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Con il congresso di Fregene, incontro internazionale promosso dal CNP che nel 1952 portò sul litorale laziale rappresentanti del mondo imprenditoriale, sindacale e scientifico da tutta Europa e dagli USA, l’attività del Comitato si fece più serrata, in particolare sui temi inerenti alla valorizzazione del ruolo dei capi. “Produttività” dedicò un numero speciale al congresso, che ebbe come temi centrali l’implementazione dello studio del fattore umano come propulsore di produttività e le relazioni industriali come fonte di pace sociale e benessere. Come sottolineò il segretario del CNP Antonio Bardoscia nell’intervento introduttivo questo giustificava «la preminente importanza assegnata allo studio del “fattore umano”, a quell’insieme cioè di metodi e tecniche organizzative nate sotto il nome di human relations volte a mettere in risalto ed a valorizzare il contributo che il lavoratore, in quanto uomo, dà o può dare ad un incremento della produttività nell’azienda»63.

Partendo dal presupposto che il lavoratore doveva essere il perno sul quale concentrare le politiche produttiviste, alla gerarchia aziendale fu al centro dei lavori del convegno in quanto considerata garanzia di valorizzazione dell’aspetto umano nello sviluppo capitalistico postbellico: «Mutua comprensione, collaborazione fra maestranze e direzione; valorizzazione dell’operaio, inteso non come un ingranaggio di un’enorme macchina che, in definitiva, schiaccia la personalità, ma come elemento vivo, vitale e corresponsabile di un tutto in cui vive, sono questi i concetti che possono trovare un’immediata pratica applicazione. Lo stesso può dirsi per la semplificazione del lavoro e lo studio di movimenti, per una più razionale disposizione dei macchinari, per un più efficiente trasporto dei materiali all’interno della fabbrica»64.

Il tema della gioia del lavoro e la possibilità di creare un reale consenso attorno alle pratiche organizzative ritornarono nell’intervento più significativo firmato dallo statunitense Norbert Thumb. La psicologia, secondo Thumb, avrebbe dovuto portare all’aumento della produttività per sviluppare migliori condizioni di lavoro al fine di dallo studio della personalità psichica, i fattori morali devono essere oggetto di speciale considerazione […] che nella psicotecnica staccata dalla politica (e perciò dalla vita) non trovano riconoscimento a causa di quella deleteria dottrina di origine materialista secondo la quale la scienza deve essere agnostica. In realtà coloro che procedono in questo modo fanno del lavoratore una merce e pongono la sua attività al livello della macchina e ciò con quei gravi danni sociali che sono dinnanzi agli occhi di tutti» (p. 549).

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A. Bardoscia, La finalità della conferenza, “Produttività”, allegato al n. 6, 1952, p. 9.

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aumentare il benessere collettivo. La fiducia nelle innovazioni doveva superare resistenze e paure: «se quei fini materiali e morali saranno raggiunti, si avrà come conseguenza che la migliore propaganda sarà fatta dalla fabbrica che ha applicato il metodo ed i lavoratori che ne hanno tratto benefici saranno i più validi sostenitori e difensori del metodo stesso»65. Con un’opera di coinvolgimento psicologico ciò sarebbe stato possibile.

Thumb proponeva una vera e propria riforma dell’individuo, riferendosi alle fasi della storia umana teorizzate dallo psichiatra e filosofo tedesco Karl Jaspers (fase ingenuo- primitiva, fase nichilista-caotica, fase dei riformatori, fase dell’irrigidimento). Thumb attribuiva al macchinismo spinto agli eccessi della divisione del lavoro le fattezze di un corpo privo di anima. Andava ripensato il sistema di relazioni tra capi e lavoratori fin dal tono e l’inflessione della voce e la velocità di pronuncia con cui gli ordini venivano impartiti. Ciò avrebbe permesso di ristabilire un contatto «famigliare» tra l’azienda e il lavoratore: «per quanto riguarda genericamente la posizione odierna dell’uomo lavoratore nella industria, noi riteniamo che egli abbia trascorso l’epoca della pubertà e si avvii a una fase di sviluppo che lo deve condurre alla maturità […] il nostro compito dovrà essere quello del padre che aiuta il figlio a trovare una giusta maturità»66.

La psicologia industriale era strumento di crescita, ma anche di cura, nelle metafore utilizzate da Thumb. La società, nel suo pensiero, era un corpo malato nella psiche, che necessitava di un riequilibrio per riportare la pace sociale: «come un uomo neurotico non può da solo superare il suo male e deve ricorrere alla psico-terapia, anche gli organismi sociali malati, e particolarmente le imprese, hanno bisogno di un intervento esterno che valga a spezzare il circolo vizioso. Spetta a noi questo compito magnifico che può rendere la vita più bella e degna di essere vissuta a un gran numero di persone. È in gioco la dinamica elementare di tutte le forze distruttive e costruttive»67.

Sul numero successivo, Celestino Arena68 riconosceva, in merito al congresso di Fregene, la peculiarità della situazione delle imprese italiane in rapporto al fattore umano: «la direzione italiana ha troppo poco tempo e agio di meditare sui problemi

65

N Thumb, Problemi di psicologia, “Produttività”, allegato al n. 6, 1952, p. 17.

66

Ivi, p. 20.

67

Ibidem.

68

C. Arena (1890-1967), professore di scienza delle finanze all’Università di Pavia, fu direttore dell’Istituto Nazionale di Finanza Corporativa (dal 1943 Istituto Nazionale di Finanza) dal 1940 al 1945 e promotore dell’edizione dell’enciclopedico Trattato italiano di economia, Torino, UTET, 1932-1937 (cfr. il necrologio di S. Steve in “Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze”, n. 1, 1967, pp. 328-330).

dell’avvenire dell’impresa, per la particolare pressione cui è quotidianamente sottoposta dalla […] eccessiva e disordinata e difficilmente regolabile, anche perché eccessivamente politicizzata, pressione dei rapporti che si riferiscono al fattore umano dell’impresa»69.

Arena poneva in rilievo le critiche alle aziende dimostrative e alla retorica del fattore umano come indice di extraprofitto aziendale: «la migliore utilizzazione del fattore umano, a questo fine di sempre maggiore produttività, può derivare appunto da migliori rapporti con tale fattore, da portare sul piano di una fiduciosa collaborazione, mentre il rigore del sistema economico tende a mantenerlo nella posizione di oggetto di scambio»70.

Per migliorare le condizioni di lavoro dell’operaio e incrementare il suo rendimento occorreva concepire l’azienda come un insieme sociale di forze cooperanti: «L’impresa economica è, per questo fatto, un’unione non inanimata, ma vivente di fattori di produzione; che intensamente partecipano all’impresa; e ne assumono i rischi anche indirettamente quando questi, come oggi spesso avviene, sono riversati sulla collettività»71. La collaborazione non doveva essere confusa con la compartecipazione operaia agli utili, sperimentata in alcune fabbriche tedesche. Essa prevedeva il coinvolgimento del lavoratore sia nelle responsabilità che nei benefici: «il principio più importante di trasformazione della concezione giuridica dell’organizzazione dei beni nell’impresa produttiva sta nella diffusione del contratto collettivo»72.

Arena attribuiva alla sociologia il compito di studiare e trasformare le condizioni economiche che riteneva restrittive a causa della nuova Costituzione repubblicana, che avrebbe cancellato le conquiste ottenute nel regime precedente: «si ha ancora da noi un assurdo e pericoloso vuoto giuridico, dopo l’incauto smantellamento del sistema di garanzie che era stato creato, e sia pure non sempre lodevolmente attuato, con l’organizzazione giuridica del lavoro, al cui centro stava appunto la valorizzazione del contratto collettivo di diritto pubblico. La Costituzione del 1948, è molto più arretrata, con le sue rimasticature di concetti ormai superati dai progressi della tecnica e delle idee sociali e giuridiche […] tanto più necessario è perseverare negli studi e nei

69

C. Arena, Rapporti umani d’impresa e produttività, “Produttività”, n. 7, 1952, p. 573.

70 Ivi, p. 573. 71 Ivi, p. 576. 72 Ivi, p. 577.

tentativi di uomini di buona volontà, per la preparazione dell’avvenire, nel senso della trasformazione dell’ordinamento economico e giuridico dell’impresa»73.

Nell’agosto del 1952 Franco Pellegrini, membro dell’Istituto di Studi sul Lavoro (afferente all’Ente Nazionale Italiano per l’Organizzazione Scientifica), sollevò un’altra serie di interrogativi legati allo sviluppo anche nelle imprese italiane di scienze legate allo studio del fattore umano della produzione. Il macchinismo industriale, liberando l’uomo dalla fatica, aveva creato nuovi problemi dovuti alla noia, nonostante il proposito degli imprenditori di offrire qualcosa di meglio del socialismo e del capitalismo di anteguerra: «l’avere trascurato l’uomo ha portato la moderna organizzazione produttiva davanti allo spettro di uno “scacco sociale” ed oggi i più illuminati industriali, sulla scorta degli studi degli psicologi, riconoscono di dover attribuire all’uomo almeno tanta attenzione quanta quella quotidianamente dedicata ai fenomeni tecnici»74.

Pellegrini era convinto che l’uomo non lavorasse solo per il denaro; escludeva che gli incentivi economici potessero spingerlo a lavorare di più. Riteneva che fosse più importante il morale: «in un lavoro a squadra, lo stimolo sarà di rendere quanto o più del compagno; oppure, in un altro tipo di lavoro, ottenere il riconoscimento del superiore (e questo ispecie nel lavoro femminile) […] l’uomo, nel suo lavoro, risponde ad incentivi di carattere psicologico»75.

Nei paesi in cui erano maggiormente sviluppate, le Human Relations erano intese come informazione, mobilità sociale, attività ricreative: «esse corrispondono a quelli che possiamo ritenere gli interessi psicologici fondamentali dell’uomo nei confronti del lavoro: essere informato, avere una normale possibilità di carriera, poter usufruire del tempo libero dal lavoro per ristorare le sue energie fisiche e psichiche»76. Per completare lo sviluppo della personalità, l’azienda avrebbe dovuto preoccuparsi del tempo libero dei lavoratori: «nelle attività sociali in genere i lavoratori e specie quelli normalmente addetti a lavori manuali e ripetuti, trovano una soddisfazione ed una compensazione alla monotonia del loro lavoro, che non sempre permette di esplicare particolari doti di iniziativa ed un certo grado di libertà di scelta»77. L’accresciuta disponibilità di tempo libero comportava maggiori possibilità di impiegarlo per scopi

73

Ibidem.

74

F. Pellegrini, Mezzi di integrazione del lavoratore nell’azienda, “Produttività”, n. 8, 1952, p. 735.

75 Ivi, p. 736 76 Ibidem. 77 Ivi, p. 738.

benefici, utili, intelligenti: «l’imprenditore deve […] assumersi questa notevole responsabilità in campo sociale; indirizzare il suo personale alla migliore fruizione delle ore di tempo libero, in attività non distruttive, ma costruttive, al di fuori della fabbrica, al di fuori degli uffici; l’imprenditore cristiano in ispecie non può certamente esimersene quando si pensi che è in gioco la possibilità di affermazione umana di tanti uomini, di tante donne»78.

Sul numero seguente Federico Maria Pacces, già professore di Scienza aziendaria negli anni Trenta79, commentava i risultati di un’inchiesta effettuata intervistando 431 operai80.

Le premesse di Pacces ribadivano una condanna al difficile momento di transizione alla democrazia quando, caduto il fascismo si era passati ad una situazione in cui, a suo avviso, i sindacati erano diventati soreliani e marxisti, e avevano sabotato la produzione rovinando l’industria meccanica prima e di conseguenza anche le altre. La parte padronale non aveva saputo reagire, tanto che fino alla svolta del 18 aprile 1948 «lasciò passivamente regalare il non indifferente patrimonio ideale e materiale dei sindacati corporativi ai partiti rivoluzionari»81.

Sebbene l’inchiesta volesse dimostrare come molte opinioni circa la personalità degli operai, in particolare quelle legate all’identità dei sindacati comunisti, fossero basate su preconcetti, il commentatore non si esimeva dal proporre letture altrettanto stereotipate: «si rifletta su questa semplice constatazione: le donne (in genere e fatte salve le differenze attitudinali) sono di solito soddisfatte quando compiono lavori ripetuti, semplici, monotoni […] Rossi82 chiama questo bisogno di evasione della donna il suo angolo rosa»83.

Pacces sottolineava che la soddisfazione degli operai andasse oltre la paga del sabato, che era importante, ad esempio, che il padrone ricambiasse il saluto: «la

78

Ibidem.

79

Pacces era autore di Aziendaria: studi e battaglie, Torino, Istituto aziendale italiano, 1933, Introduzione agli studi di aziendaria, Torino, Istituto aziendale italiano, 1935. Nell’articolo in questione Pacces prendeva le distanze dall’esperienza degli anni Trenta: «Vent’anni fa io salivo per la prima volta su una cattedra universitaria. Ero molto giovane e ipernutrito di studi americani. Avevo coniato il termine aziendaria e credevo sul serio di poter dar corpo ad una scienza accostando gli insegnamenti del classicismo economico alle “tendenze nuove” della ragioneria e a i misuratori dell’efficienza in unità Bedeaux» (p. 766). Pacces, che nel dopoguerra si avvicinò all’area liberale del Partito d’Azione, rilevò il settimanale torinese “Commercio”; tra i fondatori nel 1946 del quotidiano economico “24 Ore”, ne diresse la sezione aziendaria e fu lui a proporre il colore rosa salmone della carta, mantenuto anche dopo la fusione con il “Sole” (P. Bairati, S. Carrubba, La trasparenza difficile. Storia di due giornali economici “Il Sole” e “24 Ore”, Palermo, Sellerio, 1990).

80

F.M. Pacces, Un’inchiesta italiana sulle relazioni industriali, “Produttività”, n. 9, 1952.

81

Ivi, p. 763.

82

F. Rossi fu uno degli autori dell’inchiesta assieme a E. Ciardiello.

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soddisfazione del lavoro è completa quando l’operaio vede affermata, nel compito eseguito, la propria personalità»84.

La psicotecnica adeguatamente applicata all’industria avrebbe aiutato la risoluzione dei problemi legati alla soddisfazione del lavoro. Pacces ricordava come nel 1942 avesse visitato una fabbrica tedesca in cui venivano impiegati prigionieri russi i quali, nonostante la situazione drammatica, lavoravano sereni e rendevano bene. Lo studioso collegava questo risultato al progresso delle scienze attitudinali in URSS: «gli operai sovietici, in patria, vengono selezionati, addestrati e distribuiti in cinque categorie: cinque biotipi per altrettanti compiti-tipo»85.

Lo studio della catena, compiuto dai collaboratori di Pacces, individuò una divisone degli operai in due gruppi distinti: chi preferiva il lavoro in serie e che invece lo pativa. Quest’ultimo problema era risolvibile tramite l’esame attitudinale: «l’introduzione della ricerca psicologica nell’industria sposta l’interesse “economico” dell’imprenditore dal lavoro alla persona del lavoratore: dalle zone superficiali in cui indagò l’opera di Taylor e della sua scuola, si procede oggi verso zone più profonde, e perciò più difficili da esplorare e modificare»86.

Pacces si dimostrava scettico sulla disponibilità da parte degli imprenditori di adottare simili provvedimenti volti ad una decisa modernizzazione. Lo scetticismo veniva confermato nell’atteggiamento che la gran parte di essi, tenne nei confronti di questa inchiesta: «Ciardiello dice in due punti del suo lavoro di essersi scontrato con una mentalità prevalente che considerava lui e la sua inchiesta un “allegro perditempo” […] neanche in seguito, nessuno di quegli industriali avvertì il bisogno, o l’utilità, di procurarsi qualche informazione sui risultati delle inchieste»87. Ciò non fa che confermare l’atteggiamento di diffidenza e incomprensione reciproche che regolò per tutto il decennio i rapporti tra industria e sociologia.

84 Ibidem. 85 Ibidem. 86 Ivi, p. 768. 87 Ivi, p. 765.