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4. Alcune caratteristiche

4.1. Parlare per gli altr

L’uso della biografia illustrato nel precedente capitolo prepara il terreno alla prima di una serie di caratteristiche delle più interessanti fra queste narrazioni non finzionali: in esse è possibile non solo raccontare la vita di persone realmente esistite, ma anche parlare in loro vece, attraverso strategie discorsive che appartengono oggi alla narrativa d’invenzione, e non alla storiografia né alla cronaca. Nel reportage, nello scritto di viaggio, nell’inchiesta di cronaca precedenti agli anni ’90 (il saggio è una categoria a sé) è usuale riportare con delle citazioni dei discorsi diretti altrui, stando attenti a non inventare contenuti non verificati e a non rielaborarli troppo liberamente: è una doppia prescrizione della storiografia contemporanea che deve essere rispettata dagli storici, a meno di non essere considerati inattendibili nelle proprie ricostruzioni del passato. Tuttavia, alcuni esiti rilevanti della cosiddetta non-fiction italiana forzano proprio questa doppia prescrizione. Parlare per gli altri significa così, spesso, appropriarsi di documenti, testimonianze, registrazioni degli eventi, mimare i pensieri altrui, inscrivendoli in un discorso originale, e in più aggiungere alla cronaca contenuti originali, manipolare i dati di partenza, interpolare la cronaca con l’invenzione. Soffermiamoci per ora sul primo di questi due aspetti, quello che concerne la possibilità di riscrivere voci e pensieri di personaggi realmente esistiti, e che è strettamente connesso, d’altronde, ai procedimenti di invenzione più diretti e riconoscibili (per esempio, inserire nel racconto storico elementi di finzione, che siano fantastici, inverosimili o solamente non verificati).

In questo caso, vengono utilizzati personaggi reali come cassa di risonanza per un discorso che non si attiene scrupolosamente alla lettera di quanto quei personaggi hanno detto o scritto, ma che ci viene pure presentato con l’autorità del discorso veridico – dato che, in effetti, le narrazioni non finzionali, non basandosi su elementi palesemente di finzione, vogliono essere considerate anche nel loro valore autentico di testimonianza, nella loro atipica storicità. Nell’operazione, esemplata su modelli della storiografia antica (il discorso agli Ateniesi di Pericle, presumibilmente non pronunciato nell’occasione ma inventato da Tucidide), l’autore mette in bocca ai personaggi parole non riscontrate, non trasmesse da alcun documento, e quindi riconducibili al suo arbitrio. Per la testa (cioè, sciogliendo l’espressione, per la comunicabilità della dimensione interiore e non espressa in un discorso diretto), il discorso è analogo. La narrazione dell’interiorità o, secondo la

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definizione di Dorrit Cohn, la «psico-narrazione»1, è una tipologia di discorso del romanzo moderno in cui il narratore esterno in terza persona è capace di comunicare le voci interiori dei personaggi: l’autore dimostra con la psico-narrazione la possibilità di accedere a suo piacimento all’interiorità di personaggi di finzione. Ma quando questa possibilità viene rivendicata da un narratore che racconta di vicende reali, senza distorcerle tramite riconoscibili elementi di finzione, si travalica un limite ben chiaro agli storici contemporanei. L’interiorità altrui non è comunicabile, se non per ipotesi caute a partire dai dati a disposizione: congettura e inferenza sono gli strumenti per comunicare indirettamente la psiche di persone realmente esistite. Tale cautela evita allo storico di assumere un’aria di onniscienza che ricondurrebbe senza equivoci il testo alla sua immaginazione2. Se invece l’autorità del narratore diviene talmente forte da esprimere il discorso interiore dei personaggi reali non più in via congetturale, ma come psico-narrazione, o addirittura con la citazione virgolettata dei pensieri, ci troviamo di fronte all’aspetto caratterizzante di una narrazione che cerca di mantenere quello che (nella nostra sensibilità di lettori) è un paradosso3: benché si voglia conservare un’intenzionalità storica, garantita grazie alla coincidenza onomastica e all’attendibilità dei riferimenti, la disinvoltura nell’uso dei discorsi diretti è chiaramente la spia dell’invenzione, un’astuzia da romanzo, perché nella realtà «non abbiamo accesso ad altra interiorità che la nostra»4. Non è però, nel quadro di queste storie, un artificio menzognero e scorretto, una sotterranea ammissione di colpevolezza che squalificherebbe in partenza la loro validità retorica: fedeltà empirica al dato reale e onniscienza simulata “da romanzo” si danno forza reciprocamente, per conservare «quella quota ineliminabile di ritualità formale e di messa in maschera senza cui non esiste letteratura»5, nemmeno la letteratura dalle spiccate intenzioni veridiche.

1 Traduco così l’originale «psycho-narration», con cui Cohn indica, in una scelta di romanzi ottonovecenteschi, la citazione diretta del discorso interiore e la possibilità di riportarlo sulla pagina, mediato dal discorso autoriale o senza filtri, come nel caso del monologo interiore. Cohn esamina, fra gli altri, passi di Balzac, Flaubert, Joyce, Proust, mentre nel novel settecentesco di solito l’autore non rivendica la possibilità di penetrare la psiche dei suoi personaggi. V. Dorrit Cohn, Transparent Minds, cit., pp. 21-57.

2 Su congettura e inferenza per riferire il discorso interiore dei personaggi, v. Dorrit Cohn, The Distinction of Fiction, cit., pp. 26-28.

3 È da notare, e ci torneremo nella conclusione, che ciò che oggi ci appare paradossale poteva esistere senza contraddizioni nella storiografia premoderna: Erodoto e Tucidide riscrivono i discorsi di personaggi reali senza attenersi scrupolosamente a fonti scritte (anche perché l’adesione documentaria è essa stessa un portato moderno), Plutarco raffigura l’ultima notte di Bruto nelle Vite parallele con l’espediente tragico della visione fantastica, Svetonio nelle Vite dei Cesari mostra di muoversi liberamente nella psiche dell’imperatore Domiziano, e più avanti Machiavelli, che alla storiografia romana si rifà nelle Istorie fiorentine (1532), può riscrivere il punto di vista di un anonimo partecipante al tumulto dei Ciompi senza il problema, anacronistico, di rispettare dati d’archivio e dare prove di quanto afferma tramite il suo anonimo testimone. Su questo v. Jean-Marie Schaeffer, Pourquoi la fiction?, cit., pp. 264-270 (Schaeffer esamina proprio un brano di Svetonio su Domizano).

4 Ivi, pp. 262-264: 263. La capacità di “trascrizione” dei processi interiori altrui è uno dei principali indici di finzionalità per Schaeffer.

5 Raffaele Donnarumma, Ipermodernità, cit., p. 127. Sulla distinzione fra verità e realtà per queste narrazioni: «La verità è quello di cui dobbiamo essere persuasi, la realtà è ciò che bisogna mostrare; a differenza della realtà, la verità è

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Spesso, la soglia dell’interiorità altrui non viene varcata, e il discorso del narratore resta congetturale. La dimensione interiore resta preclusa, in un incrocio di prospettive e di vuoti che sono lasciati da riempire al lettore. Molti dei testi che abbiamo menzionato, in realtà, funzionano nell’ambiguità di una focalizzazione almeno in parte esterna: i saggi narrativi di Trevi, Magrelli, Pascale, che sull’ipertrofia interpretativa dell’autore-protagonista imperniano il discorso; le ricostruzioni del passato, in cui è molto rara una presentazione della psiche di personaggi realmente esistiti che non ricada nelle formule del romanzo storico e nella concessione a personaggi e vicende di fantasia. Ci sono poi non-fiction novel che si muovono in una direzione parzialmente autonoma rispetto alla simulazione d’onniscienza del modello di Capote in A sangue freddo. I pensieri trascritti di Hicock e di Dewey derivavano direttamente dalle testimonianze rese a Capote, che li ha impiantati, con alcuni riadattamenti, in una psico-narrazione camuffata. In Storie di pazzi e di

normali di Covacich, invece, la pazzia è osservata dall’esterno, studiata e decifrata nei suoi effetti,

come se il narratore assumesse l’atteggiamento di uno psichiatra, di uno studioso: le ragioni profonde degli abitanti di Villa Bisutti ci rimangono insondabili, a sottolineare che appropriarsi della dimensione interiore dei personaggi non è una scelta di un mondo possibile, ma è percepita in questo caso come una menzogna che ci allontana dalla verità. L’intangibilità della psiche degli altri è ancor più netta in molte delle narrazioni che manipolano le biografie: il narratore che indaga sulla vita di qualcun altro resta, spesso, un testimone a distanza, che è delegato a parlare per lui, ma non a parlare in sua vece, appropriandosi della sua voce. Anzi, è nello iato incolmabile fra autore-biografo e biografato che si può generare il fascino del testo, nel contrasto delle interpretazioni, nella cognizione della vita estranea e nel rispecchiamento parziale di chi scrive in chi è oggetto del racconto. Un libro come Mistero napoletano di Ermanno Rea trova la sua bellezza anche, e soprattutto, perché si affaccia su un mondo estinto (il PCI napoletano negli anni ’50) e indaga il suicidio della giornalista Francesca Spada senza pretendere di entrare nella sua testa, di capire le motivazioni del suo gesto: ma il fatto di non poter colmare i vuoti dei fatti con un’onniscienza sentita come ingannevole si rivela un vantaggio narrativo, in quanto facilita l’incrocio fra ricostruzione storica, memorie (Rea ha fatto parte, da giornalista e militante, del mondo che descrive) e indagine da romanzo giallo. Anni dopo, L’abusivo e Cronaca della fine di Franchini si muovono sulla stessa falsariga: l’autore scrive di Siani e di Dante Virgili appunto perché vuole provare a intuire cosa muove le loro azioni, vuole avvicinarsi al mistero della loro esistenza passata, senza usare una finzione avvertita quale scorciatoia: parlare in loro vece significherebbe sconfessare il senso stesso del processo di avvicinamento che sta alla base delle biografie manipolate. Può

il campo della retorica: è la porta, insomma, attraverso cui le poetiche documentarie riaccolgono quei principi intorno ai quali tradizionalmente si è costruita la nostra idea di letteratura che, pure, corrodevano così insidiosamente. L’empirico, in cui credevano di trovare il loro fondamento, non basta; la finzione non è menzogna», Ivi, p. 126.

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verificarsi al massimo, come in Point Lenana di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara, un processo di parziale identificazione, ma ipotetico e rispettoso delle distanze. I due autori, per raccontare la scalata del monte Kenya da parte di Felice Benuzzi e altri due alpinisti italiani nel 1943, in condizioni estreme (in fuga da un campo di prigionia inglese), decidono di compiere lo stesso tragitto in condizioni vagamente simili. Lo spiega Santachiara a Wu Ming 1 nelle pagine iniziali:

Non è una boutade: io voglio uno che arrivi da tutt’altre esperienze, porti con sé uno sguardo diverso … e un

corpo diverso. Voglio uno che debba faticare come mai in vita sua, e arrivi lassù stremato. Benuzzi e Giuàn

erano alpinisti, ma fecero quella scalata in condizioni precarie. Non pretendo che si vada digiuni e con attrezzatura di fortuna: avremo la guida e i portatori, mangeremo tutti i giorni, ma per te che non sei mai andato in montagna, sarà comunque un’impresa titanica. Ti sarà facile immedesimarti1.

La prima sezione di Point Lenana dà conto della scalata compiuta dagli autori nel 2010: è un gesto che serve ad acclimatarli all’atmosfera dell’evento del 1943 e restituisce al lettore un simulacro, un’imitazione dal vivo dell’esperienza di Benuzzi, ma sottolinea ancor più, per contrasto la lontananza della scalata del 1943. Possiamo conoscerla solo nella replica attuale: l’autenticità dell’esperienza in prima persona è di Wu Ming 1 e Santachiara, e non aiuta granché a chiarire cosa oggettivamente sia capitato a Benuzzi e compagni. L’identificazione simbolica che si può ottenere ripetendo l’impresa, a distanza di settant’anni, è soverchiata dalla diversità netta delle condizioni di partenza. Point Lenana ci consegna la scalata di Benuzzi racchiusa in una dimensione inattingibile, rifiuta di riscriverla e si basa, per il resto delle biografie dei tre scalatori, su testimonianze successive, lasciando la scalata sullo sfondo. Persino i documenti che la riguardano (anzitutto il resoconto Fuga sul Kenya dello stesso Benuzzi, edito nel 1947) non vengono mai citati: il racconto si espande piuttosto in direzione del saggio storico (come provano le lunghe e dettagliate note dei

Titoli di coda2), della controinchiesta sul colonialismo italiano, del razzismo della cultura italiana durante il Ventennio. Dire “io” a nome di qualcun altro, in questo ramo della non-fiction, risulta indebito, e lo scrittore non si arroga, nella narrazione, più libertà di quante gliene conceda lo stato delle cose3: più dell’esaustività, conta lo sforzo d’onestà di un’ottica parziale e imperfetta, dove gli

archivi e le raccolte di dati non possono aggiungere nulla. Solo in certi passaggi di particolare trasporto, la parete invisibile che separa il biografo e il biografato sembra incrinarsi. In un passaggio estremamente drammatico, Prunetti in Amianto può abbandonare il suo sguardo “dall’esterno” e immaginare i sogni del padre in agonia, con sollievo:

1 Wu Ming 1, Roberto Santachiara, Point Lenana, Einaudi, Torino 2013, p. 32. 2 Ivi, pp. 555-596 (It’s been a long strange trip. Titoli di coda).

3 «È chiaro che non spetta certo a me dire “io” a nome suo, perciò non mi resta che dirlo a nome mio, parlando di lei. Raccontare in prima persona, senza rifugiarmi dietro a un testimone più o meno immaginario o a un collage d’informazioni con pretese di oggettività, quello che sento risuonare della sua storia nella mia», Emmanuel Carrère,

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Tante volte mi sono chiesto se avesse sofferto […] Finalmente era libero di dimenticare quella scimmia che gli era salita sulla schiena. Sognava felice: cavalcava nelle celesti praterie, come gli eroi dei nostri fumetti western. Le sue ultime ore per noi furono pesanti, ma lui neanche se ne accorse: era con Capitan Miki e Blek Macigno, con il comandante Mark, con Gufo Triste e Mister Bluff, con Chico e Tiger Jack e con Kit Carson1.

Nelle narrazioni non finzionali in terza persona, insomma, la psico-narrazione ha luogo raramente, in passaggi meno controllati, di particolare intensità, per lo più in forma congetturale. Quando Saviano racconta della sua frequentazione col sarto Pasquale, che lavora in nero a seicento euro al mese per confezionare abiti di lusso indossati da politici e celebrità di Hollywood, si basa principalmente su informazioni acquisite nel corso dei loro colloqui («Io e Pasquale legammo molto. Quando parlava dei tessuti sembrava un profeta»)2. Ma quando riferisce di un episodio a cui non ha assistito direttamente (Pasquale vede una sua creazione indossata dalla star Angelina Jolie e decide di andare a protestare contro i camorristi che lo sfruttano), e prova a descrivere la reazione del personaggio, un misto di cautela e invenzione contraddistingue la ricostruzione del momento:

Mi immaginavo Pasquale per strada, a battere gli scarponi. Come un bambino che si stupisce del perché la vita dev’essere tanto dolorosa. Sino ad allora ci era riuscito. Era riuscito a trattenersi, a fare il suo mestiere, a volerlo fare. E a farlo come nessun altro. Ma in quel momento, quando ha visto quel vestito, quel corpo muoversi dentro alle stoffe da lui carezzate, si è sentito solo. Solissimo3.

Anche se Saviano fornisce un’interpretazione decisa di Pasquale, infelice del suo destino ma intimamente soddisfatto del proprio talento di sarto4, i pensieri di disappunto del sarto sono anticipati da una formula presuntiva («Mi immaginavo»), che attenua la libertà, presa qui dall’autore, di interpretare i pensieri del personaggio ed esprimerli al posto suo.

Sono invece rari i casi di narrazioni non finzionali che ci permettono di abitare stabilmente nella psiche dei personaggi. L’alternanza fra la voce del narratore e quella dei suoi personaggi (o fra la prospettiva dell’uno e dell’altro) è difficile da mantenere a lungo, e riferire di continuo i pensieri dei protagonisti è già una spia riconoscibile della fiction: in questo caso, dei personaggi realmente esistiti rimangono solo le apparenze e le contingenze, ma c’è una libertà creativa molto ampia su quello che essi dicono e fanno, e sulle ragioni che li muovono. Per usare una similitudine teatrale: personaggi come Hitler nell’omonimo racconto di Genna, o Elisabeth Fritzl in Elisabeth di Sortino,

1 Alberto Prunetti, Amianto, cit., p. 120. 2 Roberto Saviano, Gomorra, cit., p. 39. 3 Ivi, p. 42.

4 L’interpretazione è ribadita nella pagina successiva: «Sono sicuro che, guardando quel capolavoro che ha creato con le sue mani, Pasquale è felice. Una felicità rabbiosa. Ma questo non lo saprà mai nessuno», Ivi, p. 43. Si noti di nuovo la formula cautelativa («Sono sicuro che»).

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appaiono degli attori costretti, per via dell’inclinazione veridica dei testi, a recitare i ruoli delle loro vite senza scappatoie, ma è come se si attenessero a un copione contenente interpretazioni, emozioni, stile prettamente autoriali. La scelta narratologica, dai risvolti pirandelliani, è il punto estremo della ventriloquia dell’autore sui suoi personaggi reali, e getta una notevole ambiguità sui testi1. In Hitler di Giuseppe Genna, che solo a prezzo di una forzatura può essere definito “romanzo” come recita il frontespizio, il punto di vista predominante è quello di un narratore onnisciente che si può ricondurre facilmente all’autore Giuseppe Genna. Lo rivela la sua consapevolezza post eventum della Storia nel ripercorrere la biografia di Hitler dalla nascita fino al suicidio nel bunker; l’aria di predestinazione al Male che circonda ogni gesto e pensiero del protagonista; l’ipertrofia dei dettagli impiegata per ricostruire gli spezzoni non documentati della biografia di Hitler, che ricorda un «effetto di reale»2. Effetti del genere costellano Hitler e aumentano l’impressione di un racconto in partenza storico, ma alterato, nel suo canovaccio di partenza, da una surdeterminazione tutta autoriale, fino a diventare un po’ fasullo. Il brano della nascita di Hitler (una sequenza preclusa agli autobiografi e, di solito, irraggiungibile anche da biografi e storici) è un esempio dell’invenzione prospettica di Genna:

Klara è il nome della donna.

È sul letto, la schiena inarcata, le gambe allargate, il ventre gonfio, il sudore le riga il volto congestionato, stride come una lupa. La levatrice le allarga le cosce, la stimola. I panni bianchi, l’acqua calda nel catino di zinco: sono sulla sedia di legno e iuta sulla destra del letto.

Le mani di Klara stringono lembi di lenzuola. Il dolore inflitto è altissimo3.

La posizione dei panni «sulla destra del letto», lo zinco del catino, la sedia di iuta a destra del letto, sono alcune spie di un quadro chiaramente inventato, che si può considerare una creazione autonoma dell’autore per conferire enfasi retorica all’interpretazione mitologica di Hitler quale incarnazione di una forza maligna, nel caso specifico il lupo della mitologia norrena Fenrir; a ribadire il concetto di una lettura in chiave di predestinazione, Klara «stride come una lupa». L’ottica di Genna investe tutta la narrazione e allontana Hitler da una ricostruzione storica: l’autore seppellisce sotto il frastuono roboante del suo discorso la Storia, avvicinandola a una mitologia che suggerisce la vocazione all’assoluto per ricadere nel Kitsch. Parlare per bocca degli altri, in un simile progetto narrativo che riempie e decora le aporie del realmente accaduto, è una conseguenza prevedibile. Dietro i dialoghi che vedono protagonista prima dell’ascesa politica si riconosce

1 Per Elisabeth, Christian Raimo si è chiesto «quale statuto di verità ha questo libro» in cui si utilizza una vicenda reale per riscriverla secondo la sensibilità dell’autore. V. Christian Raimo, Su Elisabeth di Paolo Sortino, uscito sul blog «Minima&Moralia» il 25 maggio 2011, qui: http://www.minimaetmoralia.it/wp/su-elisabeth-di-paolo-sortino/.

2 V. Roland Barthes, L’effetto di reale [1968] in Idem, Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988, p. 158. 3 Giuseppe Genna, Hitler, cit., p. 13.

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facilmente l’impronta della voce del narratore; anche quelli successivi, il più delle volte basati su documenti e testimonianze e quindi più “credibili” alla prova dei fatti, s’inseriscono nel continuum della narrazione. Ma la riscrittura, indice di una rottura della convenzione storiografica, traspare senza fraintendimenti quando si tocca la sfera dei pensieri. Genna, in linea con la sua scrittura massimalista e visionaria, non usa cautele né formule congetturali, mostrando di poter accedere anche ai pensieri di Hitler, alle sue stesse allucinazioni:

La non-persona cresce e si nutre di sogni aerei. La sua mente è nell’etere vuoto, colma di immagini gigantesche: palazzi aurei immani, città ciclopiche svuotate dagli uomini, deserte. Tra gli angoli dei vicoli

vede passare un corpo titanico, che muto lo osserva.

È Fenrir1.

È una scelta che, con una coerenza radicale, persegue anche Sortino nel suo Elisabeth2, solo in apparenza riconducibile alla formula del non-fiction novel con narratore onnisciente in terza persona. Una separazione evidente fra l’ottica del narratore e quella dei due protagonisti, Josef Fritzl e la figlia-compagna Elisabeth, non è visibile. Nella ricostruzione scena per scena del “caso Fritzl”, dall’imprigionamento di Elisabeth in un bunker sotterraneo fino al processo e alla condanna di Josef, il racconto è filtrato raramente da un’allusa consapevolezza del narratore, per mantenere la