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Storiografie parallele. Uno studio della non-fiction italiana

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Filologia, letteratura e linguistica

Tesi di dottorato

Ciclo XXIX – A. A. 2013/2014

Storiografie parallele. Uno studio della non-fiction italiana

Tutori

Prof. Raffaele DONNARUMMA Prof. Alberto CASADEI

Candidato Lorenzo Marchese

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1. Una distinzione da tenere, una da superare

Lo scopo di questo studio è effettuare una ricognizione critica delle scritture in prosa non d’invenzione nella letteratura italiana degli ultimi, all’incirca, venticinque anni, che vengono solitamente riassunte, in Italia e all’estero, sotto l’etichetta pseudoconcettuale di non-fiction. La distinzione fra fiction e non-fiction è ormai generalmente accettata nel linguaggio comune della critica per separare le narrazioni della storia e quelle della letteratura d’invenzione in base al criterio di «intenzionalità storica»1: per cominciare, va spiegata la ragione di questa divisione sommaria, che sul piano teorico potremmo definire parzialmente necessaria, ma insufficiente e in qualche misura da congedare, per definire il nostro oggetto di studio.

In linea teorica, per essere brevi, non sarebbe possibile separare un racconto d’invenzione da uno storico in base a elementi formali e scelte stilistiche, come ha precisato Searle ragionando dello statuto logico del discorso di finzione:

se un’opera sia o no letteratura, sta al lettore deciderlo, se sia o no finzione [fiction], sta all’autore deciderlo. […] Ciò che la rende un’opera di finzione è, per così dire, la posizione illocutoria [illocutionary stance] che l’autore prende rispetto a essa, e quella posizione è un aspetto delle complesse intenzioni illocutorie che l’autore assume quando scrive l’opera, oppure quando la concepisce2.

Dato che manca una «proprietà testuale, sintattica o semantica che possa identificare il testo come finzionale»3, si può parlare nella stessa identica maniera di persone, fatti, vicende che siano realmente avvenute o meno? Tecnicamente sì: eppure, la posizione di Searle, che resta valida di fronte alle singole proposizioni, ha una tenuta più debole se applicata a sistemi complessi e mutevoli come le singole opere, e ancor più se estesa ai generi cui le opere appartengono. Ci sono alcuni caratteri provvisori, validi entro il periodo della modernità (dal ‘700 in poi) in cui il paradigma storico s’impone, per distinguere un testo non finzionale da uno finzionale. Dorrit Cohn, esaminando proprio il passo di Searle, menziona il più immediato, cioè l’impossibilità per lo storico di accedere alla vita interiore dei suoi personaggi, a meno di non essere accusato di una disinvoltura eccessiva e di attribuire ad altre persone reali suoi pensieri4. E ancora, si potrebbero menzionare disordinatamente altri criteri formali che di solito contraddistinguono un testo storico:

1 Paul Ricoeur, Tempo e racconto, I, Jaca Book, Milano 1986 [1983], p. 263.

2 John Searle, The Logical Status of Fictional Discourse in «The New Literary History», 6.2, 1975, p. 317. 3 Ivi, p. 327.

4 Dorrit Cohn, The Distinction of Fiction, The Johns Hopkins University Press, Baltimora-Londra 1999, p. 17 (ma v. tutto il capitolo Signposts of Fictionality, pp. 109-131). Sull’ argomento, utile della stessa autrice anche Transparent

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uso massiccio e retorica del documento, posizione della voce narrante (che può essere neutrale e “sopra le parti”, come quella dello storico che ricostruisce eventi avvenuti molto tempo prima; oppure quella di un testimone, che ha una cognizione limitata degli eventi; in ogni caso, mai quella di un narratore onnisciente o capace di leggere nella psiche altrui), patto di lettura fondato sulla veridicità, coincidenza di autore reale e narratore.

Perché scegliere di tenere per buona l’esistenza di una serie di criteri distintivi del discorso storico, nonostante l’apparente impossibilità di separarlo da quello di finzione? Il fatto che il romanzo si serva di questi criteri per darsi una maggiore efficacia comunicativa, vedremo in seguito, presuppone proprio che una separazione in linea di principio si dia, anche solo per essere forzata. Inoltre, i testi non finzionali oggetto di questo studio partono spesso da questi criteri formali, per distanziarsene e porsi così in una direzione divergente rispetto a un discorso storiografico “canonico”, il che li rende deontologicamente scorretti e al contempo di estremo interesse. Risalendo nella cronologia, d’altronde, proprio la strategia di sovrapporre il piano della finzione e quello di una trascrizione diretta della realtà prova che sulla differenza (indubbia) fra realmente accaduto e frutto dell’immaginazione il romanzo ha costruito le sue fondamenta: confondere i piani è una possibilità di cui i romanzieri moderni, dal ‘700 in poi (senza contare esempi eccezionali precedenti come il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, 1605-1615), si sono serviti spesso, tramite gli espedienti dei manoscritti d’epoca ritrovati, dei documenti “tradotti” in realtà ricostruiti in laboratorio e spacciati per veri, degli epistolari casualmente rinvenuti e resi di pubblico interesse1. Si attua dunque uno spostamento del romanzo «in direzione dello hic et nunc»2 e la verità espressa dall’autore non è più di ordine morale, religioso o più genericamente ideale, ma per prima cosa «coincide ora con la conformità all’osservazione empirica»3, generando, per via del nuovo sforzo mimetico verso la vita comune e personaggi non più tipizzati ma sempre più verosimili, una difficoltà accresciuta nei lettori a distinguere verità e menzogna, e comportando una consapevole alterazione dell’identità del genere. Come ha notato Siti «il romanzo è, tra tutti i generi letterari, l’unico che sente il bisogno di rinnegare se stesso. Il Settecento, che è il secolo in cui il

1 Sull’illusione di veridicità del romanzo, in particolar modo di quello settecentesco, v. il classico studio sul novel di Ian Watt, Le origini del romanzo borghese. Studi su Defoe, Richardson e Fielding, Bompiani, Milano 2002 [1957]. Più di recente, utile l’approccio della prima parte di Barbara Foley, Telling the Truth. The Theory and Practice of

Documentary Fiction, Cornell University Press, Ithaca 1986, pp. 9-184: Foley ricostruisce accuratamente il passaggio

da una tipologia di romanzo, nel ‘700, «pseudofattuale» e fondata sull’invenzione dell’autenticità, a una tipologia ottocentesca in cui il modo paradigmatico è quello del romanzo storico, calato in un mondo di finzione ricostruito con più esattezza e verosimiglianza ma meno ambiguo nell’uso speciosamente storico del discorso rispetto al suo antenato del secolo precedente.

2 Thomas Pavel, Le vite del romanzo (a cura di Massimo Rizzante) [2013], Mimesis, Milano-Udine 2015, p. 27. Corsivo nel testo originale.

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genere si consolida, è pieno di romanzi che negano di esserlo»1: dicendo di essere altro da sé, il romanzo conferma l’esistenza di un repertorio storiografico da cui rubare, con un ventaglio di soluzioni che iniziano col «romanzo pseudofattuale» (ancora Foley, che pensa soprattutto a Defoe) del primo ‘700, che imita i linguaggi dell’autobiografia e del libro di memorie negando il proprio carattere fittizio.

Di questa distinzione aletica dei discorsi fanno fede, con l’inizio dell’800, tanto i (con Manzoni) componimenti misti di storia e d’invenzione, cioè i romanzi storici in cui possono coesistere e ineragire Renzo Tramaglino e il cardinale Borromeo, Pierre Bezuchov e Napoleone (benché non siano trattati esattamente allo stesso modo)2, quanto i romanzi autobiografici3, che applicano forme di narrazione storica (diario, mémoire, autobiografia) a personaggi di dichiarata invenzione – e si differenziano perciò dai precedenti romanzi pseudofattuali. Nonostante gli incroci messi in pratica, dunque, i due campi di storia e racconto d’invenzione non arrivano a sovrapporsi e ad annullarsi. Le eccezioni, in cui una narrazione che appare in tutto e per tutto storica per le sue caratteristiche formali rivela un contenuto d’invenzione, sono molto rare e indicano la coerenza di un tentativo paradossale che appartiene alla contemporaneità stretta: dall’esempio per certi versi anticipatore delle Vite immaginarie (1896) di Marchel Schwob, che lega in uno stesso discorso le biografie di personaggi noti come Paolo Uccello e il filosofo Empedocle con la vita di Katherine, un’anonima merlettaia del ‘400, fino alla raccolta di cronache romanzate, sulla base di una scrupolosa ricostruzione d’archivio su modi di vita ed episodi notevoli del ‘700 francese, di Robert Darnton in

Il grande massacro dei gatti e altri episodi della storia culturale francese (1984), tenendo

all’estremo ingannevole la finta biografia di Andrew Marbot da parte di Wolfgang Hildesheimer (Marbot, 1982), in cui l’autore ricostruisce la vita di un giovane critico d’arte del primo Romanticismo inglese attraverso un fitto lavoro documentario, salvo confessare poi, in una risposta a una recensione del volume, di avere inventato ex novo questa figura, fino ai dettagli delle citazioni dai suoi diari e dalle lettere4.

Un diverso statuto di verità presiede ai due tipi di discorso e dipende, per l’appunto, dalla disponibilità dell’autore a sottoporre l’insieme del suo discorso a dei riscontri puntuali, a garantire

1 Walter Siti, Il romanzo sotto accusa in Il romanzo. La cultura del romanzo, I, a cura di Franco Moretti, Einaudi, Torino 2001, p. 131.

2 Per una panoramica nazionale si rimanda a Margherita Ganeri, Il romanzo storico in Italia. Il dibattito critico dalle

origini al post-moderno, Manni, Lecce 1999; per un inquadramento teorico del romanzo storico, v. invece Joseph W.

Turner, The Kinds of Historical Fiction. An Essay in Definition and Methodology in «Genre», 12, 1979.

3 V. su questo Cesare Grisi, Il romanzo autobiografico. Un genere letterario tra opera e autore, Carocci, Roma 2011, e relativa bibliografia.

4 Ha riflettuto sull’opera come esempio di rottura delle convenzioni che separano una biografia vera da una inventata Dorrit Cohn, The Distinction of Fiction, cit., cap. 5 (Breaking the Code of Fictional Biography. Wolfgang

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la verità empirica degli eventi narrati. Se i fatti narrati dallo storico non sono verificabili, il senso del suo lavoro crolla e il suo discorso si qualifica come menzognero, le sue argomentazioni perdono di valore: nei romanzi, viceversa, la garanzia di veridicità su fatti realmente accaduti è uno strumento retorico fra i tanti possibili, che può portare a un illusionistico sfondamento della quarta parete, o al più a un paradosso di credibilità che spiazza il lettore (“ciò che racconto è vero e insieme non lo è, in modo sia da cautelarmi contro le persone reali di cui rivelo aspetti, sia per avere un ampio margine di libertà nel rielaborare le vicende reali”), come nel caso recente dell’autofiction1. Nonostante racconto storico e d’invenzione non siano separate, teoricamente, dai contenuti2, né per gli aspetti che riguardano l’intramazione3, cioè, secondo Hayden White, la selezione e la messa in intreccio, resta vero che questa intramazione nella scrittura storiografica si può basare esclusivamente su testimonianze scritte e orali e su documenti d’archivio, e deve mostrare il più possibile di rispettarli: «se nel racconto narrativo la fabula è una pura ipotesi rispetto all’intreccio, nel racconto storiografico l’intreccio è un’ipotesi sulla realtà della fabula»4. L’apparente somiglianza dei due discorsi finisce, in White, per decostruire la credibilità della storiografia parificandola ai prodotti dell’immaginazione5: è una slogatura logica su cui in Italia Arnaldo Momigliano e Carlo Ginzburg hanno discusso a lungo6, in difesa di una concezione della disciplina storiografica quale avvicinamento il più fedele ed esaustivo possibile alla verità di ciò che è accaduto, contro il rischio di una pratica che abolisce il principio di verità e fornisce un’involontaria giustificazione teorica alle derive dei revisionismi e dei negazionismi storici, da Faurisson in giù.

1 Walter Siti, Il realismo è l’impossibile, nottetempo, Roma 2013; Raffaele Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la

narrativa contemporanea, Il Mulino, Bologna 2014, pp. 129-134; Raffaello Palumbo Mosca, L’invenzione del vero. Romanzi ibridi e discorso etico nell’Italia contemporanea, Gaffi, Roma 2014, pp. 133-146 (ma della categoria di

autofiction l’autore non si serve, preferendo una perifrasi semanticamente più ampia di «racconto […] che sfrutta il modello autobiografico», p. 148); Lorenzo Marchese, L’io possibile. L’autofiction come paradosso del romanzo

contemporaneo, Transeuropa, Massa 2014, alla cui bibliografia critica (in calce ai capp. 2-3) si rimanda.

2 Chiaramente, quali eccezioni primarie, ci sono le narrazioni, dal mito classico in poi, che riportano episodi meravigliosi e impossibili da ritrovare nella realtà. C’è una linea di tendenza eterogenea nella storia della letteratura che dalla verosimiglianza possibile si è affrancata e ha costruito così buona parte della sua efficacia, a seconda delle varie declinazioni storiche: dall’epica classica al poema cavalleresco, per arrivare fino alla sospensione del senso di realtà propria della letteratura fantastica moderna, nonché al ramo parallelo della fantascienza e delle distopie. Sul fantastico inteso quale modo narrativo a se stante, Tzvetan Todorov, Introduction à la littérature fantastique, Seuil, Parigi 1970; Remo Ceserani (a cura di), La narrazione fantastica, Nistri-Lischi, Pisa 1983 (al volume di Todorov i saggi contenuti muovono obiezioni e propongono approfondimenti di campo); Rosalba Campra, Territori della finzione. Il fantastico in

letteratura, Carocci, Roma 2000.

3 Col termine “intramazione” Daniela Carpi rende il neologismo emplotment di Hayden White, Storia e narrazione, Longo, Ravenna 1999.

4 Raffaele Donnarumma, Ipermodernità, cit., p. 232.

5 È la conclusione a cui White arriva in Idem, Retorica e storia, Guida, Napoli 1978: sulla scia di una posizione di Roland Barthes (Le discours de l’histoire [1967] in Le bruissement de la langue, Seuil, Parigi 1984), White sostiene che i fatti non possiedono che un’esistenza linguistica. Estremizzando il ragionamento, l’evidenza di un fatto storico può essere negata o, al contrario, manipolata in base alla sua efficacia retorica, prescindendo dal controllo dei dati.

6 Arnaldo Momigliano, La retorica della storia e la storia della retorica. Sui tropi di Hayden White [1981] in Sui

fondamenti della storia antica, Einaudi, Torino 1984; Carlo Ginzburg, Unus testis. Lo sterminio degli ebrei e il principio di realtà in Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Feltrinelli, Milano 2006.

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Il punto di distacco, sebbene si possa individuare in una serie di criteri provvisori, parte insomma da un principio filosofico e non retorico1 che si prende qui per argomento di base di tutto il lavoro. Implicitamente, è ancora ricalcato sulla celebre formula che Aristotele propose ventiquattro secoli fa in un passaggio della Poetica, per separare il compito del poeta da quello dello storico:

Da quanto si è detto risulta chiaro che compito del poeta non è dire ciò che è avvenuto ma ciò che potrebbe avvenire, vale a dire ciò che è possibile secondo verosimiglianza o necessità. Lo storico e il poeta non differiscono tra loro per il fatto di esprimersi in versi o in prosa – si potrebbero mettere in versi le storie di Erodoto, e in versi come in prosa resterebbero comunque storia –, ma differiscono in quanto uno dice le cose accadute e l’altro quelle che potrebbero accadere. Per questo motivo la poesia si occupa piuttosto dell’universale, mentre la storia racconta i particolari2.

La lettura aristotelica resta capitale per un primo orientamento che separi un modo di raccontare concreto, disorganico e particolare (che noi chiamiamo oggi storiografia, in modo non pacifico: Aristotele non usò un termine per esprimere questo concetto, parlando dello «storico») da uno astraente, organico e generale («poesia», perché Aristotele, come si sa, non aveva un termine per definire ciò che noi chiamiamo “letteratura”). Possiamo distinguervi, in un panorama stilizzato, da una parte una tipologia di narrazioni tendenzialmente aletiche e dimostrative, dall’altra una tipologia dove ci si propone di trasmettere una verità non empirica né documentale, regolata principalmente da convenzioni descrittive. Così, per fare un esempio, nel Novecento la tesi di Aristotele viene rielaborata nella filosofia analitica da John L. Austin, che ha parlato da una parte di «convenzioni descrittive» (che per lui «correlano le parole con i tipi di situazioni, cose, eventi […] che si trovano nel mondo») e dall’altra di «convenzioni dimostrative» (che «correlano le parole con le situazioni storiche […] che si trovano nel mondo»)3.

Un’ulteriore, doppia precisazione è d’obbligo su quanto scrive Aristotele. Anzitutto, il suo ragionamento non ricopre per intero né esaurisce il territorio del racconto una volta per sempre, ma si limita ad analizzarne alcune convenzioni comunicative. Anche per lui la letteratura può occuparsi di realtà particolari e di eventi avvenuti: non si spiegherebbe, altrimenti, l’esistenza di tragedie di argomento storico, come i Persiani di Eschilo, che verosimilmente Aristotele conosceva. Lo scarto rispetto alla storiografia sta nel “come” gli eventi particolari vengono rielaborati entro una

1 Sintetizza Dorrit Cohn che la fiction «non è un problema di quantità ma di qualità», The Distinction of Fiction, cit., p. 35. In sostanza, per Cohn fiction e non-fiction (Cohn non si propone di ridiscutere a fondo la tenuta concettuale di questi due macroinsiemi contrapposti) differiscono nel momento in cui la non-fiction è sottoponibile a un giudizio di verità o menzogna (Ivi, p. 15).

2 Aristotele, Poetica (traduzione e introduzione di G. Paduano), Laterza, Roma-Bari 1998, 1451a 36-38, 1451b 1-7. 3 John L. Austin, La verità [1950] in Saggi filosofici (a cura di P. Leonardi), Guerini e associati, Milano 1990, p. 113.

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narrazione verosimile e generale, più raramente nel “cosa”1. Persino la presenza di elementi favolistici o inverosimili, in una parte della storiografia antica, non impedisce a rigore una sua squalifica come genere, se teniamo presente che nella letteratura greca antica vige ancora un regime di realtà più allargato rispetto a quello che noi lettori nati nel ‘900 siamo disposti a tollerare per mantenere un atteggiamento di credibilità verso la narrazione – e anche perciò quando parlo di violazione manifesta (come nel romanzo) o forzatura interna (come nel caso delle scritture trattate in questo studio) del paradigma storico mi riferisco sempre a un periodo che comprende gli ultimi tre secoli2. Inserzioni di elementi mitici, intercessioni sovrannaturali, evasioni e licenze oggi vietate a qualunque storico di professione erano ammissibili in una branca della storiografia antica, come in Erodoto, e persino Tucidide, che espunge l’elemento meraviglioso dalle sue Storie inaugurando un modo di raccontare gli eventi del tutto immanente, è piuttosto disinvolto nella disposizione narrativa della materia della guerra del Peloponneso (ma su questo si tornerà più avanti, anche perché oltre all’enorme distanza cronologica non mancano alcune continuità – involontarie? – con le narrazioni veridiche di oggi). La seconda precisazione riguarda più da vicino la chiusa del ragionamento: «la poesia si occupa piuttosto dell’universale». È una tesi che ha segnato il principale punto di riferimento dell’estetica occidentale insieme alle riflessioni per molti versi opposte di Platone contenute nel Libro III della Repubblica3, ed è tutt’altro che neutrale, perché porta indirettamente all’affermazione di una specifica superiorità della letteratura rispetto al racconto di eventi storici4. La prima, infatti, è più libera e vicina alla verità universale di quanto sia il secondo, incatenato all’obbligo del già avvenuto5.

1 Aristotele, Poetica, cit., 1451b 27-32.

2 V. a riguardo Rino Genovese, Verità e impegno scettico in Gli attrezzi del filosofo. Difesa del relativismo e altre

incursioni, manifestolibri, Roma 2008. Genovese compara la conoscenza nel discorso mitico e quella nel discorso

moderno, sottoposto a un «vincolo illuministico» legato ai «dati di fatto», specificando: «Definisco allora il primo un regime di attribuzione di realtà debole, tipico della modernità, e il secondo un regime di attribuzione di realtà forte, proprio delle culture tradizionali e arcaiche. La mia tesi è che la verità sia venuta in discussione come problema soltanto all’interno di uno standard di realtà debole », Ivi, p. 29. Il discorso storiografico antico non coincide col discorso mitico, ma i loro regimi di realtà hanno in comune un vincolo più lasco dei moderni con i dati di fatto.

3 Su questo si sofferma a lungo Guido Mazzoni, Teoria del romanzo, Il Mulino, Bologna 2011, in part. l’introduzione (Verità e letteratura) e il capitolo I (Una teoria della narrativa).

4 Lo sottolinea Henry Zhao, Storiografia e «fiction» nella gerarchia culturale cinese in Il romanzo. La cultura del

romanzo, cit., pp. 47-64, quando mostra in contrasto che invece nella tradizione letteraria cinese, per effetto della

canonizzazione confuciana iniziata attorno al II secolo a. C., la quale squalifica il primato conoscitivo di una letteratura d’invenzione, è la storiografia ad avere la rilevanza maggiore nel campo letterario: questa gerarchia dei generi dura fino all’inizio del ‘900 e al Movimento del 4 maggio, quando la lingua letteraria usata fino ad allora viene sostituita progressivamente «con la lingua cinese moderna basata sul volgare parlato» (Ivi, p. 60) e il romanzo, dopo avere rincorso per secoli pedissequamente le modalità fabulatorie e le garanzie di credibilità della storiografia, si stabilizza in una posizione più centrale rispetto alla storiografia e si smarca, in palese ritardo e con maggiore cautela rispetto al novel occidentale, dal modello storiografico.

5 Sull’adattamento e la distorsione della distinzione aristotelica nel panorama della narrativa dall’800 ai giorni nostri, cfr. la panoramica di Gianluigi Simonetti, Fiction/Non fiction in Franco Brioschi, Costanzo Di Girolamo, Massimo Fusillo (a cura di), Introduzione alla letteratura, Carocci, Roma 2015.

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Alla premessa obbligatoria circa il criterio separativo del discorso storiografico da quello d’invenzione, però, in questo lavoro consegue una sua ridiscussione critica, che sembra essersi realizzata, al livello dei testi, in alcuni assetti recenti della narrativa contemporanea. Vale a dire, in sintesi, che all’incirca negli ultimi venticinque anni in Italia hanno acquisito sempre più rilevanza simbolica e commerciale narrazioni che rifiutano, più o meno consciamente, di pagare al romanzo, o alla narrativa in genere, il conto della finzionalità che queste forme implicano1. Viene percepita dagli scrittori una parziale sovrapposizione «con ambiguità e incertezze»2 della narrativa al dominio semantico della fiction: della fiction essi recuperano l’accezione, non esclusiva ma qui percepita come tale, di “finzione”, anche a causa dell’influenza semantica esercitata in parallelo dalla fiction televisiva molti scrittori tendono a comporre opere che sfuggono alla riconoscibilità del romanzo e, di conseguenza, all’inoffensività della finzione letteraria. Essi dimostrano insomma un senso di «vertigine da fiction»3, nella sintesi di Covacich, uno dei narratori contemporanei che con più autoconsapevolezza si è mosso lungo il bilico della responsabilità dell’autore rispetto al realmente accaduto, partendo proprio da un non-fiction novel ispirato a Truman Capote, Storie di pazzi e di

normali (1993), su cui torneremo. Lo spaesamento riflette un curioso “stato di minorità” nei

confronti della realtà concreta da raccontare, che la narrativa italiana ha cercato di superare principalmente attraverso due strategie, non esclusive l’una rispetto all’altra né del tutto inedite. La prima, più estensiva e perifrastica, consiste nel recuperare i contenuti diretti e immediati della cronaca e della storia recente, con una preferenza per i temi più scottanti, inglobandoli all’interno dei romanzi e presentandoli, di solito, come “dati di realtà”4 con cui il lettore è chiamato a confrontarsi: è una tendenza che già il romanzo realista ottocentesco possedeva (si pensi, per una suggestione, a Stendhal, ai due sottotitoli del Rosso e il nero: Cronaca del secolo XIX e Cronaca del

1830 e al suo uso del fait divers), e che il romanzo contemporaneo riattualizza. La seconda, più

d’impatto e frontale, sta nel servirsi di forme in origine appartenenti per statuto di verità all’epidittica, alla memorialistica, all’odeporica, (autobiografia e mémoire, reportage/scritto di viaggio, biografia), alla ricostruzione di cronaca e all’inchiesta storica, senza, almeno in apparenza, filtrarle né delegare voce e punto di vista a un narratore d’invenzione, così da forzarle dall’interno,

1 V. su questo Alberto Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2007 (in part. i capitoli 1, Coordinate del romanzo italiano dagli anni Ottanta a oggi, e 2, Generi, temi, forme narrative); Gianluigi Simonetti, I nuovi assetti della narrativa italiana (1996-2006) in «allegoria», 57, 2008 (in part. pp. 122-127, dove ci si concentra sui romanzi posti consapevolmente «a metà fra cronaca e storia»); Raffaele Donnarumma,

Ipermodernità, cit., pp. 117-156.

2 Raffaele Donnarumma, Ipermodernità, cit., p. 169. In precedenza, anche Genette aveva riflettuto criticamente sul «monopolio finzionale» esercitato sull’insieme delle forme letterarie (Gérard Genette, Fiction et diction, Seuil, Parigi 1991).

3 Mauro Covacich, Ho le vertigini da fiction in «L’espresso», 15 gennaio 2004.

4 V. ancora Gianluigi Simonetti, I nuovi assetti della narrativa italiana, cit., quando rileva un’apertura «alla testimonianza, all’estratto documentario, al referto di cronaca, insomma alla realtà non filtrata», Ivi, p. 122.

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espanderne le potenzialità discorsive in direzione dell’aristotelico «vero universale» - un risultato cui mirava già la storiografia classica, se pensiamo alla natura della storia quale «possesso perenne» (per Tucidide) e, in seguito, «maestra di vita» (per Cicerone). Si rimane perciò formalmente all’interno di un paradigma storico che non viene mai apertamente smentito, bensì riformulato nei suoi assunti e nei suoi doveri verso, al tempo stesso, i lettori e le persone reali che diventano l’oggetto dei racconti1.

È questa seconda opzione narrativa l’oggetto dello studio: narrazioni in partenza storiche che si servono però di strumenti della letteratura d’invenzione e ne complicano la ricezione. In una simile ottica, se una separazione netta e circostanziata fra discorso storico e discorso d’invenzione, a partire dalla fruizione del lettore, è imprescindibile nel panorama contemporaneo, non lo sembra altrettanto operarne una fra fiction e non-fiction, come invece si continua a fare nel senso comune della critica letteraria e giornalistica (come ha sintetizzato Carla Benedetti, è una distinzione categoriale che «pur traballante, agisce per penetrazione quantitativa e per formazione di luoghi comuni»2). Vengono da un’idealizzazione manichea due settori rigidamente scanditi di narrativa, uno del tutto veridico (o, per sintesi, storico) e uno dove è consentito inventare e simulare le cose reali, e che dunque mira soltanto a una verità dei mondi d’invenzione, non verificabile e generale; per una sintesi ancor più impropria, questo secondo settore viene a definirsi romanzesco – non solo al genere del romanzo è concessa l’invenzione, ma su questo si approfondirà più avanti. Gli scomparti possono fungere da introduzione molto generica, di limitata utilità. Ci dicono pochissimo sui testi in questione, e ancor meno sulle forme letterarie concrete su cui si giocano i discorsi autoriali: è una specie di vicolo cieco argomentativo concludere che nello spettro semantico della

fiction rientrano il romanzo, il racconto breve, e qualsiasi narrazione non strettamente verificabile,

nella non-fiction tutto il resto3.

La schematizzazione netta appartiene più all’inconscio degli autori, che avvertono la nebulosa finzionale come qualcosa a cui reagire, di quanto non sia uno strumento efficace di analisi critica. L’affermazione di Stefania Ricciardi, per la quale è insensato «continuare a definire la non-fiction in opposizione alla fiction»4 è vera solo per una faccia della medaglia, quella dei lettori che

1 È anche l’assunto di partenza di Raffaello Palumbo Mosca, L’invenzione del vero, cit., pp. 13-14.

2 Carla Benedetti, Disumane lettere. Indagini sulla cultura della nostra epoca, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 112. 3 «Un altro modo di esprimere questa opposizione è dire che le narrazioni referenziali sono verificabili e incomplete, mentre le narrazioni non-referenziali sono inverificabili e incomplete», Dorrit Cohn, The Distinction of Fiction, cit., p. p. 16. La formulazione di Cohn resta estremamente valida a livello generale, nonostante l’uso discutibile di «referenziale» per indicare un ipotetico discorso che si riferisca alla realtà evenemenziale tout court e non per indicare, in semantica, ciò che riguarda qualsiasi referente (sia pure irreale) di un segno linguistico.

4 Stefania Ricciardi, Gli artifici della non-fiction. La messinscena narrativa in Albinati, Franchini, Veronesi, Transeuropa, Massa 2011, p. 15.

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scompongono gli oggetti narrativi che si trovano di fronte e ne decostruiscono le retoriche: l’altra faccia ci mostra che la non-fiction nasce proprio con una vocazione antagonistica e una tenuta concettuale malferma, in opposizione al termine di più lungo corso fiction, che nella sua sedimentazione temporale accoglie una gamma di sfumature troppo ampia per riassumerla qui1.

Restiamo al più giovane antonimo. A quanto pare il primo uso è stato fatto con intento polemico da Jacques Barzun, a proposito di alcuni romanzi storici di Charles Percy Snow e Arthur Koestler, contrapponendo in un articolo degli anni Cinquanta la loro mancanza di immaginazione al talento finzionale di Proust2. A consacrare il termine per un pubblico più ampio è stato però Truman Capote, che nel risvolto di copertina della prima edizione di In Cold Blood (1966) ha scritto del suo libro: «rappresenta il culmine dell’aspirazione di lunga data [di Capote] di dare un contributo alla fondazione di un’importante nuova forma letteraria: il romanzo di Nonfiction»3. Capote usa il termine per definire un perimetro molto ristretto entro cui il suo discorso si muove: da un fatto di cronaca nera del 1959 che aveva colpito la sua immaginazione dopo una lettura di un quotidiano (l’omicidio di una famiglia del Kansas, i coniugi Clutter e due figli adolescenti, da parte di due sbandati, dopo un tentativo di rapina andato male), sorge una ricostruzione incubata a lungo, la quale riformula gli eventi secondo le prospettive e la costruzione drammatica di un romanzo storico senza la minima finzionalità, o meglio, di un particolare romanzo-inchiesta che si muove fra Flaubert e Zola, con un narratore in terza persona fattosi osservatore onnipresente e assente dalla scena. Come se non esistesse che in una forma superiore e pulviscolare, il narratore non emette valutazioni sugli avvenimenti e non interrompe il racconto per proporre riflessioni con la sua propria voce. Nel suo sviluppo successivo, come si cercherà di argomentare nel corso di questo lavoro, la scelta non finzionale di Capote verrà rielaborata, la coerenza dell’impianto realista e ottocentesco cederà a favore di espedienti testimoniali, autori-personaggi esibizionistici e, in generale, adozione di ottiche e voci dichiaratamente parziali. Sottolineare la natura plurale delle scritture che si contrappongono alla fiction, intesa come uno “spettro” semantico ormai preponderante e insieme un dominio discorsivo dal quale gli autori sentono il bisogno di affrancarsi, non esclude infatti la necessità di provare a ricostruirne alcuni percorsi che nascono separati. Sarebbe un’approssimazione eccessiva e irrealistica parlare di una genesi comune di testi che, spesso, non assumono gli stessi modelli di partenza e che, sebbene finiscano per travalicare

1 V. per un primo orientamento teorico Wolfgang Iser, FICTION: Contemporary Literary Account of the Fictive in

Encyclopedia of Aesthetics, II, Oxford University Press, Oxford 1998; Gérard Genette, Fiction et diction, cit.; Catherine

Gallagher, Fiction in Il romanzo. La cultura del romanzo, cit.

2 Nell’articolo di Jacques Barzun, Proust’s Way in «The Griffin», 5, 6, 1956. Cfr. per una ricostruzione Mas’ud, pp. 70-74.

3 Come riporta ancora Mas’ud Zavarzadeh, op. cit., p. 72 (nell’originale: «represents the culmination of [Capote’s] long-standing desire to make a contribution to the establishment of a serious new literary form: the Nonfiction Novel»).

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specifiche forme fattuali della tradizione1, non possono finire tutte pacificamente sotto lo stesso gruppo. Un non-fiction novel di impianto tutto sommato classico e di scelte innovative rispetto ai modelli d’ispirazione2 come Elisabeth (2011) di Paolo Sortino non ha una stretta parentela con testi difficilmente classificabili come La città distratta (1999) di Antonio Pascale o I cani del nulla (2003) di Emanuele Trevi: Pascale risemantizza la panoramica sociologica e l’inchiesta sul territorio (Caserta, nella fattispecie) con un linguaggio ironico e con una disposizione all’accumulo narrativo che lo allontanano dallo studio scientifico-urbanistico per avvicinarlo ai romanzieri3; Trevi adopera il saggio critico, più esattamente quello di critica letteraria più divagante e a-sistematico che fa capo, per concentrare progressivamente l’attenzione su di sé, in un sarcastico esame di coscienza del proprio ruolo di critico e scrittore all’interno della società. Gli esempi si potrebbero moltiplicare a piacimento, proprio perché non è una parentela di partenza a legare questi racconti veridici, ma una d’elezione, data a posteriori da un minimo comune denominatore: cioè l’obiettivo di porre i lettori direttamente a confronto con una realtà non artefatta ed esigere da essi un tipo di fruizione (e di reazione) diversa rispetto a quella di un romanzo d’invenzione.

Ciò che non verrà meno nei decenni successivi è proprio la volontà oppositiva al sistema percepito della letteratura soltanto finzionale: per la poetica dei singoli autori, spesso pervasi da quelle che sono state chiamate «angosce di derealizzazione»4 nella contrapposizione fra fiction e non-fiction è ancora un propulsore eccellente. Il che non significa che anche gli studiosi debbano assecondare le retoriche degli scrittori, accettando in blocco il dualismo sotteso alla categorizzazione: attraversarle controcorrente è il primo movimento per cogliere le sfaccettature anche contraddittorie di un simile apriori narratologico, e per capire che in realtà la fiction e la non-fiction assomigliano piuttosto a

1 Genette individua per esempio fra i racconti fattuali [récits factuels] : «la storiografia, la biografia, il diario, la ricostruzione giornalistica, il rapporto di polizia, la narratio giudiziaria, il chiacchiericcio quotidiano», Fiction et

diction, cit., p. 142.

2 È vero quanto scrive Gianluigi Simonetti sul rifiuto da parte di Sortino della trascrizione stenografica dell’evento di cronaca, in favore della creazione di un mondo romanzesco a tutto tondo che scava artificialmente nelle ragioni dei personaggi reali (Elisabeth Fritzl e il padre Josef, che la sequestrò e violentò per 24 anni in un bunker sotterraneo: «Se per parlare del presente Sortino ha scelto la storia di Elisabeth, lo ha fatto per gli strati di senso che comprime, e insieme per la sua inossidabile enigmaticità […]; quindi per la potenziale ricchezza strutturale del disegno, per la sua disponibilità a farsi apologo e mito», Idem, Il sottosuolo. Su “Elisabeth” di Paolo Sortino (e sul romanzo

contemporaneo), pubblicato sul blog «Le parole e le cose» il 26 settembre 2011, qui: http://www.leparoleelecose.it/?p=993. Tuttavia, la scelta di Sortino non esclude un’appartenenza proprio alla categoria fondata da Capote, anzi vi s’iscrive con pieno diritto, avendo utilizzato fonti documentarie e ricostruzioni giudiziarie (non esibite) per creare un’architettura romanzesca fornita di un narratore onnisciente ed esterno che fa agire personaggi dotati di una psiche autonoma e articolata. Ciò che lo contraddistingue è il processo interpretativo della vita interiore e delle ragioni dei suoi personaggi: mentre negli archetipi statunitensi esso è decisamente cauto, qui diventa ragione di uno stile volutamente ambiguo.

3 V. le riflessioni condivisibili di Damiano Frasca, Volontà di narrare, tentazioni saggistiche e forme ibride in Antonio

Pascale ed Emanuele Trevi in «Between», IV, 7, 2014. In particolare: «Quando questo autore si serve di strategie

retoriche romanzesche lo fa per dare più forza alla sua vena saggistica, alle sue riflessioni di antropologia, di urbanistica o di sociologia del quotidiano», Ivi, p. 2.

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due estremi puri e disincarnati verso cui l’intenzionalità storica degli autori può tendere a seconda della scelta individuale1 - una scelta che non è connessa automaticamente a quella dei generi e delle forme di scrittura di volta in volta da adoperare. Non risulta proficuo apparentare fiction e

non-fiction a blocchi e nemmeno a organismi unitari che si ibridano fra loro2: è troppo ampio e impreciso il ventaglio offerto dai due insiemi, troppe sfumature si perdono in una concettualizzazione di questo tipo. Allontaniamo pure sullo sfondo, per beneficio di ipotesi favorevole all’uso di “ibridazione”, l’esistenza dei numerosi tipi di racconti fattuali a disposizione dello scrittore, potenzialmente ricombinabili (reportage, biografia, diario di viaggio, e così via) in nuovi contenitori che si potrebbero definire ibridi con maggior ragione che adoperando i termini di

fiction e non-fiction, se pure non sapessimo che parlare di una “biografia pura” o di un “reportage

non ibrido” suona vagamente curioso. Nel momento in cui si rileva che nel panorama contemporaneo la cosiddetta non-fiction si avvale di strategie della narrativa d’invenzione e di licenze proibite agli storici, e sul versante opposto la letteratura d’invenzione, col romanzo in testa, strumentalizza i discorsi documentari, a volte giustapponendoli al suo dettato e altre volte camuffandoli, se ne deduce che parlare di un incrocio fra due categorie, da cui scaturirebbe un terzo elemento sospeso fra i due genitori, suona insoddisfacente: le due scelte narrative, separate in primo luogo dall’intenzionalità storica, sono già capaci di assumere in sé diverse soluzioni discorsive e di unire tra di loro più generi letterari. La metafora biologica non tiene perché la filogenesi è complessa e articolata nel tempo: parlare di un incrocio fra fiction e non-fiction comporta nel critico di assecondare involontariamente la poetica anti-finzionalista degli autori e fa incappare nel rischio di prendere i due estremi teorici per contenitori concreti. Si potrebbe parlare con più precisione di un interscambio reciproco e ripetuto fra scritture a esclusiva vocazione veridica (aderenti al proposito di restituire la verità empirica) e scritture d’invenzione, basta che si circoscriva questo tentativo di compenetrazione all’ambito del patto narrativo. Sul contratto di lettura, che può essere accettato a un primo livello e contraddetto nell’andamento del discorso, si giocano le confusioni di piano e i mescolamenti più visibili della narrativa contemporanea: inchieste dettagliate e documentate su casi autentici di cronaca nera possono essere canalizzate nel discorso di un personaggio realmente esistito a cui è concessa una potenzialità espressiva da romanzo

1 «Se si considerano le pratiche effettive, si deve ammettere che non esiste la finzione [fiction] pura né una storiografia tanto rigorosa da astenersi da ogni disposizione in un intreccio e da ogni procedimento romanzesco ; che i due regimi non sono così distanti l’uno dall’altro, né, presi singolarmente, così omogenei come si potrebbe supporre da lontano, e che potrebbero esserci più differenze narratologiche, per esempio […] fra un romanzo classico e un romanzo moderno di quante ce ne sono fra quest’ultimo e un reportage un po’ disinvolto», Gérard Genette, Fiction et diction, cit., p. 166. 2 Sull’ibridazione fra fiction e forme storiche insistono, da ultimi di una lunga lista di pareri critici soprattutto francofoni e anglofoni, Riccardo Castellana, La biofiction. Teoria, storia, problemi in «allegoria», 71-72, XXVII, 2015; Marco Mongelli, Il reale in finzione. L’ibridazione di fiction e non-fiction nella letteratura contemporanea in «Ticontre. Teoria testo traduzione», 4, 2015. Alle loro bibliografie si rimanda.

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autobiografico (penso a Il giardino delle mosche, 2015, di Andrea Tarabbia, costruito come un monologo-confessione del vero serial killer Andrej Čikatilo, di estremo dettaglio sui suoi crimini e la sua vita interiore); sul versante opposto, come si è accennato, il romanzo moderno nasce anche tramite una distorsione di patti di lettura storici per conferire maggiore potenza retorica a racconti d’invenzione, e si sviluppa incorporando le altre forme espressive. Per tutte queste ragioni parlare di ibridismo suona, nel caso del romanzo, una sorta di tautologia non necessaria, e le scritture non d’invenzione odierne, che si appropriano di strumenti del romanzo, a esso si ribellano e tuttavia non rinunciano alla sua complessità né all’ambizione alla totalità e a una verità di carattere non particolare, sono già di per sé miscugli eterogenei. Per tutte queste ragioni, nel seguito del discorso si cercherà di evitare quanto più possibile l’uso di “ibridazione” e l’idea di una contaminazione reciproca di fiction e non-fiction: le definizioni comportano una teoresi troppo imprecisa e scollata dai testi, troppo legata a una dicotomia autoriale che finisce per assomigliare a un luogo comune, utile da scomporre, inutile se usata come assioma ermeneutico.

C’è un altro vantaggio che deriva dal fatto di decostruire il conflitto ideale fra fiction e non-fiction percepito dagli autori di narrazioni non d’invenzione. Esso riguarda lo scivolamento, in buona parte involontario, della macro-categoria della fiction sul genere, più ristretto per dimensioni, del romanzo moderno; in base a questo scivolamento, comporre ciò che si definisce comunemente

non-fiction significa per gli scrittori, da un lato, proporre un testo che rifiuta l’irrilevanza di un racconto

staccato dalla realtà, ma dall’altro, sul piano della scelta dei generi, implica un rifiuto della forma romanzo (che in effetti, a ben vedere, è un macroinsieme a sua volta di pluralità disorientante). Perciò, la narrazione storica viene vista come una reazione alla poca effettività delle narrazioni d’invenzione e il rifiuto di una postura discorsiva basata su un idealtipo moderno di “patto finzionale”1 ha come conseguenza, nel discorso dei generi, la scelta di porsi al di fuori della tradizione del romanzo: a riprova, non sono rare, contro di essa, le manifestazioni e i manifesti di insofferenza2. E per quanto, come nel caso di Millet, l’insofferenza sia rivolta in primis al romanzo inteso quale prodotto ben confezionato e seriale di intrattenimento, il riuso delle scritture a vocazione storica e cronachistica denota un bisogno di uscire dalla letteratura che è sì, come si è

1 È una formula proposta da Federico Bertoni, Il testo a quattro mani. Per una teoria della lettura, La Nuova Italia, Firenze 1996. Essa nasce in antitesi al modello di «patto autobiografico» che stabilisce una cooperazione interpretativa fra autobiografo e lettore, fondata sulla veridicità: v. Philippe Lejeune, Le pacte autobiographique, Seuil, Parigi 1975. Utile, soprattutto riguardo alle origini del novel, la prospettiva di Giovanna Rosa, Il patto narrativo. La fondazione della

civiltà romanzesca in Italia, Il Saggiatore, Milano 2008.

2 Per i più recenti, v. David Shields, Fame di realtà. Un manifesto, Fazi, Roma 2010; Richard Millet, L’inferno del

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accennato all’inizio, proprio del romanzo quale genere che nega se stesso, ma che non può essere ricondotto pacificamente a esso.

In altre parole, è innegabile confutare la natura “onnivora” del romanzo, che tende sin dalla sua nascita ad appropriarsi di tipologie di scrittura tecnicamente poste al di fuori esso1: è naturale tener conto che Robinson Crusoe nasce come un’autobiografia di un personaggio inventato (all’epoca della prima edizione, nel 1719, fatto passare per esistente), oppure che simulare una corrispondenza allude a una particolare forma romanzesca che acquisì nel ‘700 una fortuna straordinaria (il romanzo epistolare, che nasce in Francia e trova una consacrazione con Pamela, o la virtù premiata di Samuel Richardson nel 1740)2. Ciononostante, anche se «a partire da una certa data, il romanzo diventa il genere in cui si può raccontare qualsiasi storia in qualsiasi modo»3, la plasticità potenzialmente infinita del romanzo non implica che tutti i discorsi letterari e storici combacino con esso (come Mazzoni, d’altra parta, mostra benissimo nel suo studio). Non tutte le narrazioni sono romanzi, non tutte vogliono diventarlo. E tanto possono esistere, sulla scorta di Capote, dei

non-fiction novel, ossia dei testi che in tutto somigliano a un romanzo realista ma se ne distanziano per

via della ricostruzione esatta di eventi storici e dell’ostinazione a non inventare nulla (se non di nascosto e badando a non farsi scoprire dai lettori), quanto possono darsi scritture al di fuori di esso in cui autore, narratore e personaggio principale vengono a sovrapporsi, costruite sulla base di scritti di viaggio, di denuncia, di memoria, diari, o che magari risultano da una mescolanza di tutte queste caratteristiche. Per queste scritture, “romanzesco” rischia di svuotarsi fino a diventare un sinonimo di “plurale” o di “narrativo”4: senza contare che esiste anche il campo, altrettanto minato e difficile alla classificazione, delle forme brevi che, fra la premoderna novella e la short story di genesi ottocentesca e sviluppo odierno, dal romanzo sono inequivocabilmente separate5.

1 Lo studio classico a sostegno di questa visione è di Michail Bachtin, Estetica e romanzo [1975], Einaudi, Torino 1979. 2 V. Margherita Di Fazio Alberti, La lettera e il romanzo. Esempi di comunicazione epistolare nella narrativa, Nuova Arnica, Roma 1996.

3 Guido Mazzoni, Teoria del romanzo, cit., p. 73. La «data» cui ci si riferisce nel passaggio è il periodo a cavallo fra il ‘700 e l’800, in cui il romanzo, all’altezza del secondo ‘500 un genere dai confini ristretti e definiti, diviene ciò che è oggi: «uno spazio polimorfo dove trovano posto i racconti di una certa lunghezza che non rientrano nei confini dei generi narrativi più rigidamente codificati (l’epos, le opere storiografiche, la chanson de geste)», Ivi, p. 79.

4 È un rischio che corre, per esempio, lo studio di Raffaello Palumbo Mosca, L’invenzione del vero, cit., che definisce gli oggetti del suo interesse, fin dal sottotitolo, “romanzi ibridi”. Eppure l’impressione è che l’etichetta finisca per stirarsi, quando la si usa quasi come sostituto del precedente non-fiction; quando il saggio si chiude sulla ricognizione di alcuni saggi critici e divagazioni autobiografiche (Giorgio Ficara, Riviera. La via lungo l’acqua, 2010; Raffaele Manica,

Qualcosa del passato, 2008; Salvatore Silvano Nigro, Il principe fulvo, 2012; Massimo Onofri, La ragione in contumacia. La critica militante ai tempi del fondamentalismo, 2007) la cui appartenenza al gruppo viene giustificata da

un’inclinazione narrativa a volte davvero minoritaria. Si pensi al caso di Domenico Scarpa, Storie avventurose di libri

necessari, in cui i libri esaminati da Scarpa vengono definiti «personaggi di cui il critico racconta una storia» (Ivi, p.

291) e il «latente elemento autobiografico» (Ibidem) dispiegato dallo studioso basta a far parlare di «romanzesco». 5 Sull’identità controversa del racconto breve, v. Arrigo Stara, Sergio Zatti (a cura di), Un genere senza qualità. Il

racconto italiano nell’età della short story, «Moderna», 2, XII, 2010; Giacomo Raccis, Damiano Sinfonico (a cura di), Il racconto italiano. Tra precarietà e forma chiusa, «Nuova Corrente», 157, LXIII, 2016. Nonostante i titoli, nei due

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Ancora, se un’autobiografia e un romanzo autobiografico differiscono proprio per la mancata corrispondenza del secondo fra autore, narratore e personaggio, è valida simmetricamente la distinzione fra, per esempio, un romanzo che ingloba passaggi saggistici, trascrizioni diaristiche e stralci di lettere attribuendoli a esseri di finzione (una fisionomia del genere potrebbe applicarsi bene al romanzo modernista primonovecentesco e a quello che è stato definito da Stefano Ercolino «romanzo massimalista»1), e un testo come Qualcosa di scritto. La storia quasi vera di un incontro

impossibile con Pier Paolo Pasolini (2012) di Emanuele Trevi, che costruisce sulla coincidenza

autobiografica la propria peculiarità e vuole, nonostante la collocazione editoriale nei “romanzi”, porsi al di fuori del dominio del novel, dichiarare una strada alternativa, sebbene minoritaria. Per riassumere con una metafora non biologica ma geometrica: se per un punto (del romanzo) passano infinite rette, ciò non significa di conseguenza che per esso passino tutte le rette del piano. Alcuni di questi “punti” non romanzeschi rivelano, a leggerli da vicino, una natura tridimensionale, e sono l’oggetto di questo studio, che si dichiara inevitabilmente plurale negli approcci come negli esiti, rispecchiando la materia esaminata. Il rifiuto provvisorio dell’etichetta non-fiction esprime (anche) l’opzione critica di non indicare un’uniformità che non esiste, di non attribuire a tutti gli stessi padri e le stesse traiettorie, di rinunciare a parlare al singolare di scritture fra di loro, spesso, non apparentate da altro che dall’intenzionalità storica, ma convergenti verso una stessa direzione. Non è di un genere che si parla, ma di uno specifico insieme di reazioni al modo di fare storia nel (e del) presente: concorrenziali alla storiografia quanto al parente prossimo del giornalismo, le “storie vere” (come sono state sinteticamente definite)2 rivendicano un’appartenenza agonistica o angosciata, tutta da contestualizzare, alla letteratura.

Cosa comporta una dichiarazione simile di pluralità? Anzitutto la necessità di operare una selezione a monte, si spera non troppo arbitraria, per evitare di disperdersi in una folla di particolari e non individuare nessuna costante, nessuna peculiarità che leghi le opere e le scelte degli autori. Si è scelto dunque di concentrarsi per lo più sulla produzione, in senso ampio, non finzionale in lingua italiana contemporanea, attraverso una triplice lettura: cronologica (scritture secondo novecentesche, con un inizio fissato ai primi anni ’90), di genere, in base a criteri formali e costanti tematiche. Una delle ipotesi alla base di questo lavoro è che esista una tenue linea genealogica di una scrittura non d’invenzione parzialmente distinta dalle narrazioni storiche più riconoscibili della

volumi si cerca di impostare le basi per una definizione teorica della forma breve valida anche fuori dalla tradizione nazionale.

1 Stefano Ercolino, Il romanzo massimalista. Da “L’arcobaleno della gravità” di Thomas Pynchon a “2666” di

Roberto Bolaño, Bompiani, Milano 2015.

2 Raffaele Donnarumma, Ipermodernità, cit., pp. 201-224 (capitolo V, Storie vere). La definizione sintetica “storie vere” si fonda per l’appunto sulla retorica veridica e anti-finzionale delle narrazioni in oggetto.

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tradizione del ‘900. Nel capitolo 2 si tenterà dunque di ricostruirla, con l’individuazione di un

turning point situato negli anni ’80. Nei decenni precedenti, in particolare negli anni ’70, non

mancano da un lato, come Stajano, Cederna, Terzani, Fallaci, giornalisti e reporter capaci di reggere il confronto (per innovazioni narrative e scelte “di poetica”) con i colleghi statunitensi, né dall’altro romanzieri e scrittori che si confrontano con le ricostruzioni storiche e si cimentano nell’inchiesta e nei resoconti fattuali con originalità (Sciascia, Moravia, Parise, Pasolini, Primo Levi, Carlo Levi, Scotellaro e molti altri). A questo retroterra si dedicherà un breve approfondimento; nell’individuare un possibile antecedente della scrittura che c’interessa, un

flashback agli anni ’70 è opportuno per non falsare il quadro. Dopotutto, la narrazione non

d’invenzione come scelta di dignità letteraria forte non nasce certo in Italia, né sono italofoni alcuni dei suoi più riconoscibili antesignani, come il New Journalism americano negli anni ’60 o altri isolati esempi esteri, per esempio Operación masacre di Rodolfo Walsh nel 1957 – senza riandare indietro a reportage anticipatori come Down and Out in Paris and London (1933) e Homage to

Catalonia (1938) di George Orwell, o, più in generale, al complesso dei racconti dal fronte della

guerra civile spagnola, nei quali risaltano un’ottica soggettiva pronunciata e un accantonamento della neutralità ideologica e politica presupposte dal dovere del cronista1. Persino gli esempi più noti di una scrittura a cavallo fra reportage e letteratura, che risalgono in Italia all’inizio degli anni ‘90 con Mauro Covacich (Storie di pazzi e di normali, 1993), Sandro Onofri (Vite di riserva, 1992), Sandra Petrignani (Vecchi, 1993) e Sandro Veronesi (Occhio per occhio. La pena di morte in

quattro storie, 1992; Cronache italiane, 1992), eleggono come loro riferimenti di scrittura il

romanzo realista senza immaginazione In Cold Blood di Truman Capote o, da un versante opposto di “prese dirette” e autori-personaggi invadenti e presenti all’interno della loro stessa testimonianza, come Norman Mailer da The Armies of the Night in poi, Hunter S. Thompson, Joan Didion di The

White Album e molti degli appartenenti al suddetto New Journalism2.

La focalizzazione sul panorama italiano sarà equivalente anche per i tempi più recenti, che annoverano esempi significativi e spesso più riusciti di scritture non finzionali rispetto ai corrispettivi nostrani (qualche esempio: i non-fiction novel Emmanuel Carrère da L’adversaire, 2000, in poi; i micro-saggi narrativi di Michel Houellebecq confluiti in Interventions 2, 2009; la trilogia di biografie straniate Ravel, 2006, Courir, 2008, Des éclairs, 2010, di Jean Echenoz; A

Supposedly Funny Thing I’ll Never Do Again, 1996, e Consider the Lobster and Other Essays,

1 Sulla guerra civile spagnola come punto di partenza per l’affermazione di un «giornalismo senza obiettività», v. Oliviero Bergamini, Specchi di guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone a oggi, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 71-89.

2 Per una divisione della scrittura non finzionale statunitense negli anni ’60 sulla base (non soltanto) dell’implicazione dello scrittore all’interno delle vicende narrate, si rimanda all’accurato e sintetico studio di Clotilde Bertoni, Letteratura

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2005, di David Foster Wallace; An Afghanistan Picture Show. Or, How I Saved the World, 1992, e

Rising Up and Rising Down. Some Thoughts on Violence, Freedom and Urgent Means, 2003, di

William T. Vollmann; quasi tutte le opere di W. G. Sebald da Gli emigrati, 1992, in poi; Javier Cercas con Anatomia di un istante, 2009, e L’impostore, 2014). Su questi e altri libri si punterà a volte l’attenzione, nel caso in cui le loro caratteristiche servano a mettere in luce aspetti d’interesse di questa tendenza narrativa; li si utilizzerà talvolta per sottolineare prospettive e provenienze dell’odierno panorama, e soprattutto per chiarire l’interrelazione, o addirittura la dipendenza, di molti testi italiani, in modo da evitare di dipingerli come un’ininterrotta e irrealistica sequenza di casi isolati. Dalla seconda metà degli anni ’90 in poi, d’altronde, gli influssi delle scritture d’oltreoceano (statunitensi in prima istanza, poi sudamericane) s’impongono progressivamente. Inoltre, assodato che i romanzieri, a partire dalla generazione che diviene adulta nell’ultimo decennio del secolo, trovano più naturale confrontarsi con Don DeLillo e Philip Roth che con, poniamo, Italo Calvino e Alberto Moravia, il discorso è doppiamente valido per i reportage e la scelta (di provenienza anglofona, per l’appunto) del narrative essay: le prove di Francesco Piccolo (Allegro occidentale, 2003), Cristiano de Majo e Fabio Viola (Italia 2. Viaggio nel paese che

abbiamo inventato, 2008) e in generale di non pochi autori che orbitano attorno alla casa editrice

minimum fax (si veda su tutti il volume di inchieste a cura di Christian Raimo Il corpo e il sangue

d’Italia. Otto inchieste da un paese sconosciuto, 2007)1, risentono chiaramente dell’influsso di autori come William T. Vollmann o David Foster Wallace (il cui reportage comico e idiosincratico

A Supposedly Funny Thing I’ll Never Do Again arriva in Italia tradotto per minimum fax da

Francesco Piccolo e Gabriella D’Angelo nel 1998).

In ogni caso, è negli anni ’80 che i confini fra una scrittura storica e una d’invenzione subiscono in Italia la mutazione decisiva. Alcuni testi di La Capria, Natalia Ginzburg, Busi, Del Giudice, Celati, Tondelli, Pomilio, Clara Sereni riassumono questa mutazione eterogenea. Essa vede affiancati esercizi di osservazione del paesaggio (Verso la foce, 1989, Celati) e racconti di viaggio marcatamente egocentrici ed egotrofici (Sodomie in corpo 11. Non viaggio, non sesso e scrittura, 1988, e Altri abusi. Viaggi, sonnambulismi e giri dell’oca, 1989, Busi) o più elusivi e presi in una progressiva rarefazione (Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, 1990, Tondelli, ricerche d’archivio rifluite in uno stile da romanzo (La famiglia Manzoni, 1983, Natalia Ginzburg,

Il Natale del 1833, 1983 Pomilio) e romanzi d’indagine incentrati su figure davvero esistite (Lo stadio di Wimbledon, 1983, Del Giudice), scritture di sé sospese fra autobiografia e divagazione

1 Gli otto autori inclusi nella raccolta, alcuni dei quali erano allora specialisti, o lo sarebbero diventati, nella scrittura di cronaca, sono: Ornella Bellucci, Silvia Dai Pra’, Alessandro Leogrande, Stefano Liberti, Alberto Nerazzini, Antonio Pascale, Gianluigi Ricuperati, Piero Sorrentino.

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saggistica, a testimoniare una sopravvenuta impossibilità del romanzo (L’armonia perduta, 1986, e

La neve del Vesuvio, 1989, La Capria) e autobiografie filtrate da una lente ristretta sulla vita

domestica, con una presa a prestito dai libri di cucina (Casalinghitudine, 1987, Clara Sereni): un quadro parziale ma significativo della progressiva importanza di scritture narrative non d’invenzione, poste al di fuori del romanzo e delle sue istanze finzionali, di cui saranno sottolineate riprese e distanze nel decennio successivo.

Il centro dell’attenzione è dunque riservato, nei capitoli 3 e 4, agli anni ’90 e al segmento temporale più recente, quando la produzione non finzionale si afferma nel campo letterario ed editoriale. Come si è accennato prima, data l’origine plurale di questa costellazione narrativa e il numero smisurato di testi che vi rientrerebbero a buon titolo (e di cui si dà una lista tutt’altro che esaustiva in appendice)1, s’intende compiere una lettura per campioni, condotta su due piani. S’intende dapprima (capitolo 3) provare a elencare ed esaminare i generi di partenza che questa produzione recupera originalmente: taccuino/diario di viaggio, reportage, personal essay, studio critico (con una preferenza per la critica letteraria), inchiesta di cronaca, ricostruzione storica. Nel capitolo 4, si mettono a fuoco i singoli testi e ci si sofferma sugli aspetti che rendono peculiare questa scrittura di confine: intreccio (o, con White, intramazione), struttura, (alcune) tematiche distintive, posizione del narratore rispetto alla materia, punto di vista, capacità di riferire la vita interiore. A vario titolo, le caratteristiche elencate ribadiscono che resiste una possibilità di distinguere un racconto di ciò che è realmente accaduto da un racconto inventato, ma con più forza sostengono che la veridicità ha raggiunto una ricchezza di applicazioni che non si può liquidare sotto l’ombrello della non-fiction con una reductio ad unum. Nella percezione degli scrittori, la categoria non finzionale dialoga da vicino con la storiografia e intende superarla servendosi degli strumenti della cosiddetta fiction, e contemporaneamente sfida la fiction vantando una credibilità che questa, è il timore comune, ha smarrito2.

Che poi l’ansia di superare entrambe le categorie (storica e romanzesca) grazie a una soluzione terza possa rivelare, a uno sguardo approfondito, la propria natura compromissoria, è un altro discorso, non secondario: mentre gli scrittori aspirano a nuove forme d’impegno e al recupero di una postura autoriale carica di implicazioni etiche, il loro sforzo può tradire alcuni risvolti di scarsa

1 In questo tipo di indagini, sottolinea giustamente Casadei, la completezza «è solo ipotetica: anche a un sondaggio grossolano sul sito del Sistema bibliotecario nazionale (Sbn), si può ricavare un dato abbastanza attendibile riguardo alla quantità, e cioè che tra il 1980 e il 2006 sono usciti circa 5.000 testi narrativi italiani che dovrebbero essere esaminati», Idem, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, cit., p. 13.

2 Giustamente Raffaello Palumbo Mosca parla, sulla scia di Cercas, di una forma che «non rinuncia a nulla», Idem,

L’invenzione del vero, cit., p. 14. Il testo di Javier Cercas cui ci si riferisce è Anatomia di un istante [2009], Guanda,

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scientificità, parzialità (quando non faziosità) di sguardo, ricatto della testimonianza, personalismo ed esibizionismo del narratore, moralismo, e i loro testi finire per non avere la profondità di sguardo del romanzo né l’affidabilità del referto. Sono rischi che non sanciscono direttamente il valore di un’opera (e del resto, non s’intende fare discorsi in base a un canone), ma ce ne comunicano la natura stratificata, che nelle intenzioni vorrei restituire con un auspicio simile a quello formulato da Paolo Tortonese: «L’empirismo storico deve nutrire la teoria e renderla più scettica, più relativista; l’astrazione teorica deve sostenere la storia fornendole i concetti senza i quali essa non potrebbe formulare i propri interrogativi»1.

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2. Un possibile retroterra

Come tracciare una possibile preistoria di un ventaglio di scritture non finzionali che riconducono a tradizioni di scrittura affatto distanti fra loro? Individuare correttamente le forme discorsive a inclinazione veridica in un arco temporale non troppo esteso, nel secondo dopoguerra, è necessario per abbozzare uno sfondo ai tentativi letterari che ci interessano, condotti dall’interno del dominio discorsivo della cronaca. Non s’intende affermare con questo dei rapporti di discendenza diretta fra, poniamo, Tondelli e Trevi, Moravia e Geda, in sostanza fra i tentativi degli scrittori fra gli anni ’70 e ’80 e le storiografie atipiche odierne. L’individuazione del retroterra non finzionale (con un occhio di riguardo per l’Italia) è una prima finestra sull’approccio scelto per questo lavoro: sciogliere le formule di compromesso che riflettono giudizi spesso adagiati sull’indistinzione di generi e forme all’interno di un testo, esaminare caso per caso i momenti della manipolazione dei discorsi di partenza, più che indicare genericamente due o più categorie ibridate. Tale impostazione appare propedeutica per definire persino le scritture oggi programmaticamente definite “inclassificabili”. Wu Ming 1, nel memorandum New Italian Epic sulla letteratura italiana contemporanea (fino al 2009), include alcuni dei testi di nostro interesse nel novero degli «oggetti narrativi non-identificati»1 che «non possono essere etichettati o incasellati in alcun modo, perché contengono quasi tutto»2. Di queste scritture, che spaziano nella classificazione di Wu Ming 1 dal

memoir autobiografico e poliziesco My Dark Places di James Ellroy (1996) a Sappiano le mie parole di sangue di Babsi Jones (2007), viene riconosciuta l’inclassificabilità, ma al tempo stesso si

operano due scelte molto nette e condivisibili: 1) il rifiuto della nozione di “ibridazione” di fiction e

non-fiction, in quanto ciò che importa non è mescolare ma elaborare un discorso indipendente in cui

ci sia «l’utilizzo di qualunque cosa possa servire allo scopo»3; 2) la presa d’atto che, nonostante in apparenza si possano catalogare queste scritture come una semplice prosecuzione della letteratura non finzionale più nota già dalla prima metà del ‘900 (Wu Ming 1 cita Se questo è un uomo e Cristo

si è fermato a Eboli, testi su cui in effetti conviene tornare nel disegno di una possibile genealogia),

siamo di fronte a pratiche nuove, secondo le quali un racconto a base testimoniale può essere puntellato con l’immaginazione del romanziere, che sia nell’aggiunta di piccoli dettagli non verificabili oppure nell’intramazione: in più, le vicende delle persone reali possono essere narrate

1 Wu Ming, New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Einaudi, Torino 2009, p. 41. 2 Ivi, p. 42.

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