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«Il Centro per la Produttività di Monza, che è, come detto, la somma delle rappresentanze delle organizzazioni economiche locali, nella attuazione dei suoi programmi è autonomo, fermo restando il principio dell’aderenza all’orientamento informatore dell’azione generale del CNP, che si propone, come è noto, il raggiungimento di un migliore tenore di vita, in un clima di rapporti umani e sociali improntati ad una maggiore collaborazione fra i datori di lavoro e i dipendenti»241

Una seconda generazione di centri dimostrativi della produttività nacque tra 1955 e 1956 affiancando quelli già attivi da quattro anni a Palermo, Salerno e Vicenza.

Il 2 marzo 1956 la sezione brianzola della Camera di Commercio di Milano242 istituì il centro dimostrativo di Monza243 che, «in collegamento con quello Nazionale, avrebbe quale nuovo organo consultivo a disposizione del pubblico, lo scopo di individuare le misure atte a rimuovere o superare gli ostacoli che, dato lo scarso livello tecnologico e insufficiente preparazione professionale di certi settori industriali italiani, impediscono un incremento del reddito»244.

La vita del centro di Monza fu breve e segnata da limiti che ne determinarono il fallimento, tanto che già il 1 ottobre 1957 una relazione della segreteria proponeva, di fronte due alternative: «Nel caso in cui la Giunta del CNP decida la sopravvivenza del Centro di Monza, il Centro stesso dovrebbe assumere un mordente di carattere nettamente tecnico per aderire alle richieste della Zona, che dovrebbero venire 240 Ivi, p. 295. 241 ACCIAM, 1167-15. 242

ACCIAM, 1239-151. Facevano parte del centro quali membri di diritto per statuto: l’Associazione Industriali di Monza e Brianza, l’Unione Commercianti di Monza e Circondario, l’Unione Artigiani di Monza e Brianza, l’Unione Provinciale degli Agricoltori di Milano, Unione Sindacale di Zona Monza CISL, la UIL, l’Amministrazione comunale di Monza, l’Amministrazione provinciale di Milano, la Camera di Commercio di Milano, l’Associazione Lombarda dirigenti d’azienda e il Centro Banca.

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ACCIAM, 1241-181. L’11 novembre 1955 venivano proposte dalla Camera di Commercio le seguenti iniziative per Monza: istituzione di un centro di documentazione, istituzione di un albo degli esperti in organizzazione aziendale, pubblicazione di studi, istituzione di commissioni tecniche, raccolta di cataloghi e manifesti pubblicitari, aggiornamento sulle nuove macchine per l’ufficio.

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successivamente precisate a mezzo di un’inchiesta condotta con visite dirette ai responsabili delle aziende»245; la seconda alternativa prevedeva la chiusura e il trasferimento delle attività in un’altra provincia del nord-ovest.

Le ragioni dell’insuccesso indicate nella relazione testimoniavano la difficoltà di attuare le pratiche produttivistiche in un bacino fortemente sviluppato come quello milanese. Oltre al fatto che a Monza «manca(va) la Camera di Commercio, manca(va) la Prefettura, manca(va)no gli organi dell’Ente provinciale, manca(va)no Banche di importanza ed autorità Provinciale, manca(va)no associazioni sindacali e professionali di notevole importanza […], manca(va)no organi di stampa quotidiani»246, strutture essenziali per creare una rete di imprese dimostrative e lanciare una campagna della produttività territoriale come era stato fatto con maggiore successo in provincia di Vicenza, il fallimento era dovuto alla vicinanza di un centro metropolitano come Milano. Nel capoluogo lombardo, infatti, dove il terziario avanzato era già una realtà: «Dato l’altissimo sviluppo raggiunto dalla industrializzazione lombarda, la vicina Milano – Centro naturale di gravitazione di tutta l’attività monzese – offre corsi, convegni, conferenze […] decine di organizzazioni di consulenza aziendale sia italiane che americane, inglesi, francesi»247.

L’azione del CNP era dunque vanificata in un centro che gravitava nell’orbita di una metropoli inserita nei circuiti produttivi più avanzati a livello europeo e questo testimoniava come una realtà simile avesse già fatto in parte proprio le parole d’ordine produttivistiche senza bisogno di azioni dimostrative. Le considerazioni del Comitato brianzolo testimoniavano con lucidità l’impossibilità di competere con i servizi forniti dagli istituti operanti a Milano: «Chiunque abbia un minimo di sensibilità produttivistica, può quindi con facilità studiare le singole tecniche, e successivamente assicurarsene una seria e competente applicazione aziendale»248.

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ACCIAM, 2024, Situazione del Centro di Monza al 1 ottobre 1957, p. 2.

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Ivi, p. 3.

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Ivi, p. 3.

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Ivi, p. 3. Nella stessa cartella, sulla relazione Effetti conseguenti alle resistenze alla penetrazione delle iniziative produttivistiche nell’ambiente della zona di Monza di cui nella relazione degli uffici del CNP presentata in giunta nella seduta del 1 luglio 1957 a p. 2 si legge: «Coloro che acquisiscono convincimenti e si avviano all’applicazione dei concetti appresi, trovano nella vicina Milano tutte le possibili fonti di assistenza privata (corsi di ogni specie e natura, conferenze, consulenze e società di consulenza in quasi tutti i rami). Perciò preferiscono in definitiva rivolgersi ad esse, anziché al Centro, perché così facendo ottengono il soddisfacimento dei propri bisogni senza altri oneri o conseguenze salvo il pagamento del relativo importo».

Il Centro lamentava un’ostilità diffusa tra gli operatori economici della zona di Monza nei confronti delle attività produttivistiche, in quanto ritenute troppo onerose in termini di impegni rispetto alle prestazioni delle società di consulenza private le quali, una volta fornito il servizio, non richiedevano rendiconti, bilanci e verifiche. Il concetto stesso di produttività veniva così stravolto da aziende che non avevano motivo per abbandonare i metodi «del paternalismo, dell’accentramento dei poteri, del surmenage direzionale, dell’empirismo»249.

Anche per quanto riguarda le scienze sociali, il Centro di Monza risultava in ritardo, tanto da non dedicare nel corso del primo anno di attività nessuna iniziativa allo sviluppo e alla propaganda dell’applicazione delle relazioni umane.

Questo segnava un ulteriore limite per Monza, soprattutto prendendo in considerazione il caso dell’attivissima Camera di Commercio di Milano, la quale collaborava fin dal 1945 con la Società Umanitaria, storica istituzione milanese attivamente impegnata nell’opera di formazione delle classi lavoratrici e nella ricerca sociale.

In particolare negli anni Cinquanta le attività dell’Umanitaria in questo senso furono coordinate dal “protosociologo”250 Leone Diena, direttore del Museo Sociale nonché autore di numerose inchieste per il Centro di Studi Sociali dell’Umanitaria, l’attuale ISIS.

Negli archivi della Camera di Commercio di Milano sono conservati gli sviluppi dell’inchiesta che Diena svolse a Milano in merito alla produttività operaia.

Diena applicò una serie di misure agli indici di produttività per conteggiare il rendimento individuale, stabilendo poi una seri e di elementi che andavano ad influire sulla produttività degli operai.

Tra gli elementi non direttamente legati al lavoro figuravano la distanza della residenza dal luogo di lavoro «l’operaio si stanca eccessivamente nei viaggi di trasferimento o, peggio, è costretto a trasferirsi provvisoriamente in un domicilio accanto alla fabbrica, con inevitabile maggior disagio, maggiori spese, demoralizzazione, sregolatezza della vita»251, ma d’altra parte, era altresì poco augurabile per i lavoratori abitare in case appositamente costruite dall’azienda nei pressi della fabbrica «viene a mancare una parte dello svago consistente nell’allontanarsi dall’ambiente […] abituale e nell’incontrare persone e mentalità diverse»252.

249

ACCIAM 2024, Effetti conseguenti, cit., p. 3.

250

Secondo la definizione di U. Melotti sul sito dell’Umanitaria http://www.umanitaria.it/1-124.php

251

ACCIAM, 2024, L. Diena, Osservazioni sulla produttività operaia, p. 10.

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In un’ottica fortemente incentrata sull’armonia dello sviluppo della personalità dell’operaio, Diena continuava le osservazioni considerando lo stato di famiglia dell’operaio: «generalmente l’operaio celibe ha maggiore stimolo ad imparare, a far carriera […] È bene tuttavia che la famiglia non sia molto numerosa, sicché l’operaio possa con una certa tranquillità attendere al sostentamento di essa»253. Rendimento statico, tendente cioè a rimanere uguale e rendimento dinamico, che stimola a maggiore guadagno sono meno influenti, prevale la staticità.

Diena considerava di scarsa importanza il grado di istruzione, e anzi vedeva un ostacolo alla produttività degli operai la frustrazione dovuta ad un grado di istruzione più elevato dell’effettiva carriera. Diverso è il discorso per gli operatori qualificati alle macchine automatiche «il grado di istruzione si accompagna con un più alto livello culturale e di educazione, che pure ha molta influenza sul rendimento, sia perché acuisce il senso di responsabilità e il rispetto per se stessi […] sia perché migliora e precisa i rapporti umani e le relazioni sociali gerarchiche dell’azienda»254.

Diena considera anche il fattore di spostamento di mansione nel lavoro al fine di mantenere alto il rendimento dell’operaio. L’età in questo influisce: il momento migliore va dai 25 ai 40 anni, mentre discende dai 50 «lo sviluppo dell’uomo non è in genere completo se non intorno al 25.o anno di età e che peraltro è quanto mai pericoloso assoggettare i troppo giovani ad incondizionato lavoro, e facilmente si vedrà che i vantaggi dello sfruttamento in età giovanile non compensano affatto dei danni del minor rendimento delle età più avanzate»255.

Il sociologo consigliava per le donne, il cui rendimento sarebbe stato comunque sempre inferiore a quello degli uomini, lavori che gli uomini si rifiutavano di compiere, e lavori che l’intermittenza delle prestazioni non avrebbe influenzato.

Il tenore di vita dell’operaio rivestiva un’altra voce nell’elenco stilato da Diena, secondo il quale in un’azienda avrebbe dovuto esserci corrispondenza tra mansioni svolte e tenore di vita.

Per quanto riguarda invece gli elementi che influenzavano direttamente il lavoro, Diena prendeva innanzitutto in considerazione lo stato di salute. Analizzando un lavoro lo si doveva descrivere a seconda delle condizioni psicotecniche, di paga, psichiche e professionali.

Diena spese più tempo sul primo dei fattori, in particolare per stabilire se l’inutile dispendio di energie del mantenimento della posizione eretta poteva essere limitato. Per le aziende questo

253 Ivi, p. 11. 254 Ivi, p. 12. 255 Ivi, p. 13.

significava un gran numero di operai con disturbi di postura e l’impostazione della ricerca di Diena continua mantenendo un orientamento verso il miglioramento globale delle condizioni per l’operaio in un’ottica pragmatica: «se non si sarà riusciti […] a trasformare assolutamente tutti i posti di lavoro, si potrà almeno raggiungere il risultato che per alcuni posti di lavoro si sarà potuto risolvere il problema della posizione seduta»256.

Egli d’altra parte osservava come test attitudinali e fisici potevano aiutare nella scelta degli operai e che una scarsa considerazione per la salute di questi ultimi aveva effetti sul rendimento. D’altra parte Diena affermò che «la direzione aziendale non si deve prefiggere scopi umanitari né terapeutici:essa deve badare essenzialmente alla produzione e quindi al rendimento. Il medico non è che di ausilio»257.

Diena considerava in sostanza di fondamentale importanza la dotazione presso le imprese di un centro di addestramento e di selezione psicotecnica in cui effettuare test psicotecnici al fine di indirizzare il candidato al posto di lavoro adatto e per stabilirne il grado di maturità psichica e fisica, valutando qualità che sarebbero state indispensabili alla produzione: «l’alta produttività del personale invece che con lento e graduale processo di qualificazione in seguito a lunga esperienza di lavoro, è ottenuta mediante lo sfruttamento delle qualità innate e attuali»258.

Infine Diena analizzava lo strumento delle paghe e degli incentivi considerati poco utili all’incremento della produzione. «Il livello della paga dovrebbe costantemente essere superiore al costo della vita minimo e dovrebbe seguire passo passo l’andamento della produttività»259.

Per quanto concerneva le valutazioni psichiche della vita dell’operaio, Diena riteneva fondamentale dotarsi di un unico strumento di classificazione dei meriti per il personale, lasciando il giudizio ad organi esterni che non fossero capi e tecnici.

L’inchiesta di Diena giungeva in un momento di passaggio per la sociologia italiana: da un lato la propaganda delle relazioni umane in breve tempo avrebbe dimostrato tutti i suoi limiti e avrebbe lasciato spazio ad altre proposte teoriche. Dall’altro nuovi soggetti attivi nel campo della sociologia del lavoro si affermavano nel panorama italiano.

Il CNP avrebbe progressivamente coinvolto il sindacato per azioni di riforma dell’impianto delle relazioni umane e industriali nelle aziende, mentre un nuovo modo di intendere e praticare la ricerca sociale si affermava tra una nuova generazione di sociologi.

256 Ivi, p. 16. 257 Ivi, p. 19. 258 Ivi, p. 22. 259 Ivi, p. 23.