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Capitolo II Studiare il lavoro che cambia

2.2 La sociologia alla Camera del Lavoro

2.2.5 La sociologia e il progresso tecnico

Degli eventi che marcarono la svolta sindacale della metà degli anni cinquanta il convegno sui “Lavoratori e il progresso tecnico” organizzato nel 1956 dall’Istituto Gramsci e dall’Ufficio per il lavoro di massa del PCI costituì la più completa testimonianza dei termini in cui il dibattito prendeva forma. Oltre a costituire un momento di incontro ed una successiva pubblicazione tra i più citati negli anni seguenti nel mondo sindacale, politico, ma anche sociologico, il convegno ebbe il merito di porre su un piano nazionale dei discorsi sociologici che fino ad allora erano rimasti chiusi nelle camere confederali di Torino e Milano.

Il convegno testimoniò l’emergenza di una nuova classe dirigente che si sarebbe imposta a livello nazionale nel decennio seguente: «nella CGIL si faceva luce un nuovo personale dirigente formatosi nel dopoguerra tra scuole sindacali e Uffici studi confederali: un personale più “tecnico”, meno legato a schematizzazioni ideologiche, aperto all’influenza che le correnti di pensiero sociologico iniziavano ad esercitare in quegli anni in Italia»258.

L’assunzione delle pratiche e delle analisi sociologiche da parte del sindacato, spinta dal bisogno di conoscenza della nuova realtà delle fabbriche costituì un formidabile elemento propulsore per le ricerche e il progressivo venire meno della messa al bando Sessanta. Da “Quaderni rossi” a “Classe operaia”, Roma, Deriveapprodi, 2008, p. 78.

257 Ivi, p. 79.

258 F. Bednarz, Strutture organizzative e politica contrattuale della CGIL di fronte al progresso tecnico ed economico. La crisi degli anni ‘50 in “Movimento operaio e socialista” n. 4, 1981, p. 432.

delle scienze sociali a sinistra.

Nell’introduzione di Longo continuavano ad essere attaccati i monopoli, tematica cara alle istanze sindacali del dopoguerra, ma l’affermazione «l’insegnamento marxista è stato ben tenuto presente»259 significava che si era consapevoli della necessità di dover coniugare lo studio della fabbrica che cambia con nuove rivendicazioni e nuove istanze sindacali. Ripartendo dal marxismo, che venne riscoperto come grande opera sociologica, soprattutto nelle parti del Capitale più attente alla comprensione della realtà della fabbrica.

L’intervento di apertura del convegno fu affidato a Silvio Leonardi, che, come abbiamo visto, fin dal dopoguerra si era dimostrato più sensibile nei confronti delle pratiche organizzative e meno incline all’approccio ideologico nell’analisi del lavoro. Questo dirigente sindacale il cui percorso, come abbiamo visto, si era intrecciato con quello di manager pubblici e responsabili della pianificazione economica, aveva continuato a formulare proposte e fornire letture della situazione economica lontane dall’ortodossia che spesso caratterizzava gli interventi dei dirigenti comunisti.

Sul numero 8 del 1953 della rivista del PCI “Rinascita” Leonardi aveva già proposto una lettura critica del processo di ristrutturazione aziendale avvenuto nel dopoguerra e le possibili implicazioni per un mutamento della struttura produttiva. Il fatto stesso di ritornare alla fabbrica per scomporla ed analizzarne le fasi produttive costituiva un’apertura rilevante all’interno di un panorama, quello della sinistra, che sembrava volersi smarcare dalla centralità del lavoro operaio. Leonardi sosteneva così che gli operai erano già in grado di portare avanti una lettura tecnologica della fabbrica senza doverla attendere dall’alto.

L’anno seguente, parlando del convegno promosso dalla Società Umanitaria di Milano sui problemi del lavoro, ribadiva la sua posizione in merito all’organizzazione del lavoro, a suo avviso strumento inevitabile per la produzione, ma troppo spesso impiegato in funzione oppressiva: «non si tratta di discutere della disciplina del lavoro, indispensabile per la realizzazione dei fini produttivi, ma della protezione dei diritti dei lavoratori»260. Tale posizione risultava un’assunzione della necessità di ridefinire gli strumenti che il sindacato avrebbe dovuto adottare, e che ribaltava la tradizionale

259 L. Longo introduzione a PCI - Sezione Lavoro di Massa (a cura di), Atti del convegno tenuto all’Istituto “Antonio Gramsci” in Roma, nei giorni 29-30 giugno e 1 luglio 1956, I lavoratori e il progresso tecnico, Roma, Editori Riuniti, 1956, p. 14.

opposizione ad oltranza alle pratiche organizzative e l’utilizzo del conflitto di fabbrica in chiave politica.

Sul numero 12 del 1954 Leonardi proponeva una prima analisi del concetto di produttività, terreno sul quale la sinistra italiana si era sempre dimostrata restia al confronto. Ponendo in questione gli elementi che avrebbero inciso sul progresso generale del progresso della nazione, il dirigente milanese assumeva la necessità di portare il conflitto all’interno del movimento produttivistico: «quello che conta per il benessere generale e per lo sviluppo di un paese, considerando la produzione come disponibilità per consumo, investimento e risparmio, sono il rendimento e la produttività globale considerati anche nel maggiore insieme costituito dal grado di utilizzazione della forza lavoro disponibile, per il quale si può dire si registra un aumenti non solo quando aumentano il rendimento e la produttività dell’operaio occupato, ma quando, anche e correlativamente, aumenta la occupazione, il livello del salario medio, il volume e la qualità della domanda soddisfatta»261.

Il progresso tecnico proiettava i suoi effetti sulla società intera, ma Leonardi lamentava una mancanza di protagonismo dell’Italia in questi progressi, che rischiava di finire relegata al di fuori dei flussi dello sviluppo: «la imitazione degli strumenti di produzione più progrediti non ha avuto luogo attraverso una elaborazione nazionale, in particolare attraverso lo sviluppo e la trasformazione della nostra industria meccanica produttrice di beni strumentali, ma attraverso rapporti strettamente bilaterali tra gruppi monopolistici nostrani e la controparte straniera, in particolare americana»262. Il sindacato avrebbe dovuto porsi in maniera antagonistica nei confronti di queste distorsioni che limitavano lo sviluppo economico e di conseguenza il benessere generale opponendo un piano agli squilibri provocati dal capitalismo italiano.

Per questo non era più sostenibile la pretesa neutralità della scienza, la cui applicazione era impiegata in funzione antioperaia: «viene magnificato il progresso tecnico, i successi e le possibilità di nuove forme di organizzazione aziendale» così «la produzione viene presentata come fine a se stessa, dovrebbe essere oggetto di orgoglio del tecnico, del dirigente, di qualsiasi grado, e naturalmente anche dell’operaio, produrre molto e bene ed essere così partecipe del “progresso” indipendentemente dalla destinazione della produzione stessa e dai rapporti

261 S. Leonardi, La vera produttività del lavoro in “Rinascita” n. 11-12 1954, p. 769. 262 S. Leonardi, L’uomo e il progresso della tecnica in “Rinascita” n. 6 1955, pp. 411-412.

economici e sociali in cui è realizzata»263.

Il piano su cui si veniva ad articolare il discorso di Leonardi era parallelo a quello che nello stesso periodo animava le riviste a sinistra del PCI e che metteva in discussione l’impostazione ideologica della sinistra nei confronti dell’analisi del lavoro. Attorno al 1955 era sempre più chiaro come il capitalismo anche in Italia era stato in grado di affrontare la crisi postbellica e rilanciare attraverso l’innovazione tecnologica su un piano che la sinistra era costretta a rincorrere.

Il 29 marzo 1956, a pochi mesi dal congresso gli appunti di Leonardi testimoniano l’interesse per l’analisi dell’automazione in fabbrica e i suoi effetti sociali: «automazione significa assai più che l’impiego di macchine automatiche. I suoi effetti forse rivoluzionari sull’economia e sulla società dipendono dalla sue possibilità di prestazione, che sconfinano nel fantastico»264.

Si riferiva alle esperienze americane in cui era stata applicata la teoria del closed

cooperation feedback system in particolare presso la Ford di Cleveland. Guardando agli

Stati Uniti, Leonardi proponeva uno schema evolutivo del lavoro che sintetizzava con: «oggi camici e operai in tuta; domani impiegato sorvegliante; la prossima settimana uomo ben vestito che legge il giornale e interviene in casi eccezionali»265.

Per questo al congresso di Roma, Leonardi ritenne necessario introdurre in quella sede le analisi dei processi produttivi che riteneva più dinamici: la sua esperienza presso l’USE di Milano, città che aveva il vantaggio di presentare uno sviluppo del terziario, accanto a quello dell’industria, gli aveva permesso di osservare come il progresso tecnico non si limitasse alla fabbrica in cui veniva introdotto, ma coinvolgeva l’intera produzione.

In quella sede inoltre Leonardi citò esplicitamente gli studi compiuti da un sociologo francese che su suggerimento di Geroges Friedmann aveva studiato la composizione tecnica delle officine Renault di Parigi: Alain Touraine. Questi era giunto alla formulazione di uno schema che voleva lo sviluppo tecnologico interno alla fabbrica suddiviso in tre fasi, tre diversi stadi nell’introduzione delle macchine, tre stadi tecnologici ed organizzativi non scollegati, ma compresenti nel medesimo complesso industriale: «anche nelle aziende dove arriva la nuova macchina, possono arrivare e arrivano con maggiore facilità nuovi principi di organizzazione

263 Ivi, p. 414.

264 ADL. Cart. 13-II-B 6, Appunti 29-03-56. 265 Ibidem.

che, pur mantenendo i vecchi strumenti di produzione, cambiano in misura più o meno accentuata i rapporti di lavoro»266.

Individuati gli operai con qualifica e quelli senza come le due categorie che caratterizzavano la fase di sviluppo della metà degli anni Cinquanta, Leonardi passava a distinguere le fasi dell’automazione negli impianti a lavorazione non continua, in particolare quella meccanica. Leonardi citò indirettamente il lavoro di Touraine, dimostrando una certa prudenza nel proporre ad una platea simile il nome di un sociologo, pur ricalcandone fedelmente le teorie267.

Leonardi si distingueva anche per il distacco scientifico con cui analizzava la Misurazione Tempi e Metodi, considerata alla base del “supersfruttamento” al centro delle lotte sindacali di quegli anni. Capovolgendo le accuse che il sindacato era solito rivolgergli, difendeva il metodo MTM in quanto potenziale alleato del lavoratore nell’eliminare elementi di arbitrarietà dalla distribuzione di qualifiche e premi: «il tecnico è obbligato a studiare i metodi superando il grave difetto, generalmente molto diffuso, al quale abbiamo fatto cenno, che porta a limitare l’attenzione ai tempi trascurando i metodi»268. Da questo dato si doveva partire per costruire un’elaborazione che avrebbe ridato protagonismo al sindacato nell’organizzazione razionale della fabbrica, riportando le rivendicazioni all’interno del quadro di sviluppo del tempo e limitando così gli effetti nocivi per i lavoratori.

Allo stesso modo, a proposito delle relazioni umane, venivano evitati da parte di Leonardi i verbosi proclami a cui la retorica sindacale aveva abituato, e veniva posto in evidenza lo stretto legame tra tali pratiche e la fabbrica automatizzata, invitando ad una riflessione e ad una ripresa degli studi sul lavoro al fine di evitare letture ideologiche del progresso: «ad una produzione integrata deve corrispondere una integrazione del lavoratore nell’azienda [...] nessuno insomma può imporre la collaborazione [...] di qui la necessità del cosiddetto rapporto “morale” [...] non si tratta di un rapporto morale normale tra uomini uguali [...] non esiste alcun programma di “relazioni umane” che non sia inquadrato in un programma ideologico»269.

La diseguaglianza dello sviluppo aveva per Leonardi una precisa funzione nella cristallizzazione di gerarchie aziendali, ma anche sociali. Le differenze di sviluppo tra

266 S. Leonardi, Relazione generale in I lavoratori e il progresso tecnico, cit., pp. 25-26. 267 Cfr. S. Leonardi, Relazione generale in I lavoratori e il progresso tecnico, cit., p. 34. 268 Ivi, p. 42.

reparto e reparto di una stessa fabbrica aveva come risultato quello di portare ad adeguare ai ritmi delle macchine automatiche quello di tutte le altre lavorazioni; Leonardi andava più in là: proiettava infatti questa dinamica sul complesso delle aziende, il cui differente sviluppo era complementare al sistematico processo di accelerazione dei tempi: «da notare che la mancanza di omogeneità di sviluppo non è solo tra azienda e azienda ma anche tra reparto e reparto [...] quindi squilibri interni, quindi maggiore facilità per la parte direzionale di imporre a reparti più arretrati dei ritmi trascinati dai reparti più avanzati»270. Quello che Touraine aveva rilevato negli impianti della Renault di Billancourt era stato proiettato da Leonardi sull’intera provincia di Milano, intuendo con anticipo sulle inchieste degli anni Sessanta e Settanta la peculiarità della struttura produttiva italiano segnata dalla dispersione territoriale di piccole e piccolissime imprese piuttosto che sulle grandi concentrazioni.

L’impostazione di Leonardi ripresa da Mario Quochi nel suo saggio sulle aziende dell’IRI in Liguria dimostrava come in realtà la tripartizione proposta da Touraine non fosse stata del tutto metabolizzata da un sindacato ancora fortemente influenzato dalla prospettiva fabbrichista. Quochi rimaneva legato ad una rigida divisione degli stabilimenti e dei settori produttivi: «l’industria meccanica della Liguria è interessata alle prime due, con esclusione cioè, di quella terza fase compresa, dal relatore, nei termini della meccanizzazione completa e dell’automazione»271. Veniva così travisato il concetto centrale del discorso di Leonardi, che voleva le innovazioni tecnologiche influenzare l’intero processo produttivo e organizzativo.

Leonardi nella replica in sede di discussione ribadì la propria lettura, in difesa dagli attacchi di interventi, come quello di Quochi, che minimizzando la portata dell’automazione, rimanevano fedeli ad una lettura malthusiana del processo produttivo: «nessuna fabbrica ha i fenomeni esattamente riprodotti come io ho cercato di esporre. Però, se mi si domandasse se questa problematica ha una scarsa importanza nel nostro paese, io risponderei decisamente di no: questi fenomeni hanno un’importanza notevole nel nostro paese con gradazioni diverse da zona a zona, e non solo da zona a zona, ma da azienda ad azienda, e nell’interno stesso dell’azienda»272.

L’analisi che privilegiava una lettura ampia dei processi insiti nel progresso

270 Ivi, p. 54.

271 M. Quochi, Nelle aziende IRI della Liguria in I lavoratori, cit., p. 97. 272 S. Leonardi, Introduzione alla discussione in I lavoratori, cit., p. 170.

tecnologico vedeva l’automazione che stava già mutando gli assetti esterni alla fabbrica. Leonardi in questo dimostrava molte affinità con gli studi che Friedmann e Naville stavano intraprendendo e che iniziavano a spostare il campo d’interessi della sociologia del lavoro al di fuori delle mura della fabbrica, per rispondere con un’analisi avanzata ai problemi che il macchinismo avanzato poneva e ai quali non era più pensabile opporre letture statiche e cristallizzate: «la dinamica domina sulla statica, si deve pensare che i fenomeni nuovi hanno un peso specifico superiore a quelli vecchi e hanno soprattutto un’influenza politica molto grande. Non sono solo fenomeni che riguardano la fabbrica; mentre si trasforma il processo di produzione si trasforma il processo di distribuzione e in generale la vita sociale esterna alla fabbrica»273.

Leonardi evidenziava come anche un settore arretrato come l’agricoltura rientrava in quest’ordine di fenomeni; il progresso tecnico, insomma, stabiliva il ritmo dello sviluppo e costituiva un fenomeno globale di lettura della società: «questi fenomeni vanno molto più lontano della loro semplice localizzazione geografica: l’agricoltura si è trasformata e si sta trasformando in connessione con determinati sviluppi che hanno luogo nell’industria; d’altra parte basta anche che un’industria moderna intervenga in una zona arretrata perché costituisca una specie d’esempio, perchè metta in moto forze politiche che hanno un’importanza molto maggiore fuori della fabbrica che nella fabbrica stessa»274.

Concludendo il proprio intervento ritornando alla fabbrica e alle sue dinamiche, Leonardi lanciava una suggestione e proponeva una lettura che avrebbe permesso al sindacato di rilanciare il conflitto in una situazione all’apparenza ostile. L’automazione del lavoro andava combattuta non in quanto tale, ma nelle sue accezioni negative. Era la perdita di controllo da parte dell’operaio il nodo cruciale da affrontare, l’automazione andava combattuta in quanto foriera di alienazione e perdita di contatto con la realtà: «questo operaio deve fare esattamente quanto gli è richiesto dalla programmazione, non di meno, ma nemmeno di più perché questo non rientra nel calcolo generale della produzione aziendale. Questa regolarità, a mio parere, è un nuovo elemento di sforzo»275.

Per confermare la propria posizione Leonardi si appoggiò al caso di studio della

273 Ibidem.

274 Ivi, p. 171. 275 Ivi, p. 180.

fabbrica di macchine da cucire Necchi di Pavia. È interessante questo riferimento poiché ci rimanda a Gino Martinoli, che era stato superiore di Leonardi all’IRI, e che in seguito esercitò la sua opera di modernizzazione delle pratiche produttive proprio nello stabilimento pavese. Visto in quest’ottica si comprende meglio l’invito di Leonardi all’alleanza tra operai e tecnici modernizzatori, che alla Necchi sarebbe stata la sola possibilità di rompere il fronte padronale, propenso all’impiego di pratiche coercitive e fiero oppositore dell’introduzione di pratiche quali il TWI e le relazioni umane: «alla Necchi risulta inoltre chiara la presenza di una forza direzionale nuova che molto spesso è in disaccordo col padrone [...]. Il padrone, appena può farlo, mentre introduce una politica di forza nei riguardi dell’organizzazione dei lavoratori, nello stesso tempo liquida tutta la direzione nuova. Quindi in questo caso [...] il padrone non solo è naturalmente contrario alle nuove posizioni di classe, ma è contrario anche ai gruppi di tecnici nuovi che rappresentano le esigenze delle nuove forze produttive»276. Leonardi concludeva con l’invito ad un’alleanza strategica con i tecnici in nome dello sviluppo delle forze produttive e contro le resistenze conservatrici padronali.

Dei diversi interventi che seguirono va rilevato innanzitutto quello tenuto da Bruno Trentin, in perfetta sintonia con quanto detto da Leonardi. Compiendo un’autocritica sull’impostazione che il sindacato aveva mantenuto dal dopoguerra nei confronti di produttività e progresso tecnologico, Trentin assumeva la correlazione tra progresso tecnico e organizzazione del lavoro facendo compiere così al sindacato un passaggio importante in direzione del superamento della concezione di diffidenza nei confronti del progresso tecnico: «l’obiettivo attuale del movimento operaio dovrebbe essere quello di giungere il più rapidamente possibile all’automazione della produzione, con il ritorno cioè, a nuove forme di lavoro complesso e riqualificato»277.

Il pragmatismo portò Trentin, sulle orme di Leonardi, ad assumere come un nodo critico la problematica dell’organizzazione del lavoro, attorno alla quale si sarebbe dovuta reimpostare l’azione sindacale. Allo stesso modo dava una definizione delle

human relations come reazione capitalistica alla dequalificazione del lavoro che

indirizzava gli operai, privati del controllo sulla produzione, verso un patriottismo di fabbrica allo scopo di mascherare la degradazione della propria condizione, evitando dunque la lettura che le voleva una semplice riedizione del paternalismo.

276 Ivi, p. 186.

Giorgio Rossi propose una rilettura critica della psicologia del lavoro, una delle “americanate”, così come era definita anche la sociologia, introdotte in quegli anni negli stabilimenti industriali italiani. Rossi citò di fronte ad una platea di quadri marxisti nomi come Ermanski, Hans Rupp, Elton Mayo, per criticare l’impostazione esclusivamente industrialista con cui veniva applicata la psicologia, snaturandone la funzione di scienza positiva al servizio del lavoratore.

Proponendo l’introduzione nelle aziende di psicologi autonomi e accettati da tutte le parti sociali al fine di svolgere ricerche scientifiche rigorose degli ambienti di lavoro volti a migliorarne gli standard, Rossi sembrava effettuare una critica sindacale alle scienze umane applicate al lavoro e dimostrando una decisa apertura ed accettazione non passiva delle innovazioni imposte al lavoro: «si è scambiata la parte per il tutto, bruciando qualsiasi possibilità di replica e di un eventuale ridimensionamento nell’introduzione di metodi psicologici nella fabbrica, nel senso di una applicazione non utilitaristica e unilaterale [...] ma di adattamento dell’operaio alla situazione di lavoro aiutandolo a divenire più cosciente, più libero nel suo lavoro ed attraverso il suo lavoro [...] In questo possono essere capovolti i termini dell’iniziativa padronale e servirsi degli psicologi; e questo può essere ottenuto sostenendo gli psicologi nel loro compito specifico: lo studio dell’uomo individuale nelle sue condizioni concrete, e quindi sociali, di esistenza»278.

2.2.6 Il disgelo

La breccia aperta dai dibattiti del post 1955-56 nella spessa coltre dell’ortodossia marxista, non si impose beninteso immediatamente, ma subì attacchi da parte delle correnti interne più legate ad una impostazione classica della teoria sindacale, che subito dopo il 1957 riebbero il sopravvento e che solo la ripresa della conflittualità negli anni Sessanta riuscì a mettere in minoranza.

Nel 1957 così, Silvio Leonardi venne rimosso dal suo incarico alla guida dell’USE, dopo essere entrato in conflitto con la dirigenza del PCI milanese, come descritto da