione del «personaggio-uomo» di Giacomo Debenedetti, che nella

Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo indica due caratteristiche del personaggio

distintivo della narrativa modernista del primo Novecento (Proust, Svevo, Joyce, Pirandello, e altri.).

Chiamo personaggio-uomo quell’alter ego, nemico o vicario, che in decine di migliaia di esemplari tutti diversi tra loro, ci viene incontro dai romanzi e adesso anche dai film. Si dice che la sua professione sia quella di risponderci, ma molto più spesso siamo noi i citati a rispondergli. Se gli chiediamo di farsi conoscere, come capita coi poliziotti in borghese, gira il risvolto della giubba, esibisce la placca dove sta scritta la più capitale delle sue funzioni, che è insieme il suo motto araldico: si tratta anche di te. Allora non c’è più scampo, bisogna lasciare che si intrometta5.

1 «Il suo andamento [della storia raccontata nella Scuola cattolica] corrisponde a una verità dei fatti che non posso modificare anche se è assurda. Meno che mai posso modificare le parti che mi sono inventato io. Quali sono? mi chiederete: quelle che suonano meno assurde», Ivi, p. 1069.

2 «Sono anni che mi riprometto di fare un sopralluogo alla casa del Ddc [delitto del Circeo]. Esito, rimando. Dubito che sia utile, che sia utile, cioè, il puntiglio, per poter dire “Io ci sono stato”, “Io ho visto”. L’esperienza diretta mi serve di più quando è involontaria, casuale … e i miei occhi vedono meglio quando non sono obbligati a osservare», Ivi, p. 829. 3 «in questo libro la storia principale quasi non si vede: le è cresciuta intorno la foresta dei dove, dei quando, dei come se, degli intanto, e i suoi protagonisti sono diventati non più i ragazzi al centro della triste vicenda, ma molti altri ragazzi non meno protagonisti, e le loro madri, e le loro sorelle», Ivi, p. 1068.

4 Sulla difficoltà di ricondurre la Recherche di Proust al romanzo-saggio, v. Stefano Ercolino, The Novel-Essay, cit., pp. 97-101.

5 Giacomo Debenedetti, Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo [1965] in Il personaggio-uomo, Garzanti, Milano 1988, p. 11.

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Con una lieve forzatura, il critico-personaggio assume su di sé le caratteristiche del personaggio- uomo, ma nel contesto di un racconto per così dire storico, dove l’io dell’autore, il narratore e il