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Tra le figure più attive nella promozione delle human relations, che a metà del decennio Cinquanta raggiunsero l’apice della diffusione e della propaganda, troviamo Giancarlo Moro Visconti.

Moro metteva in guardia dal considerare le relazioni umane una semplice moda, e imputava al fatto che fossero state importate dagli USA senza adattamento al contesto europeo, la loro scarsa incisività, che rischiava di farne «un taylorismo della prima maniera o […] uno stakanovismo di sgradita evocazione»120.

Moro voleva invece ribadire il fatto che le relazioni umane aiutavano il lavoratore a ritrovare il senso perduto del lavoro: egli «deve in questo sentire il senso della sua missione sociale oltre che vedere la possibilità di tendere al suo benessere individuale e famigliare»121. Se negli USA la missione sociale del lavoro rivestiva minore importanza, ciò avveniva perché la struttura stessa della corporation ne ribadiva il senso: quello di «un corpo […] per il quale può ben valere l’apologo di Menenio Agrippa»122.

Uno dei primi ad interessarsi di relazioni umane in Italia, l’ingegner Pautriel, ne aveva dato una definizione che Moro citava in ogni suo intervento: «Le relazioni umane sono un rapporto morale tra imprenditori e lavoratori, tra capi e dipendenti, che integra il rapporto economico al fine di soddisfare l’esigenza innata nell’uomo di trovare nel lavoro il mezzo di elevazione di perfezionamento personale oltre che un mezzo di sussistenza e di partecipazione al benessere generale»123.

Secondo Moro le forze dell’inconscio e del conscio si disputavano l’influenza sulla psiche, con un predominio di quelle coscienti, che guidavano le componenti materiali e

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G. Ceccanti, L’uomo e la dinamica ambientale d’impresa, “Produttività”, n. 10, 1954, p. 929.

120

G. Moro, Alcune considerazioni sulle relazioni umane, “Produttività”, n. 5, 1954, p. 450.

121 Ibidem. 122 Ibidem. 123 Ivi, p. 451.

i moventi economici. La psicologia doveva valorizzare l’uomo «in funzione delle doti particolari che ciascuno ha ricevuto dal Creatore»124.

«Il desiderio di lavorare come mezzo di esplicazione della propria personalità umana, il desiderio di lavorare come mezzo di espiazione, il desiderio di lavorare come mezzo di redenzione, il desiderio di lavorare come mezzo per assolvere ad una funzione sociale»125 erano messi in disparte dagli impulsi materiali che avevano anche l’effetto di far smarrire al lavoratore il senso religioso: «si assiste così al mostruoso fenomeno della tranquilla convivenza in un lavoratore del cristianesimo, come pratica di famiglia, e del marxismo, come pratica sociale»126.

Tale aporia sarebbe alla base dell’impossibilità di stabilire la collaborazione nell’impresa, sfociando nel rancore e nelle tensioni sociali.

«Il lavoratore ha finito col perdere il senso della sua missione sociale, si è andato man amano restringendo in un gretto egoismo, non ha visto nel suo lavoro altro che un mezzo di appagamento di bisogni economici, per loro natura infiniti e quindi inappagabili, non ha più compreso il senso della sua dignità e responsabilità, ha smarrito la visione della trascendenza del suo fine, senza la quale – come diceva un grande Pontefice – la vita sarebbe un mistero inesplicabile […] perché non vi è dubbio che il cristianesimo, e solo il cristianesimo, sia la legge universale del mondo»127.

Moro vedeva una via d’uscita nell’azione della Chiesa militante - da non confondere con le esperienze dei preti operai che finivano, secondo l’autore, per diventare essi stessi dei meri lavoratori – che avrebbe affiancato le comunità operaie con «cappellani del lavoro». In secondo luogo, gli imprenditori avrebbero dovuto riconsiderare il fattore umano come centrale nel processo produttivo, senza più concepire il lavoro come merce, né cadere nel becero paternalismo.

«Il vero modo di combattere il marxismo è di riaffermare l’individualità»128: così Moro giungeva a criticare quelle aziende, che per rincorrere le rivendicazioni operaie avevano sviluppato sistemi di assistenza che continuavano a negare all’individuo il pieno sviluppo e opponeva ai sistemi paternalistici le relazioni umane, miranti all’informazione e al coinvolgimento del lavoratore.

Moro invitava a prendere parte all’opera di risanamento della psiche quei sindacati responsabili – i sindacati “liberi” -, attivi nel riconferire al lavoro il significato morale 124 Ibidem. 125 Ibidem. 126 Ibidem. 127 Ivi, p. 452. 128 Ivi, p. 454.

che l’invidia e le suggestioni generate dalle idee sovversive avevano negato. Moro rivelava così le forti radici che il paternalismo affondava nel mondo cattolico, talvolta condannato e criticato, ma mai liquidato.

Le relazioni umane andavano dotate di una base psicologica in grado di coniugare la missione sociale del lavoro alla piena soddisfazione economica, in modo da risanare la psiche malata e inibita dei lavoratori.

«Le masse lavoratrici sono come dei ragazzi che devono gradualmente acquistare la propria maturità […] difficilmente il metodo repressivo può avere successo, mentre maggiore successo consegue l’impegnarli nel senso di responsabilità ed il dimostrare i limiti delle loro possibilità […] Solo attraverso questo processo di risanamento psicologico si può debellare dalle fabbriche quel senso di invidia, di rancore, di diffidenza, di paura, di odio che rendono impossibile ogni collaborazione per cui ben poco o nulla possono giovare le relazioni umane, anche se applicate con la migliore delle metodologie»129.

Moro collegava la dissociazione della psiche alla disoccupazione, alla scarsa soddisfazione del lavoro e alla diffusione di idee sovversive, stabilendo infine una corrispondenza diretta tra marxismo e malattia psichica e sociale. Le aziende avrebbero dovuto debellare il fenomeno utilizzando le relazioni umane in due direzioni: «ricostruzione e risanamento della personalità umana, da attuarsi nell’ambito paraziendale ed extraziendale e […] creare le possibilità di estrinsecazione della personalità umana, da realizzarsi nell’ambito aziendale»130.

La concezione del senso sociale del lavoro era rappresentata da Moro con la storia di tre lavoratori a cui un passante aveva chiesto cosa stessero facendo: «Il primo risponde: sto squadrando pietre; il secondo, sto guadagnandomi da vivere; il terzo, sto collaborando alla costruzione di una cattedrale»131.

Per giungere alla perfetta adesione tra gli slanci individuali e quelli della comunità aziendale, era necessario formare i capi, diretti attori in quella che, stando alle parole di Moro, diveniva una crociata per il risanamento della psiche dei lavoratori. Distinti per tatto, diplomazia, persuasività, autocontrollo, entusiasmo, prontezza, iniziativa, caparbietà, responsabilità, capacità di dare fiducia e ottenere la collaborazione dei sottoposti, i capi, forti di una solida preparazione psicologica, avrebbero dovuto

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Ivi, p. 455-456.

130

G. Moro, Ancora sulle relazioni umane, “Produttività”, n. 8, 1954, p. 739.

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«vedere nel lavoratore non più una merce, non più un fattore del processo produttivo, ma un attore, al pari di loro, sia pure con diverse responsabilità»132.

Moro investiva i capi, e le relazioni umane, del compito di sanare un disturbo, quello dei lavoratori, che risultava essere una traduzione in termini psichiatrici dell’adesione ai sindacati comunisti e ai valori resistenziali: «i capi devono essere dei terapeuti di questa umanità, i cui disturbi della personalità, in gran parte, ritrovano la loro causa nell’azione meno avveduta di una classe che li ha preceduti e di cui devono accollarsi le responsabilità»133.

Il capo veniva definito pater familias, figura a cui si affidava naturalmente l’educazione dei lavoratori-figli, per espanderne l’individualità e collocarla nel contesto sociale comunitario. La solitudine dell’operaio rappresentava un problema poiché l’isolamento favoriva i pensieri rancorosi, l’annichilimento nel vino, la fuga in passatempi futili, fino all’adesione a idee sovversive.

La personalità umana era formata da inconscio, subconscio e conscio, a loro volta influenzati da fattori ereditari e ambientali dell’approccio individuale alla società. L’azienda avrebbe dovuto assumersi l’onere di intervenire sui temperamenti depressi, normali e esaltati, per riportarli verso l’autocontrollo; e se «la metodologia comunista punt[a] decisamente sull’esasperazione delle disarmonie della psiche umana fino a […] casi di dissociazioni psichiche»134, «le relazioni umane sono quindi un processo che tende essenzialmente a ristabilire l’armonia delle personalità verso un unico obiettivo che le trascende»135.

Per arrivare al superamento dell’individualismo depresso, Moro proponeva di convertire il volontariato tramite attività aziendali, in modo da non limitare le relazioni umane ai rapporti verticali: «la carità è la migliore espressione di una socialità entusiasta, innestata su un temperamento individualista»136.

Ancora sul numero 2 del 1955, Moro ribadiva l’importanza di affidare le assunzioni alla valutazione degli psicologi e all’utilizzo dei test.

132 Ivi, p. 746. 133 Ibidem. 134

G. Moro, Ancora sulle relazioni umane, “Produttività”, n. 10, 1954, p. 934.

135

Ivi, p. 934. Moro continuava: «non appena lasciata libera di espandersi, la personalità, nella visione del Creato, ritorna alla concezione di Dio, e, nella meditazione sullo scopo della vita umana, all’amore del prossimo».

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Una volta inserito in azienda, il lavoratore doveva essere coinvolto e istruito, e all’azienda spettava il compito di renderlo partecipe delle decisioni che lo riguardavano al fine di fugare il sospetto di sfruttamento. Moro era convinto che il reale senso di appartenenza all’azienda era ricco di risvolti sociali: «la tranquillità dell’appartenenza alla comunità in cui si vive è data al lavoratore dalla floridezza dell’azienda in cui lavora e dalla coscienza che, se egli risponde ai compiti affidatigli, il posto gli è assicurato […] vi è poi l’integrazione che può svolgersi in campo para-aziendale in tutte quelle forme di realizzazioni sociali che le aziende attuano nell’interesse dei lavoratori: dai circoli ricreativi, alle colonie, alle case di ferie,a gli alloggi sociali»137.

Il coinvolgimento nell’ambito para-aziendale, cioè in «problemi che non hanno interferenza nella gestione aziendale»138 secondo Moro avrebbe aiutato a sviluppare nei lavoratori il senso di appartenenza e di sacrificio per i colleghi, come un esercizio spirituale di miglioramento e di responsabilizzazione: «nell’ambito para-aziendale si richiede l’integrazione del lavoratore in tutti quei problemi […] nei quali si senta portato a trovare appagamento alla sua personalità […] nella giusta visione di quello che è lo scopo della vita comune, quella visione senza la quale la vita – come diceva un grande Pontefice – rimarrebbe un grande mistero»139. La partecipazione dell’azienda a queste attività avrebbe costituito un «elemento che in ogni caso potenzia il senso di comunione che deve legare tutti i partecipi al processo produttivo, qualunque sia la responsabilità gerarchica»140.

Nell’ambito para-aziendale avrebbero dovuto operare inoltre il cappellano del lavoro e l’assistente sociale. Il primo avrebbe dovuto fornire una risposta al fatto che «oggi le fabbriche hanno sottratto i fedeli non solo dal contatto, ma anche dalla vista del parroco»141, in una visione che riportava la fabbrica alla realtà del villaggio rurale. A differenza del prete operaio, la cui opera Moro non esita a condannare, il cappellano restava distaccato dall’azienda, senza peraltro ignorarne il funzionamento e le caratteristiche sociali:

«È stato posto una volta il quesito se il dare un premio agli operai che non avessero partecipato ad uno sciopero poteva ritenersi moralmente lecito.

La risposta è evidentemente conseguente alla concezione della funzione sociale dell’impresa, del danno emergente dall’interruzione di un ciclo lavorativo

137

G. Moro, Le relazioni umane nell’ambito aziendale e para-aziendale, “Produttività”, n. 2, 1955, p. 116.

138 Ivi, p. 118. 139 Ivi, p. 117. 140 Ivi, p. 118. 141 Ivi, p. 119.

e dalla conseguente riduzione di tale danno cui possono aver contribuito i lavoratori che abbiano lavorato durante uno sciopero.

Quest’azione porta il cappellano del lavoro a dover conoscere la vita dell’azienda»142.

Il senso di malattia psichica generato dalla società industriale, che pervadeva i precedenti scritti nella visione dell’espansione industriale, il cappellano era «un medico della psiche, non dei corpi, ma in quest’epoca, pervasa da disarmonie psichiche, si può ben dire che la cura della psiche è ben più importante di quella dei corpi»143.

All’assistente sociale si sarebbe dovuto affidare invece il compito di introdurre il lavoratore appena assunto in fabbrica, stemperando le frizioni che l’impatto con l’organizzazione del lavoro avrebbe potuto provocare. L’assistenza sociale, secondo Moro, avrebbe dovuto incentivare e assecondare la formazione di una comunità di fabbrica già nel momento cruciale e traumatico dell’ingresso nel reparto del nuovo assunto; questa funzione era vista come «la reazione tra due temperamenti che si è posta in essere; è la scintilla che è scoccata, dalla quale debbono nascere le relazioni umane […] non per niente la funzione di assistente sociale è svolta da donne»144.

Sul numero 8 del 1955 Luigi Palma145 sottolineava il successo raggiunto dagli studi psicologici in Italia nonostante il ritardo iniziale rispetto a paesi come gli USA e la Germania, evitando così errori dovuti all’improvvisazione e all’inesperienza. Palma notava come in Italia vi fosse spazio per studi psicologici in grado di affermare la concezione cristiana della società industriale:

«oggi […] il problema psicologico si sposta nettamente dalla selezione all’orientamento o tutt’al più ad una selezione positiva, e dalla visione meramente individualistica, si passa allo studio psicologico dell’ambiente, del gruppo, della collettività di lavoro, cercando di interpretare le numerose istanze che sul piano psicologico la vita moderna di una qualsiasi comunità va a porre dal reparto di una fabbrica all’intero stabilimento, da un villaggio operaio al sindacato, dalla famiglia allo Stato. È in certo senso la vittoria della concezione

142 Ivi, p. 120. 143 Ibidem. 144 Ivi, p. 121. 145

Esperto in organizzazione scientifica del lavoro, disciplina alla quale si avvicinò fin dagli anni Trenta; poi segretario generale dell’ENPI, docente di Organizzazione del Lavoro alla Sapienza di Roma e membro dell’Istituto di Studi sul Lavoro, afferente all’ENIOS. Fu autore di Aspetti pratici ed elementari dell’organizzazione scientifica del lavoro: corso di tre conferenze divulgative, Roma, ENIOS, 1930; Economia e tecnica delle aziende ed organizzazione scientifica del lavoro, Firenze, Cya, 1934; L’istruzione professionale, Roma, ACLI, 1946; Elementi di organizzazione scientifica del lavoro, Roma, Scuola Italiana di Servizio Sociale, 1949; L’Ente Nazionale per la Prevenzione degli Infortuni, Roma, ENPI, 1955. È suo il saggio L’organizzazione scientifica del lavoro contenuto in F. Bottazzi, A. Gemelli (a cura di), Il fattore umano del lavoro, cit.

cristiana del rispetto della dignità ed unità della persona umana e dei valori primari dello spirito»146.

Palma individuava tale successo nel fatto che numerose aziende avevano applicato negli ultimi anni quello che Gemelli e altri avevano teorizzato fin dai primi anni del dopoguerra, in particolare per quanto riguardava il ruolo del capo, come catalizzatore delle energie per la creazione di una comunità di fabbrica senza pericolo di monotonia.

Un altro successo era l’attività che già presso molte aziende esercitava l’Ente Nazionale Prevenzione Infortuni, in collaborazione con il Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano. Se «nel determinismo degli infortuni incidono una quantità di fattori che risalgono tutti all’uomo e la natura di essi è quasi sempre d’ordine psicologico o meglio psico-fisiologico»147, secondo Palma era importante indagare il rapporto uomo-macchina e individuare le caratteristiche dei diversi mestieri. Era riconosciuta l’esigenza di un tramite tra ricerca e mondo del lavoro e Palma vedeva nell’ENPI un possibile esempio di istituto «che sul piano nazionale […] [facesse] da anello di congiunzione tra ricerca scientifica pura perseguita nei laboratori degli istituti di psicologia delle Università ed il mondo pratico del lavoro»148.

Spunti di modernizzazione - la creazione di istituti di psicologia a servizio delle imprese, lo studio delle conseguenze umane del lavoro, e le relazioni umane - erano accompagnati nell’argomentazione di Palma dalla possibilità di costruire un nuovo ordinamento sociale. Quest’ultimo prevedeva la compartecipazione di sindacati, imprenditori e lavoratori, coordinati e coadiuvati dall’opera della psicologia verso un «miglioramento che si consegue innanzitutto attraverso una maggiore serenità del lavoratore che scaturisce dal sentirsi sufficientemente al suo posto nella diuturna fatica, […] più assistito e compreso […] da un ordinamento sociale ben costruito, in cui tutti hanno fiducia, imprenditori e lavoratori, consapevoli che la lotta di classe è superata da una visione solidaristica degli interessi delle categorie, ordinamento sociale che nessuna scienza economica potrà costruire se prima non si preparino le coscienze»149.

146

L. Palma, La psicologia e il mondo del lavoro in Italia, “Produttività”, n. 8, 1955, p. 685.

147 Ivi, p. 687. 148 Ivi, p. 688. 149 Ivi, p. 689.