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Reportage, inchiesta sul presente, indagine del passato

3. La manipolazione dei discors

3.3. Reportage, inchiesta sul presente, indagine del passato

Se, come si è notato, le narrazioni italiane non finzionali di questi anni intrattengono un rapporto non pacificato con la quotidianità dell’esperienza, ancora più complessa risulta la relazione con le sue punte estreme e conflittuali, che ricadono nel vasto territorio della cronaca. Delitti, tensioni, scontri sociali e (più di rado) guerre costellano ciò che è stato chiamato non-fiction, costituendone il tema, l’ossessione principale, il materiale di partenza per un discorso critico sul presente, e formando il paradosso di una tendenza alla «scrittura dell’estremo» in un’epoca in cui «la realtà si dissolve tra le dita di chiunque voglia raccontarla, stretta com’è tra la Scilla del relativismo (a ciascuno la sua realtà) e la Cariddi del cliché, del luogo comune e della ripetizione»1. Negli anni ’80 la trattazione della cronaca appare rarefatta e sbilanciata verso la finzionalità del romanzo e, come ha notato Antonio Tricomi, ci troviamo per lo più di fronte a:

[…] biblioteche, per così dire, animate; pronunciamenti della letteratura sulla letteratura in confezione romanzesca; variazioni sul tema della supposta impossibilità, per il discorso letterario, di misurarsi con il presente e con la storia travestite però da narrazioni, perlopiù pretestuose o troppo univocamente metaforiche, di vicende verosimili ma sovente irrilevanti2.

Volgere l’attenzione alla cronaca è invece, nei decenni successivi, un modo di superare l’impasse della metafora e del discorso laterale sul mondo: ciò che si prefigge la narrativa non finzionale odierna non è tanto di utilizzare la cronaca come spunto di partenza, quanto invece di farne l’orizzonte per un discorso sul mondo. Lo scrittore si spinge da un lato a confrontarsi direttamente con i fatti concreti, dall’altro è portato ad approfondirne l’interpretazione, a scavare sotto la superficie dello scandalo, del giudizio giornalistico passeggero: tutte azioni che presuppongono il ruolo di un reporter non solo incaricato di trascrivere, ma anche di interpretare i fatti e inscriverli in una cornice narrativa sensata (la più immediata e accessibile resta quella che fa reazione con la materia autobiografica).

Rinnovando la tradizione del reportage, si avverte la possibilità di fare cronaca del presente in concorrenza col giornalismo3, complicando un’irrinunciabile inclinazione veridica. Si sente il bisogno di raccontare la realtà senza mentire: per farlo, il metodo più diretto è garantire la propria

1 Daniele Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Quodlibet, Macerata 2011, p. 15.

2 Antonio Tricomi, La Repubblica delle lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea, Quodlibet, Macerata 2010, p. 180.

3 «Non inchieste tradizionali dunque, ma, quasi sempre, controinchieste, in cui la presenza dell’autore-narratore lampeggia più o meno discretamente accanto a quella dei protagonisti, in genere per introdurre un elemento soggettivo – una chiave interpretativa, un giudizio morale, un disincanto», Gianluigi Simonetti, I nuovi assetti della narrativa

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presenza sul luogo in cui gli eventi stanno prendendo luogo, e la forma narrativa che meglio risponde a questa esigenza è il reportage. Nato durante la guerra di Crimea (1854-1856) con William H. Russell, corrispondente del «Times», il reportage prevede che un cronista si rechi sui luoghi di un conflitto e dia conto di quanto lì avviene. Solitamente, se il luogo è lontano (come di fatto avviene spesso, in un’epoca di conflitti a bassa intensità che riguardano in minima parte l’Europa), il reportage può ricordare la modalità dello scritto di viaggio, di cui condivide gli scenari esotici e le distanze linguistiche, geografiche, culturali fra reporter e persone interrogate. La differenza passa allora per la diversa tradizione cui reportage e scritto di viaggio si rifanno: contraddistinto dall’adesione all’attualità, legato allo sviluppo dei quotidiani e a una comunicazione immediata e d’impatto, il primo1; il secondo, spesso ispirato da un bisogno di evasione, mosso dalla curiosità di conoscere ambienti nuovi ed evadere da se stessi, non vincolato alla restituzione immediata, all’esigenza di trascrivere ciò che sta avvenendo per arrivare prima degli altri. Il

reportage serve alla denuncia, al dissotterramento di crimini impuniti (viene scritto per rendere

subito conto, da esterno, di qualche fatto eclatante), e implica un impegno notevole nella raccolta delle testimonianze dirette e nella cernita dei documenti (se ve ne sono), al servizio di una visione d’insieme che il reporter deve possedere: quella dell’inchiesta è una tradizione che non prevede, nella sua realizzazione novecentesca, la neutralità, ma è inscindibile da una presa di posizione ideologica. Vale per i reporter di professione e ancor più, come ha notato Clotilde Bertoni, per gli scrittori che scelgono di cimentarsi nella disciplina:

Per molti inoltre, da John Dos Passos a George Orwell, ad André Malraux, la partecipazione diretta ai

conflitti è una tappa decisiva, da cui la loro produzione deriva sia respiro ideologico, sia (in un’epoca in cui il realismo è abbondantemente in crisi) un vigore realista sperimentale, che sacrifica o che addossa l’intreccio alla ricognizione documentaristica2.

La premessa è necessaria per capire cosa c’è di rilevante nel riuso dello (chiamiamolo genericamente così) scritto d’inchiesta letterario degli ultimi venticinque anni, che non si basa esplicitamente né sull’odeporica né sulla saggistica. Per rispondere, difatti, prima bisogna specificare che la manipolazione del reportage, per come lo abbiamo sinteticamente delineato qui, non copre tutto lo spettro delle scritture non finzionali focalizzate sulla cronaca. Non tutte le “storie vere” sono riducibili alla sua forma, non tutte implicano una presenza dell’autore-cronista, sono mosse dall’immediatezza e sottomesse al vincolo della presenza sulla scena; in certi casi, sono

1 Per una panoramica, è ancora utile lo studio classico di Phillip Knightley, Il dio della guerra. Dalla Crimea al

Vietnam: verità, retorica e bugia nelle corrispondenze di guerra [1975], Garzanti, Milano 1978.

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accostabili alla tradizione discrepante del non-fiction novel con narratore esterno e assente come personaggio, e le esamineremo più avanti.

Altre volte invece, ed è un campo più scivoloso e vasto, la ricostruzione narrativa si applica a un passato più o meno remoto, creando una modalità di inchiesta spostata all’indietro: autori come Massimo Carlotto (Le irregolari. Buenos Aires Horror Tour, 1998), Filippo Tuena (La grande

ombra, 2001; Le variazioni Reinach, 2005), Helena Janeczek (Lezioni di tenebra, 1997; Le rondini di Montecassino, 2010) e Antonio Scurati (Il tempo migliore della nostra vita, 2015) compiono

indagini sul passato, ricostruiscono episodi bellici e biografie di persone realmente esistite sulla base di accurate ricerche d’archivio e testimonianze orali (di familiari, conoscenti, testimoni). Tuttavia, il loro lavoro si discosta da quello degli storiografi di professione, principalmente per tre aspetti (cui aggiungeremo, nel capitolo 4, le licenze d’invenzione di narrazioni che si professano storiche): l’attenzione particolare alle vite dei protagonisti, con un grado più o meno ampio di rielaborazione creativa di pensieri e testimonianze dal passato1, la resa narrativa, non specialistica né scientifica, degli avvenimenti, con un’intramazione o una scansione tematica rilevanti, l’interferenza dell’autore-storiografo con la sua ricerca. Questo terzo aspetto, che si potrebbe definire il corrispettivo di un “dietro le quinte” cinematografico, in un certo senso recupera un elemento del reportage, cioè la presenza del cronista all’interno della cronaca raccontata, ma lo fa diventare uno snodo dell’indagine: la ricerca storiografica, in un’accezione critica, acquista un nuovo senso nel rapporto con l’autobiografia dello storico, entra in cortocircuito col presente dell’autore. La storia ridiventa, sul modello antico, autopsia e discorso morale. Se la si indaga, è per chiarire a se stessi cosa se ne può apprendere, come ci si confronta con gli uomini del passato, quali sono le eredità da recuperare. È l’obiettivo esplicito dei narratori sopra elencati, e di altri che rigettano una finzione avvertita come inerte e plasmano la propria figura autobiografica quale tramite di un passato da ricomporre, per trovare un magistero ancora valido per chi scrive oggi. Un principio simile muove Le rondini di Montecassino, dove Janeczek si concentra su un episodio di liberazione degli Alleati durante la Seconda guerra mondiale, la battaglia di Montecassino del gennaio-maggio 1944, in un tentativo di raccordare l’esperienza privata, le voci dei superstiti e il

1 Ci sono due estremi in questa riscrittura del passato storico: uno finzionale della Grande ombra e dei Memoriali sul

caso Schumann (2015) di Tuena, in cui l’autore crea ad arte carteggi, dialoghi “dal vivo” e monologhi interiori dei

membri della famiglia Schumann, in modo da giustificare con un’interpretazione immaginaria e delle forzature palesi sui documenti la follia del compositore tedesco; uno rigoroso, come quello di Scurati che confronta la storia della propria famiglia con la vicenda di Leone Ginzburg, ma si mantiene nel perimetro della cautela e del rispetto dei fatti: «Sebbene racconti persone e fatti realmente esistite o accaduti, questo libro è un’opera letteraria non storiografica. Ciò nonostante, fin dove ho potuto, mi sono proibito ogni libertà d’invenzione riguardo alla ricostruzione di quei fatti e ogni introspezione riguardo ai sentimenti, sensazioni e pensieri di quelle persone, salvo quando attestati nei loro scritti o dichiarati nelle loro testimonianze», Antonio Scurati, Il tempo migliore della nostra vita, Bompiani, Milano 2015, p. 265 (Ringraziamenti e riconoscimenti).

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passato oscuro dei genitori1 (la madre sopravvissuta alla deportazione, il padre che racconta, mentendo, di aver combattuto a Montecassino contro i nazisti). Il potere dello scrittore, qui, è di partire dai documenti ed espanderli, conferendo loro un potere comunicativo più ampio di quello che effettivamente lo storico ne trae. I puri nomi delle persone di ieri vengono riempiti attraverso una narrazione continua, come per il passaggio in cui l’autrice riflette sull’arbitrio di «riempire» la vita del soldato Kułakowski solo in base ad alcune date che lo riguardano. Sarebbe meno criticabile partire dai dati a disposizione e imbastire una narrazione romanzesca con i dettagli cambiati, ma Janeczek rifiuta sistematicamente l’invenzione come espediente per contraffare i dati di partenza, nella certezza che tramandare il nome esatto sia il compito del narratore veridico, in bilico fra autobiografia e inchiesta: «Ridisegnare un corpo immaginario quale tributo alla sua vera vita: vorrei pervenisse a questo il potere simbolico dell’invenzione»2.

Su una via analoga sta la prosa non finzionale di Affinati, sin dagli esordi mosso dal «desiderio di concepire la letteratura come uno strumento di riflessione sulla propria vita»3, che si muove fra

reportage autobiografico (come in Campo del sangue, 1997, incentrato su un viaggio ad Auschwitz

e sul ricordo della madre, scampata fortunosamente alla deportazione)4 e ricerca sulle esistenze di personaggi esemplari (come nelle biografie sui generis Un teologo contro Hitler. Sulle tracce di

Dietrich Bonhoeffer, 2002, e L’uomo del futuro. Sulle strade di Don Lorenzo Milani, 2016). Non

stupisce la spinta a incrociare la propria esperienza di insegnante e cittadino con l’operazione di memoria sui luoghi del ‘900, perché, come specifica l’autore in un dialogo con Massimo Rizzante: «non voglio essere assente dal luogo delle operazioni […] ogni mia opera, come dicevo, è un’opera di ricomposizione. In questo senso, io non invento mai una storia. Ritorno sulle sue ragioni»5. Questo ritorno sui luoghi del passato, naturalmente, deve essere riversato in una comunicazione aperta, piana, che non rimandi immediatamente a categorie della fiction. Se è legata alle convenzioni di genere, anche una narrazione storica può assumere una sfumatura irreale, vagamente da detective story, e la storia suonare come una ripetizione della letteratura commerciale. Avviene

1 «Eppure, a questo incrocio, mi ritrovo in un punto di possibile, vertiginosa, terribilmente oggettiva convergenza fra la mia storia immaginaria e reale e quella accaduta una sessantina d’anni fa a esseri umani in carne e ossa. E non importa che quelle persone siano i miei stessi genitori o i maori partiti dalla Nuova Zelanda, posso solo cercare di afferrare le loro tracce facendo il percorso inverso, come un salmone che risale i fiumi all’incontrario: partire dall’informazione, dalla raccolta di documenti, dati, pezze d’appoggio; cercare che dall’accumulo passino a disporsi in una mappa che equivalga a conoscenza; sperare che assorbendola si riempiano i vuoti, che si animi di vita propria», Helena Janeczek,

Le rondini di Montecassino, Guanda, Modena 2010, pp. 145-146.

2 Ivi, p. 343.

3 Antonio Tricomi, La Repubblica delle lettere, cit., p. 342.

4 Sull’accento autobiografico di Campo del sangue e sull’accettazione di «un confronto compiuto con la storia più vasta, per attraversarla senza cadere nel vuoto», v. Alberto Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano

contemporaneo, cit., pp. 214-221 : 220.

5 Eraldo Affinati, Massimo Rizzante, Le ragioni del ritorno, uscito sul blog «Nazione indiana» il 2 agosto 2008, qui: https://www.nazioneindiana.com/2008/08/02/le-ragioni-del-ritorno/.

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così nelle Irregolari di Carlotto (e, in misura minore, nelle memorie sconcertanti di persecuzione giudiziaria del Fuggiasco, 1995), che rischiano di trasformare l’oggetto d’indagine, nonostante il tema serissimo e tragico (i desaparecidos argentini e le richieste di giustizia, inascoltate dal governo, delle Madri di Plaza de Mayo), in una variazione poliziesca dell’indagine sui delitti irrisolti: il coinvolgimento del lettore, in questo caso, passa per gli schemi convenzionali della letteratura di consumo. La ricerca delle radici diventa un’epopea personale che ripete i linguaggi del romanzo di genere, in direzione di una struttura disordinata e ridondante1 (la vicenda si svolge fra due estremi cronologici del 2 settembre 1996 e del 15 gennaio 1998, fra il Sudamerica e l’Italia, ma l’ordine del racconto è intricato), al punto da depotenziare il carico di informazioni concrete sui

desaparecidos che pure Le irregolari veicola.

Il punto che accomuna tutte queste manipolazioni della macrocategoria dell’inchiesta (eterogenee sia negli approcci sia nello sguardo temporale, volto al presente o al passato), probabilmente, è la preferenza accordata alle testimonianze orali e al registro dell’esperienza (dell’autore e delle persone coinvolte), invece che alla garanzia dei documenti scritti; e, in subordine, è in comune la messa in narrazione del fatto di cronaca, dell’oggetto d’indagine, anche seguendo un ordine tematico e non una trama composta di scene consequenziali. Chiarito ciò, è necessario fare un’ulteriore distinzione e separare il reportage dalle indagini sul presente trasfuse nel discorso di un

non-fiction novel sul modello di A sangue freddo di Capote. Difatti, il non-fiction novel incontra

ancora una certa fortuna nella scena italiana e va da riprese fedeli e puntuali a rielaborazioni inclini alla visionarietà e alla soppressione dell’esattezza in favore di una prospettiva tutta interna ai personaggi: se per il secondo caso si può citare Elisabeth di Sortino (sul quale torneremo proprio per il punto di vista interno e la restituzione arbitraria della dimensione interiore di persone realmente esistite), per il primo caso uno fra gli esempi cronologicamente più alti è l’ Erede. Pietro

Maso, una storia dal vero (1992) di Gianfranco Bettin, che da Capote desume chiaramente l’eclissi

dell’autore, la pretesa di oggettività, le caute incursioni nella vita interiore dei personaggi (ricostruita grazie a una scrupolosa preparazione documentaria), il racconto dei fatti a imitazione del romanzo realista ottocentesco in terza persona. L’erede ricostruisce la storia dell’omicidio del

1 Su questo, è ottima la lettura di Milanesi, che sottolinea gli echi pop e i prestiti d’invenzione delle Irregolari e ascrive il testo, eloquentemente, a una tipologia larghissima di romanzo: «La composizione complessa del libro impedisce di considerarlo come un nonfiction novel coerente, ma ci viene il sospetto che in questo genere le opere più riuscite non possano essere mai coerenti. […] Il romanzo è costruito secondo tre principi: il racconto del viaggio immaginario

Buenos Aires horror tour (forse un calco del Rocky Horror Picture Show, il film di Jim Sharman, 1975), una sorta di

giro turistico in pullman durante il quale Santiago, l’autista, conduce i suoi passeggeri nella notte di Buenos Aires sui luoghi dei sequestri e delle torture, nei campi di detenzione clandestina dei desaparecidos, e davanti ai generali responsabili della morte di 30000 oppositori al regime e dell’esilio di un milione e mezzo di loro; il giro è a volte intercalato da digressioni in cui le madri e le nonne raccontano in prima persona il loro incubo», Claudio Milanesi,

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diciannovenne veneto Pietro Maso ai danni dei genitori per accaparrarsi in anticipo l’eredità, e la utilizza come chiave per interpretare «il microcosmo, il contesto in cui quel medesimo ambiente locale si colloca nonché l’universo educativo e culturale in cui tutto – protagonisti, vittime, microcosmo, contesto – è a sua volta inserito»1: un universo, vale a dire, in cui l’etica del lavoro dei padri si scontra con un desiderio di benessere che non conosce mediazioni né attese. L’omicidio assume dunque i caratteri di un patente conflitto intergenerazionale, e la storia di Pietro e dei suoi amici (che lo assistono sin dalla progettazione del duplice omicidio) appare l’esito coerente e criminale di una mentalità comunemente accettata («Quella storia parlava di noi, dunque. Quel vento idiota soffiava per tutti»)2. Per Bettin, raccontare la vicenda significa ricostruire le psicologie, cercare le ragioni delle parti in causa, provare a entrare nella testa degli assassini, cercare di individuare torti e ragioni, in un tentativo che è sì letterario, ma suona anche un preciso atto d’accusa e l’ideale prosecuzione, su altre vie, di un’indagine giudiziaria:

La sottovalutazione del ruolo dell’ambiente sociale nella vicenda da parte della Corte di Verona è semplicemente incredibile. E ingannevole è il messaggio che invia: state tranquilli, voi non avete responsabilità, il “contesto” è pulito, e queste cose – una volta isolati i mostri, o i malati – non accadranno mai più. In questo senso, il processo Maso è stato anche, parallelamente a un processo ordinario, un processo “politico”3.

Quanto alle modalità narrative e all’ottica in cui viene condotta l’inchiesta, L’erede riprende il narratore esterno in terza persona e gli conferisce un’onniscienza discreta, parcellizzata. Pur in modo più cauto di Capote, la ricostruzione narrativa della cronaca si concede piccoli scampoli da romanzo, inverificabili e arbitrari («Dal juke-box, intanto, viene una musica triste. Chissà chi ha scelto questa canzone, pensa Michele. Musiche così nel garage di Damiano non se ne ascoltano»)4, esamina le dinamiche dei familiari e le reazioni difensive della comunità, occhieggia alle ossessioni private, come quella del complice Paolo per il film horror Nightmare, guardato a ripetizione ogni notte («In quel vuoto che resta a volte dopo la notte, dopo una lunga giornata assolutamente normale, dopo gli amici, la famiglia, la fidanzata, e prima del lungo sonno fino all’indomani, Freddy fa compagnia a Paolo»)5. Il lavoro d’inchiesta è sottomesso a una narrazione ordinata, dall’andamento cinematografico6 (anche per i “cambi” di scena da un ragazzo all’altro, nel corso

1 Gianfranco Bettin, Eredi. Da Pietro Maso a Erika e Omar, Feltrinelli, Milano 2007, p. 9. 2 Ivi, p. 32.

3 Ivi, p. 163. 4 Ivi, p. 20. 5 Ivi, p. 68.

6 «Gli atti giudiziari e la realtà locale, i verbali di interrogatorio e le interviste con la gente sono spezzettati come i fotogrammi di una pellicola cinematografica», Alberto Papuzzi, Recensione a L’erede in «L’Indice dei libri del mese», febbraio 1993.

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dei capitoli), che si sofferma su speranze e paure degli amici di Pietro: ciò che interessa all’autore è indagare, con lo sguardo di uno studioso privo di moralismi, la normalità delle cause, la banalità (e anche, ambiguamente, la comprensibilità) dell’omicidio, compiuto per mancanza di alternative e per il desiderio di una vita più agiata1. A rimanere in ombra, nella costruzione scena per scena intervallata dagli approfondimenti sui personaggi, è proprio il protagonista e la mente dell’omicidio, Pietro, di cui veniamo a conoscenza tramite i pareri degli amici e le testimonianze di conoscenti e datori di lavoro. Il ragazzo è l’unico a rimanere al di qua di un vuoto interpretativo che per il resto, nella scrittura ordinata di Bettin (che si avvale anche di studi sul territorio e si confronta con pareri di psichiatri e specialisti), cerca continuamente di chiarire i passaggi poco chiari, riempire i vuoti, ricomporre i frammenti: probabilmente per significare quanto il suo gesto, privo di motivazioni profonde, sia innescato da un bisogno superficiale di avere subito i soldi dell’eredità e spegnere ogni preoccupazione materiale (per questo tratteggio essenziale, La Porta parla di Pietro Maso nell’opera come di un «”teorema” […] convincente, ma privo di ombre e di dubbi»)2. Quando

l’autore si sofferma a riflettere sullo statuto del suo libro e sottolinea la possibilità di manipolare la narrazione pur aderendo alla verità storica, è alle ellissi sul suo protagonista che sta pensando:

Questa è una storia dal vero. Come certi ritratti che riproducono fedelmente gli occhi, il viso, le mani di