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Anni Settanta: fabbrica, conflitto, classe operaia

3. LA CITTÀ

3.2 Conflitto e rivendicazioni

3.2.2 Anni Settanta: fabbrica, conflitto, classe operaia

Henri Lefebvre, il caposcuola di quella che si può definire teoria critica urbana,238 nel suo saggio, edito nel 1968,239 Le droit à la ville, ormai famoso tra il vasto pubblico, inserisce, in un

235 Parker specifica che per «teoria urbana» si intende una espressione oramai: «accettata nei circoli accademici

come abbreviazione per una gamma di prospettive e interpretazioni del mondo urbano che mirano, in modi diversi, a fornire una comprensione generale della vita cittadina che va oltre il contingente e il locale, mantenendo al tempo stesso il focus sulle caratteristiche essenziali dell’esperienza urbana». Si veda: Parker S., Teoria ed esperienza

urbana, Il Mulino, Bologna, 2006, pag. 16.

236 Ibidem. 237

Ibidem.

238 Neil Brenner specifica come la definizione di teoria critica urbana: « is generally used as a shorthand reference to

the writings of leftist or radical urban scholars during the post – 1968 period – for instance, those of Henri Lefebnre, David Harvey, Manuel Castelles, Peter Marcuse, and a legion of others who have been inspired or influenced by

84 orizzonte di analisi marxista l’importanza della variabile dello spazio nell’analizzare i rapporti di dominio tra la classi. La città che ha davanti agli occhi Lefebvre è quella industriale dai connotati fordisti: Come, infatti, spiega Christian Schmid, docente di sociologia urbana a Zurigo:

Lefebvre’s concept of the “right to the city” is based on his investigation of urbanization in France during the 1960s (Stanek, 2011). Like most of the Western industrialized nations, France was marked by the ascent of Fordism and the expansion of the Keynesian welfare state. This development was accompanied by massive migration from rural to urban areas and a fundamental change in spatial structures. Functionalist urban planning led to a restructuring of inner city areas; the margins of the cities were dominated by mass production of social housing as well as by an extensive proliferation of single – family detached housing units.240

Lefebvre evidenzia come la città sia attraversata da una crisi – teorica e pratica messa in moto dal processo di industrializzazione che modifica il tessuto urbano e i rapporti – obbligati o non – che gli abitanti istaurano con esso. È una crisi della città che si riflette ed intreccia a quella della società.

For Lefebvre, this crisis consisted primarily of a tendency towards the homogenization of lifestyles and engineering and colonization of daily life. In middle – class suburbs and in working – class housing estates, analogous conditions prevailed – the monotony of the labor process, the order of functionalized and bureaucratized cities, and the normative constraints of the modernized urban everyday life.241

L’industria e il relativo processo di industrializzazione urbano si caratterizzano così per alienare due volte la working class: dentro e fuori il luogo di lavoro, la fabbrica. Ad una doppia alienazione si associa poi una duplice espropriazione: del tempo e dello spazio. Infatti: «l’industrializzazione si è comportata come negatrice della realtà urbana intesa come coscienza them». Si veda Brenner N., What is critical urban theory ?, in Brenner N., Marcuse P., Mayer M. (edited by), Cities

for people, not for profit. Critical urban theory and the right to the city, Routledge, London, New York, 2011, pag.

11.

239 Harvey precisa che il libro è stato scritto nel 1967, prima dei movimenti sessantottini. «Ritengo che sia

estremamente significativo che Il diritto alla città sia stato scritto prima dell’irruzione (come Lefebvre la definì più tardi) del Maggio 1968. Il libro ritrae uno scenario in cui una simile irruzione risultava non solo possibile ma quasi inevitabile […]. Le radici urbane del movimento del Sessantotto restano però un tema molto trascurato nelle rielaborazioni successive dell’evento». Harvey D., Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a

Occupy Wall Street, Il Saggiatore, Milano, 2013, pag. 7.

240

Schimd C., trans. by Findaly C., Henri Lefebvre, the right to the city, and the new metropolitan mainstream , in Brenner N., Marcuse P., Mayer M. (edited by), Cities for people, not for profit. Critical urban theory and the right

to the city, Routledge, London, New York, 2011, pag. 43.

241

85 dei rapporti individuo – società – individuo, consapevolezza dell’appropriazione di uno spazio e di un tempo che hanno significato in quanto campi di esistenza dei predetti rapporti».242

Lefebvre individua nella classe operaia – quella più colpita da questo processo – l’unica in grado di, non far ritorno, in una visione mitizzata, ad un modello di città precedente, ma di proporre un modello urbano diverso, in cui si configurino in modo differente i rapporti tra «valore d’uso» e «valore di scambio».

Solo la classe operaia può divenire l’agente portatore o supporto sociale di questa realizzazione. Qui ancora, come un secolo fa, essa nega e contesta, col solo fatto della sua esistenza, la strategia di classe diretta contro essa. Come un secolo fa, anche se in condizioni nuove, essa riunisce gli interessi (superando l’immediato e il superficiale) della società intera e anzitutto di tutti coloro che abitano.243

La classe operaia è, quindi, quella sottomessa dai rapporti di classe e l’unica che può capovolgerli, non solo nella fabbrica ma anche fuori, modificando anche gli altri ambiti di vita. Proviamo a vedere più nello specifico come questo rapporto di cui parla l’Autore tra fabbrica e città, o meglio luogo di lavoro ed abitazione, si manifesti nel concreto .

Il sociologo urbano Giuliano Della Pergola in un saggio degli anni settanta dal titolo Diritto alla

città e lotte urbane, inserendosi in questo filone di critica urbana e riferendosi al contesto italiano

di allora, mette il luce come: «le due tematiche – quella della condizione operaia sul posto di lavoro e quella dell’abitazione operaia nella città – sono assai più collegate di quanto non sembri».244

Si può indicare come le due questioni siano legate principalmente da due fattori: la stratificazione sociale e la mercificazione della casa.

Infatti per il primo elemento Della Pergola suggerisce che:

la stessa stratificazione sociale che nasce sul posto di produzione si trasferisce nella città, sul territorio, e diventa uso del suolo privilegiato per le classi sociali dominanti, decoro piccolo borghese delle fasce intermedie tra il centro e la periferia per i “colletti bianchi” (impiegati, tecnici, subalterni di carriera, ecc.) e diventa segregazione ed emarginazione per quelle classi sociali che svolgono nel sistema produttivo mansioni umili, non specializzate, per lo più manuali, non qualificate, mal retribuite e sottoremunerate.245

242

Bairati C., Introduzione in Lefebvre H., op. cit., pag. 9.

243 Lefebvre H., op. cit., pag. 134.

244 Della Pergola G., Diritto alla città e lotte urbane, Feltrinelli, Milano, 1974, pag. 44. 245

86 Una divisione del lavoro e della proprietà dei mezzi di produzione che si riproduce a livello abitativo: «e come le classi privilegiate detengono, con gli strumenti del potere, quelli della produzione di case e del consumo della città, così le classi subalterne non gestiscono la politica dell’abitazione e della città».246

Il nodo problematico non è solo legato al non avere accesso alla gestione della «politica dell’abitazione», ma anche a quello, che Della Pergola definisce «defraudazione» del proprio salario attraverso il pagamento dell’affitto.

Da sempre esiste combutta tra gli imprenditori e gli speculatori. La classe operaia, sfruttata sul posto di lavoro come produttrice di beni economici organizzati dal datore di lavoro, nella città viene defraudata di una parte, più o meno cospicua, del proprio salario, con la quale paga l’affitto.247

Provo ora spiegare che cosa intenda Della Pergola con il termine «defraudazione». Secondo le teorie del sociologo è proprio «lo stabilirsi della classe operaia nella città che determina l’aumento dei valori economi legati al territorio»248

e crea una fonte di ricchezza dalla quale è esclusa, che viene spartita «tra i proprietari dei terreni, i proprietari immobiliari e gli speculatori privati».249

Quindi la classe operaia – composta da chi arriva dalle campagne e da centri urbani minori250 – è costretta ad abitare la città industriale scontrandosi con lo scoglio di trovare una casa. «Gli emigrati si trasferivano nelle zone industriali ma, giunti sul luogo di lavoro, non trovavano la città disposta ad accoglierli: né dal punto di vista culturale, né dal punto di vista delle strutture sociali»251 con il consequenziale sviluppo dei quartieri dormitorio costruiti nelle periferie. Su questo aspetto, interessante, non posso soffermarmi ma andrò direttamente ad evidenziare come la difficoltà della questione casa nella ricostruzione di Della Pergola sia legata alla sua mercificazione: il “bene casa” è trattato come una merce.

246 Ivi, pag. 46. 247 Ivi, pag. 19. 248 Ivi, pag. 18. 249 Ivi, pag. 19. 250

Si pensi all’industrializzazione italiana e all’emigrazione interna, dal sud e dal nord-ovest,verso il Nord con destinazione città come Torino o Milano. Sull’immigrazione dal Sud Italia a Torino e i relativi problemi di “inclusione” rimando al saggio di Fofi G., L’immigrazione meridionale a Torino, Feltrinelli, Milano, 1976.

251

87

Quando si parla di speculazione privata, non si parla di un fenomeno peggiore di quanti altri accadono sul mercato (finanziario, economico, ecc.). Semplicemente si dice che il singolo costruttore di case “specula” sui valori economici attuali rispetto ad altri futuri, che egli giudica più convenienti, e adegua così il “bene casa” a un qualsiasi altro bene economico. La gravità del fatto non sta tanto nell’usare il mercato e le sue leggi: ciò è grave, ma non più che per le mille altre operazioni economiche che sul mercato si fanno. La gravità consiste nell’equiparare “la casa” a altri beni, magari secondari o di cui si trovano nel mercato molte variazioni. Così, in una società strutturata e complessa come ad esempio quella italiana, può avvenire – e avviene! – che non ci siano abbastanza case per tutti.252

La casa è, quindi, trattata come una merce uguale alle altre e, l’operaio deve sottrarre parte del proprio salario per l’affitto: «altri non è che una persona che trasferisce capitale da un proprietario ad un altro, ma che non gode in prima persona del capitale guadagnato».253 Il sociologo individua che circa il 20%, 30% del salario è destinato all’affitto: una spesa che nonostante sia sostanziosa e continuativa non permette nel tempo l’acquisto dell’immobile. L’analisi della questione casa insegna, quindi, che nessuna rivendicazione salariale può essere disgiunta da una di tipo abitativa, la quale si prefigga di ottenere una regolazione che esca dalle dinamiche del profitto del mercato.

La fabbrica è il contesto in cui si può esprimere una coscienza e solidarietà di classe, che a sua volta può evolvere nell’organizzazione di una lotta e di una rivendicazione.

Questo aspetto di classe che si manifesta tra l’operaio e il capo, la “fabbrica” si dissolve nel momento in cui l’inquilino si trova davanti al padrone di casa.

Infatti, l’inquilino che stipula privatamente il contratto di affitto col proprio padrone di casa è una figura che perde tutti i caratteri organizzati, di solidarietà e “di classe”, che invece possiede sul posto di lavoro, quando è organizzato all’interno di un sindacato o di una forza sociale antagonista alle leggi del mercato.254

Quindi, è importante che gli “inquilini” riuniscano le loro rivendicazioni in un movimento che porti all’attenzione delle politiche la casa come «“servizio sociale” e non solo “bene economico”».255

Le riflessioni del saggio partono poi ad analizzare come, in realtà «la storia del movimento operaio è ricca di protesta sul luogo di lavoro in fabbrica, di esperienze rivendicative,

252 Ivi, pp. 41-42. 253 Ivi, pag. 42. 254 Ibidem. 255 Ibidem.

88 di lotta e di mobilitazione generale sul luogo di sfruttamento ed invece le lotte urbane risultano assai meno frequenti, fra di loro slacciate, per lo più circoscritte e non generalizzabili, numericamente di gran lunga inferiori a quelle di fabbrica».256

La classe operaia non è stata in grado di creare quel connubio tra rivendicazione lavorativa e abitativa, che può verificarsi solo a questa condizione: «che nella società ci siano dei canali di comunicazione tra rivendicazioni di fabbrica e lotta sociale. Quando questo contesto conflittuale

si sviluppa e la lotto contro i profitti si socializza con quello contro la rendita, la lotta può estendersi anche nella città».257

Mi sono soffermata a lungo sugli anni settanta e sulla questione operaia perché ritengo che possa essere una chiave di lettura ulteriore per comprendere il presente - sia a livello teorico che a quello delle pratiche.

Alcuni elementi nelle riflessioni di Della Pergola sono, tra l’altro, ancora presenti nelle riflessioni attuali, anche se ovviamente contestualizzati all’oggi. Penso per esempio al concetto di «defraudazione», che Harvey chiama «pratiche predatorie urbane» e collega, per esempio, alla

gentrification o ai mutui sub – prime.258

Inoltre, la questione operaia sembra appunto presentarsi anche come questione abitativa ed introduce la variabile del lavoro nelle potenziali rivendicazioni attorno alla casa. Il lavoro rimanda, poi, ai rapporti tra le classi che si strutturano anche spazialmente e permettono accessi diseguali alla città.