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Tra 1953 e 1955 gli articoli di “Produttività” si concentrarono con decisione sulla tematica delle relazioni umane, promuovendone l’impiego. Anche l’attività dei comitati per la produttività fu diretta nel senso della propaganda dei nuovi metodi di rapporto con la forza lavoro.

Sul nono numero del 1953 l’Ing. Annibale Chiappi88 esortò le imprese a coinvolgere i lavoratori nella vita sociale dell’azienda mediante un sistema di comunicazioni bilaterali «che fug[asse] ogni possibile malinteso e che mir[asse] a stabilire una completa reciproca comprensione fra direzione e lavoratori […] vitale per un’azienda moderna»89. Chiappi faceva esplicito riferimento a La condizione operaia di Simone Weil, che auspicava per le fabbriche un nuovo regime di partecipazione, nella quale gli operai non fossero legati al lavoro per costrizione90. Questo implicava anche un’azione pedagogica, come avveniva negli USA, dove le aziende divulgavano idee e principi economici: «mutare o chiarire le idee economiche e sociali dei dipendenti è lo scopo di tale attività educativa»91. L’avvicinamento alle teorie economiche avrebbe introdotto i dipendenti alle necessità produttive, permettendo loro di cogliere nelle decisioni della programmazione aziendale gli aspetti benefici per la collettività: «i dirigenti e i dipendenti hanno interessi mutui e pertanto debbono avere strette relazioni personali» e «lo sciopero deve essere indetto solo dopo che la mediazione è fallita e inoltre deve essere autorizzato da votazioni segrete favorevoli della maggioranza dei lavoratori»92.

Le relazioni dal basso, che stabilivano una direzione dei rapporti dai lavoratori alla direzione, erano mosse da uno spirito diverso. L’intervista effettuata da uno specialista doveva «servire come mezzo attraverso il quale la direzione dell’azienda può direttamente conoscere le reazioni dei dipendenti […]; servire come mezzo terapeutico contro il malcontento represso permettendo al lavoratore di esprimere liberamente ciò

88

Capo dell’ufficio tecnico del CNP.

89

A. Chiappi, Comunicazioni bilaterali: un efficace strumento per le relazioni umane, “Produttività”, n. 9, 1953, p. 847.

90

Chiappi riporta il brano seguente tratto da S. Weil, La condizione operaia, Milano, Comunità, 1952: «È necessario… che gli operai si sentano legati alla produzione da qualcosa di diverso della preoccupazione ossessiva di guadagnare qualche soldo di più guadagnando qualche minuto sui tempi fissati. Bisogna che possano mettere in azione le facoltà che nessun essere umano normale può lasciar soffocare in se stesso senza soffrire e senza degradarsi, l’iniziativa, la ricerca, la scelta dei procedimenti più efficaci, la responsabilità, la comprensione dell’opera da compiere e dei metodi che debbono essere impiegati» (p. 851).

91

Ivi, p. 848.

92

che pensa […] comunicazione dall’alto verso il basso portando a diretta conoscenza dei dipendenti i motivi che inducono la direzione a seguire una certa condotta»93.

Le proposte di Chiappi trovavano un punto di sintesi nello strumento della cassetta dei suggerimenti: egli riteneva, infatti, che l’azienda che avesse pubblicizzato mediante giornali aziendali e lettere ai dipendenti i premi per le idee migliori, avrebbe ottenuto collaborazione e rafforzato i legami così da «sostituire all’interesse specifico per il singolo lavoro quello nei riguardi dell’andamento dell’azienda nel suo complesso […], l’utile che può derivarne alla collettività e quindi indirettamente a sé stesso»94.

Gianfranco Magnaghi95 problematizzò e contestualizzò al meglio le relazioni umane nell’impresa, trattando del piano delle aziende sperimentali assistite dal Fondo per l’Industria Meccanica dal 1952. Partendo dal presupposto che «i lavoratori hanno il senso profondo, anche se talora confuso e oscuro, della socialità»96, Magnaghi si proponeva di approfondire le tecniche miranti a valorizzarlo e tradurlo in pratica con le relazioni umane.

Non era sufficiente addestrare i capi ad essere il tramite tra direzione e lavoratori, né bastava migliorare la classificazioni di mansioni e retribuzioni, quando i dirigenti negavano il saluto ed erano restii a lodare i lavoratori era necessaria l’instaurazione di un clima nuovo, a partire dai dirigenti, scendendo nella scala gerarchica: «il ruolo principale dei capi nelle aziende moderne […] consiste nel contributo che essi possono dare alla fusione e armonizzazione di lavoratori […] in guisa da farne gruppi omogenei che operano con un vero e proprio spirito di squadra»97.

Per quanto riguarda il rapporto con le maestranze, Magnaghi riteneva fondamentale monitorarne i comportamenti e comprenderne gli umori. I capi, con un buon addestramento in pratiche psicologiche, avrebbero dovuto classificare i membri della propria squadra per fornire all’impresa «uno studio “permanente” del comportamento, delle capacità delle attitudini di tutti gli impiegati […] oggetto sia di promozione che di licenziamento»98. ciò avrebbe consentito un

93 Ivi, p. 851. 94 Ivi, p. 854. 95

Membro della Confederazione Italiana Dirigenti e delle Alte Professionalità (CIDA), autore di Valutazione del lavoro nell’impresa e degli uomini che vi operano: lezioni tenute al Corso per dirigenti di aziende presso il Politecnico di Milano, Milano, Associazione lombarda dirigenti aziende industriali, 1954 e La retribuzione a cottimo: commento pratico della disciplina corporativa dei cottimi ad uso delle aziende industriali artigiane e cooperative, Roma, Buffetti, 1942.

96

G. Magnaghi, Un piano per il miglioramento delle relazioni umane nell’azienda, “Produttivtà”, n. 5, 1953, p. 457.

97

Ivi, p. 458.

98

costante monitoraggio e, allo stesso tempo, una consapevolezza che l’impegno di ciascuno non sarebbe rimasto ignoto alla direzione.

Magnaghi proseguì l’approfondimento sul numero 9 dello stesso anno, auspicando l’introduzione dei test psicologici per studiare il nuovo assunto, citando anche l’impiego di una speciale macchina, chiamata negli USA “cronografo interattivo”, in grado di calcolare tempo di parola e pause dell’intervistato durante l’inchiesta conoscitiva, ossia di coglierne esitazioni e slanci.

Considerando l’ingresso in fabbrica come «uno dei “punti di fusione” in tema di manovra psicologica per l’instaurazione di migliori relazioni umane»99, Magnaghi sottolineava l’importanza di fornire ai nuovi assunti pubblicazioni sulla fabbrica, la sua storia e la sua “mission”, per utilizzare il moderno linguaggio aziendale:

«questo opuscoletto vuol essere una introduzione ad altre informazioni che ti daremo in futuro, perché il colloquio iniziato oggi non è fine a se stesso.

Noi riteniamo che ti sarà gradito ricevere tutte le possibili informazioni sulla tua fabbrica e sul tuo lavoro.

E speriamo che, a un certo momento sentirai la necessità di averle, al punto di non potere rinunciarci.

Ecco: in quel momento noi cominceremo ad essere una vera comunità di lavoro»100.

La necessità di risolvere il perdurante ostacolo rappresentato dalla variabile umana sulla produzione costituiva il filo conduttore nella ricostruzione della storia della sociologia del lavoro presentata da Luciano Potestà sul secondo numero del 1954.

Superata la fase del primo taylorismo, secondo Potestà il fattore umano aveva assunto un ruolo preminente tra gli interessi dei sociologi che iniziavano a volgere la loro attenzione al lavoro: ciò «ebbe origine […] dalle preoccupazioni destate negli ambienti della direzione di imprese dal verificarsi di vari intralci al normale svolgimento della funzione produttiva»101.

Potestà fissava quindi la nascita della sociologia del lavoro102 a partire dagli studi di Elton Mayo presso la Western Electric di Hawtorne, che legava indissolubilmente alle dichiarazioni di Henry Ford, presidente dell’omonima casa automobilistica nonché

99

G. Magnaghi, Relazioni umane nell’azienda e selezione del personale, “Produttività”, n. 9, 1953, p. 844.

100

Ivi, p. 846.

101

L. Potestà, Sviluppi e tendenze della sociologia del lavoro, “Produttività”, n. 2, 1954, p. 168.

102

Potestà presentava il panorama della disciplina diviso tra sociologia industriale e sociologia del lavoro trovandosi in accordo con la rivista francese “L’année sociologique” che nel dopoguerra aveva raccolto le diverse tematiche vicine al fattore umano del lavoro, quali «progresso tecnico e progresso morale - fattore umano - il lavoratore e l’impresa - orientamento, formazione e selezione professionale – inchieste sociologiche nell’industria – sociometria e gruppi industriali», precedentemente ospitate dalla rubrica “Technologie”, nella rubrica “Sociologie du travail”.

erede spirituale del taylorismo, il quale aveva richiamato l’esigenza di attribuire al fattore umano l’interesse che finora si era incentrato solo sulla macchina.

L’articolo individuava in due innovazioni il contributo maggiore apportato dal sociologo americano: l’esperienza dei gruppi e l’utilizzo dell’intervista. Mayo aveva dimostrato che il fattore umano era la variabile determinante dell’aumento della produttività, e che esso era molto spesso svincolato da premi e incentivi economici. A ciò Mayo affiancava il metodo dell’intervista libera nella quale un “counsellor” aveva modo di parlare con il lavoratore in modo aperto e rilassato

Potestà vedeva nell’opera di Mayo un momento di svolta, ma si rendeva conto di come la disciplina dovesse essere integrata da altre scienze: «la Sociologia del lavoro, […] entro l’azienda deve condurre la sua ricerca, mentre l’attività teorica non deve ritenersi vincolata da tali confini, e pertanto deve mantenere stretti rapporti con altri campi di ricerca e mirare all’integrazione dei risultati sperimentali frutto delle proprie e delle altrui indagini»103.

Facendo riferimento alla scuola di Chicago, presso la quale era operativo un centro per le relazioni umane, l’autore polemizzava con il sociologo francese Georges Friedmann, critico verso l’impiego delle inchieste per scopi meramente normativi da parte delle direzioni, schierandosi a favore di un utilizzo pratico del lavoro dei sociologi: «i risultati di una inchiesta di Sociologia del lavoro, oltre a confermare o smentire ipotesi sperimentali formulate a livello teorico, possono e debbono, a nostro avviso, fornire pareri ed orientamenti in merito alla condotta pratica di una politica della Direzione dell’impresa»104. Per ottenere tale risultato, tuttavia, sarebbe stata necessaria tra “accademici” e “pratici”, cioè tra sociologi legati all’accademia e sociologi attivi sul campo, una sinergia che, pur ammettendo un rischio di strumentalizzazione, restava fondamentale: «se un’inevitabile “ambiguità” può risultarne, essa rappresenta il prezzo dei vantaggi conseguiti (soprattutto: sviluppo degli studi e delle ricerche sperimentali), prezzo non gravoso, sempreché gli accademici siano stimolati ad un costante sforzo di chiarificazione metodologica e precisazione concettuale»105.

103

L. Potestà, Sviluppi, cit., p. 174.

104

Ibidem.

105

I sociologi andavano dunque valorizzati anche nel contesto aziendale. L’articolo accoglieva il monito di Camillo Pellizzi106, titolare della prima cattedra di Sociologia e protagonista delle attività dell’EPA, laddove scorgeva nella mentalità dei dirigenti italiani la tendenza al ricorso a ingegneri o aziendalisti «per la soluzione di quei problemi i quali […] non cessano di essere […] problemi sociali»107.

Potestà affermava la necessità per le inchieste di accomunare il punto di vista della direzione e quello operaio, perché uniti dallo stesso interesse di una maggiore produttività aziendale. Citando le parole di F.W. Taylor, riconosceva alla sociologia la capacità di ricomporre divisioni e conflitti: «Ci sembra di poter concludere […] con l’affermazione che l’efficienza produttiva è in rapporto diretto al benessere del lavoratore, affermazione che costituisce, fra l’altro, un sostanziale ponte di collegamento fra la moderna Sociologia del lavoro e la precedente tradizione dello “scientific management”, ispirata al pensiero di un uomo il quale scriveva, oltre 30 anni fa, queste frasi: “la maggioranza degli uomini crede che gli interessi fondamentali dei datori di lavoro e dei prestatori d’opera siano necessariamente antagonistici. La dottrina dello Scientific Management, al contrario, ha come cardine la ferma convinzione che i reali interessi delle due categorie coincidano in un unico, medesimo interesse” »108.

Sul numero 8 del 1954 veniva riportato un approfondimento dell’intervento che Edoardo Abbele109, esperto in psicotecnica e Human Relations, aveva tenuto presso il convegno della Società Montecatini a Follonica110. Abbele aveva assunto un punto di vista incentrato sulla concretezza che gli veniva dalla sua attività presso la Olivetti di Ivrea, e orientato al superamento di difficoltà comunicative tra direzione e maestranze mediante consultazioni miste. Egli contrapponeva le relazioni umane ai metodi

106

Potestà faceva riferimento a C. Pellizzi, I rapporti umani nel lavoro, “Studi politici”, n. 1-2, 1953.

107

L. Potestà, Sviluppi, cit., p. 177.

108

Ivi, p. 178.

109

E. Abbele, allievo negli USA di G. Salvemini, lavorò come esperto di psicologia industriale presso l’Olivetti di Ivrea di cui diresse la rivista “Tecnica e organizzazione”. Nel 1950 creò a Firenze la casa editrice Organizzazioni Speciali (ora Giunti O.S.) al fine di introdurre in Italia dalla Francia manuali e apparecchiature psicotecniche per la misurazione della destrezza dei lavori manuali. Nel 1951 tradusse N. Davis, Problemi umani nell’industria, Firenze, Editrice Universitaria. Nel 1960 raccolse l’eredità della rivista “Bollettino di psicologia e sociologia applicate” diretta da A. Marzi e C. Pellizzi nella rivista trimestrale “Bollettino di psicologia applicata: periodico di studi, di ricerche e di applicazione sui problemi del lavoro”.

110

Gli atti del convegno si trovano in Convegno sulle Relazioni umane nell’Industria mineraria: Follonica, 12-13 Marzo 1954, Grosseto, 1954.

paternalistici «secondo i quali – peccando di superficialità – si (riteneva) ancora in troppi settori di poter risolvere i rapporti umani nell’impresa»111.

Era fondamentale educare il lavoratore ad avere piena consapevolezza del valore del lavoro: «l’uomo che partecipa al gruppo di lavoro ha oggi – o, se non lo ha, conviene educarlo ad averla – la coscienza del compito che assolve e dell’importanza che il compito stesso ha nel complesso organizzato, ma soprattutto la coscienza piena dei suoi diritti cosicché da questa situazione emerge il vivo desiderio del rispetto della sua personalità come bene individuale non annullabile […] e non come un lavoratore al quale una parte dei diritti viene riconosciuta se e in quanto il responsabile della direzione glieli vuole riconoscere e a puro titolo di concessione»112.

Il valore morale del lavoro e lo spirito di gruppo rimanevano il punto di partenza per correggere «la situazione determinatasi in conseguenza del rapido evolversi del processo di industrializzazione che, sfociando nel macchinismo, tende a comprimere la personalità umana quasi annullandola, per trasformarla da una parte in merce soggetta alle sole leggi del mercato e dall’altra ad un accessorio della macchina»113. Il lavoratore frustrato dalla cattiva applicazione degli incentivi individuali «rappresenta non solo un elemento che ha forti cariche negative […] ma diviene addirittura un cattivo cittadino»114. La frustrazione individuale si sarebbe riflessa inoltre sull’insieme del gruppo di lavoro, e le relazioni umane dovevano intervenire perché si ristabilisse una condizione favorevole115.

111

E. Abbele, Le relazioni umane. Un esperimento di impostazione del problema sul piano della consultazione mista, “Produttività”, n. 8, 1954, p. 747.

112 Ivi, p. 747. 113 Ivi, p. 748. 114 Ibidem. 115

In Le relazioni umane nell’industria, Monza, Itis, 1957, Abbele affermava, tuttavia che a volte metodi autoritari si rivelavano necessari per il funzionamento dell’azienda «il fatto di vivere in un regime democratico non significa affatto che i principi che ispirano questo sistema di convivenza sociale, vengano applicati in ogni gruppo di lavoro. D’altro canto è altrettanto vero che i principi democratici in questa sede potrebbero egualmente essere applicati anche in una società nazionale retta in regime dittatoriale» (p. 40). Per quanto riguarda i sindacati non collaborativi il giudizio era netto: «se, per ipotesi, ammettessimo l’esistenza di un gruppo di lavoro, nel quale tutte le regole di relazioni umane delle quali abbiamo discorso, fossero compiutamente applicate, potremmo rilevare egualmente nello stesso delle gravi tensioni di gruppo, dovute al fatto che i suoi componenti sono contrari alla struttura sociale nella quale vivono e ritengono, boicottando la produzione, di contribuire al determinarsi di una svolta critica atta a promuovere quel rivolgimento rivoluzionario al quale aspirano […] In questa situazione, a noi pare, che tutte le opinioni specificamente politiche meritino il massimo rispetto, ma che per quelli che sono i fini del gruppo di lavoro si debba far rilevare – con lo scopo di pervenire a delle situazioni di convinzione ragionata – che, in una società retta democraticamente, il meccanismo per conseguire una modificazione della struttura sociale, segue altre vie e che il deprimere il risultato dei gruppi produttivi, significa determinare dei danni che si distribuiscono nella società tutta in tutti i suoi componenti, senza contare che qualora si pervenga ad una modifica di struttura, la nuova organizzazione sociale non può prescindere dagli stessi gruppi di lavoro,che dovrebbero essere perciò

Se rimanevano fondamentali tanto i test per l’assunzione – a condizione che a condurli fossero dei professionisti - quanto l’addestramento, nondimeno sarebbe stato «errato […] dare a quest’applicazione una interpretazione restrittiva tendente a risolvere il solo aspetto tecnico del problema; perché un compiuto adattamento non si ha solamente quando si mette il lavoratore in condizione di ben eseguire i movimenti […] ma quando a questo si aggiunge la capacità di intrattenere con i suoi colleghi di lavoro buone relazioni umane»116. La scuola tradizionale, a cui ci si affidava per la formazione dei lavoratori, non sarebbe più bastata in questo senso: si sarebbe dovuto ricorrere a tecniche integrative volte a migliorare i rapporti interni all’azienda.

Un gruppo di lavoro aziendale indipendente e con funzione consultiva si sarebbe dovuto occupare dell’applicazione di diversi fattori di miglioramento delle relazioni umane: suggestion box, stampa aziendale, comitati di sicurezza, joint consulting commitees, autorapporto, job analysis, job evaluation, merit rating, interviste, riunioni aziendali.

Abbele vedeva con favore l’esperimento iniziato alla Montecatini-settore minerario, dove un consiglio di consultazione mista composto da rappresentanti della direzione e sindacali aveva iniziato a riunirsi: «se è stato così possibile individuare una prima serie di problemi, se anche i lavoratori hanno potuto parlare chiaramente in presenza dei loro diretti superiori avviandosi a realizzazioni integrative che tanta importanza hanno per il conseguimento di un clima di buone relazioni umane nell’impresa, il proponimento deve essere quello di continuare in questi dialoghi […] al fine di conseguire attraverso una educazione all’unità di linguaggio e una abitudine alla consultazione serena , leale e spassionata, quell’indice di integrazione necessario per superare le molte fratture che turbano e danneggiano l’attività dei gruppi nazionali di produzione»117.

Anche un esperto di economia aziendale come Gastone Ceccanti118 auspicava la collaborazione aziendale in questo senso. Se lo scopo della direzione aziendale era di conferire all’impresa il dinamismo necessario ad affrontare le leggi dell’economia, Ceccanti vedeva negli studi, allo stadio embrionale, di organizzazione dei gruppi umani

sempre più efficienti per rendere possibile la soddisfazione di un sempre maggior numero di bisogni secondo l’evolversi del progresso civile» (pp. 52-53).

116

Ivi, p. 750.

117

Ivi, p. 751.

118

G. Ceccanti vinse nel 1966 una delle prime cattedre nella neonata Facoltà di Scienze Economiche e Bancarie dell’Università di Siena. Fu autore di opere inerenti la struttura d’impresa Gli scambi d’impresa, Pisa, Cursi, 1961; Fondamentali problemi di amministrazione delle aziende operanti nel settore turistico, Firenze, Giuntina, 1965; Gli investimenti delle aziende industriali: tendenze, politiche, piani, Firenze, Coppini, 1967.

una risposta plausibile al bisogno di coniugare interessi generali e interessi del mercato: «È compito del ricercatore studiare ed analizzare le condizioni ed i fattori nelle quali e per i quali questi progressi sono possibili e sui questo terreno l’economia d’azienda sembra destinata a sposarsi con la sociologia del lavoro»119.