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Il Diritto alla città e la città come bene comune

3. LA CITTÀ

3.4 Il Diritto alla città e la città come bene comune

3.4.1 Étienne Balibar e il droit de cité

Mi sembra appropriato introdurre un discorso sul diritto alla città, declinato all’oggi, richiamando brevemente all’attenzione il concetto di droit de cité, proposto da Balibar: esso permette di visualizzare e comprendere al meglio l’aspetto territoriale della cittadinanza del quale scrivevo poco fa. Il droit de cité difficilmente può essere tradotto in italiano senza perdere il potenziale del suo significato; i traduttori all’edizione italiana motivano così questa scelta:

abbiamo preferito lasciare l’espressione «droite de cité» in francese perché è impossibile trovare un equivalente italiano, il concetto esprime la necessità di pensare una cittadinanza basata sulla residenza che oltrepassi lo jus soli e lo jus sanguinis, si potrebbe anche dire un diritto a vivere la città, indipendentemente dallo status giuridico dell’attore sociale che la attraversa.282

La declinazione di questo concetto permette, quindi, il superamento della classica divisione tra il diritto del sangue e quello del suolo per ampliare lo jus soli «sino ad ottenere una cittadinanza

basata sulla residenza, altrimenti si rischierebbe un regime di esclusione del tutto simile a quello

del sistema dell’apartheid».283

Una riflessione seria sull’estensione di questo diritto potrebbe permette di ridare piena dignità a tutte le persone – indipendentemente dal proprio paese di nascita o di quello dei genitori – che mai astrattamente (non bisogna dimenticarselo in particolare in sedi teoriche), ma con la loro corporeità, i loro desideri e anche sofferenze, plasmano e trasformano le città nelle quali decidono (o si trovano costretti) a vivere.

Il diritto a vivere la cité, oltre a indicarci la via da proseguire per immaginare una nuova idea di cittadinanza, dettata dal quì ed ora – quindi determinate variabili di spazio e tempo – piuttosto

282 Balibar,Noi cittadini d’Europa? Le frontiere, lo stato, il popolo, Roma cit. pag. 229, nota n. 46. 283

97 che da discorsi astoricizzati e astoricizzanti, permette di pensare di quale città si sta parlando o, meglio, alla quale si vuole tendere.

Come ho appena scritto le forme della cittadinanza e della città si intrecciano tra di loro e si presentano con tutti i loro interrogativi e la tensione tra quello che appaiono ora e il loro significato in divenire. L’analisi di questi concetti, come si sta qui provando a tratteggiare, risulta di estrema complessità in quanto, oltre ad una seria necessità di contestualizzazione, spesso trasversale a diversi ambiti – storici, filosofici, economici e, non per ultimi, culturali – non è mai facilmente circoscrivibile e schiude punti di riflessione e di collegamento a tutto tondo. In questo senso, in una sorta di matrioska dei diritti, non solo il diritto alla casa sembra essere compreso in quello alla città, contenuto a sua volta in quello più ampio alla cittadinanza, ma ognuno dei tre concetti appare, in questa direzione, rafforzarsi e assumere maggior spessore.

3.4.2 Il diritto alla città

Il concetto di diritto alla città è stato teorizzato per prima da Lefebvre nel suo saggio Le droit à

la ville  già citato da noi precedentemente  ed oggi risulta essere particolarmente frequentato sia in ambito teorico come in quello delle amministrazioni, del settore no profit e, non per ultimo, in quello dei cosiddetti movimenti dal basso.

Come suggerisce Peter Marcuse «the right to the city is both an immediately understandable and intuitively compelling slogan and a theoretically complex and provocative formulation».284 Questa formula si è, infatti, fatta spazio al di fuori dell’accademia e può essere soggetta a diverse interpretazioni ed usi. Harvey nota come essa possa essere considerata «un significante vuoto. E dipende interamente da chi lo riempie di significato».285 Pertanto il diritto alla città può essere rivendicato, certo con obiettivi ed intenzionalità diverse, da gruppi e soggetti che si collocano in posizioni diametralmente opposte sulla scala sociale. Infatti: «i grandi gruppi finanziari e immobiliari possono reclamarlo, e hanno tutto il diritto di farlo. Ma possono farlo i senzatetto e i

sans papiers».286

Questa riflessione rimanda al conflitto – a seconda dei casi, latente od esplicito – tra chi intende la città come un affare e chi, invece, la produce e vorrebbe viverla come un bene. Sempre secondo Harvey, infatti: «tutti quelli che faticano per produrre e riprodurre la città hanno il

284

Marcuse P., Whose right(s) to what city?, in Brenner N., Marcuse P., Mayer M. (edited by), op. cit., pag. 29.

285 Harvey D., Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, Milano, cit., pag. 12. 286 Ibidem. Si legga a proposito anche Mayer M., The “right to the city” in urban social movements, in Brenner N.,

98 diritto collettivo non solo di disporre di quanto producono ma anche di decidere quale tipo di dimensione urbana debba essere prodotta, e dove e come produrla».287 In questo senso rivendicare il diritto alla città significa battersi per «riappropriarsi dello spazio e del tempo delle metropoli».288 Questo concetto assume un valore particolare se lo si inserisce nelle attuali dinamiche lavorative, che hanno forzato i confini tra tempo/spazio di lavoro e tempo/spazio di vita in un orizzonte in cui la stessa vita è messa al lavoro.289

Per fare un esempio sui modi attraverso i quali riappropriarsi dei tempi e degli spazi di vita Hardt e Negri citano «le lotte intorno alla riproduzione sociale, al reddito, al welfare e all’esercizio dei diritti di cittadinanza».290 Riappropriarsi del tempo e dello spazio: per andare dal generale al particolare si pensi quanto queste lotte di rivendicazione assumano proprio questo valenza se inserite, ad esempio, in una prospettiva di genere; alla luce di queste considerazioni le politiche di conciliazione tra lavoro e vita privata non possono che non essere anche inserite nel quadro più grande di politiche per la città tout court.

Ho scritto precedentemente della divergenza tra la visione della città come bene e città come merce; andiamo a vedere meglio cosa questo significhi. Questi due elementi rimandano alla differenza tra valore d’uso e valore di scambio, che come è stato originariamente applicato al concetto di lavoro può essere oggi declinato a quello di città.

Secondo l’urbanista Salzano «bene e merce sono due modi diversi per vedere e vivere gli stessi oggetti»,291 appunto, nel nostro caso, la città.

Si può considerare per bene:

qualcosa che ha valore di per sé, per l’uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli dell’affetto e del piacere (l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il godimento estetico). Un bene ha un’identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo.292

Mentre per merce si può intendere:

287 Ivi, pag. 146.

288 Hardt M., Negri A., op. cit., pag. 248. 289

Cfr. Morini C., op. cit.

290 Hardt M., Negri A., op. cit., pag. 249.

291 Salzano E., La città come bene comune, 2008, consultato al link: www.archivio.eddyburg.it, pag. 2. 292

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qualcosa che ha valore solo in quanto posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in sé, ma solo per ciò che può aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un’altra che ha un valore economico maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate.293

Quindi la città sembra oscillare tra questi due poli opposti rimandando a due modelli contrapposti: la città della rendita e quella dei cittadini. Si può, infatti, essere concordi sul fatto che «lo slogan che forse meglio di altri esprime l’immagine di un’alternativa alla “città della rendita” – quella esclusivamente finalizzata agli affari ottenibili dalla mera valorizzazione economica e guidata dall’ideologia dello “sviluppo” e alla quale tende il neoliberismo –, è la “città dei cittadini”».294

I cittadini devono quindi essere al centro di quel processo che tende alla città come bene e questa tensione può sicuramente essere rintracciata nei movimenti per il diritto alla città.

Mezzadra a proposito sottolinea: «il diritto alla città ha conosciuto negli ultimi anni una straordinaria diffusione globale: le lotte che si richiamano a quello slogan sono uno dei terreni fondamentali al cui interno si può vedere la perdurante attualità politica del tema del valore d’uso».295

Certo i movimenti attuali che rivendicano il diritto alla città non sempre si inseriscono consapevolmente a livello ideologico nel solco tracciato da Lefebvre, ma danno sicuramente un significato concreto a questo diritto, plasmandolo con le loro pratiche.

A livello cronologico si può indicare come il diritto alla città sia diventato nuovamente una «hot formulation» a partire dal 2008, in concomitanza con quello che si può ritenere, con le parole di Marcuse, un «growing disillusionment, growing criticism of capitalism; financialization; growing search for alternatives by the excluded, the exploited and the discontented».296

I movimenti che si configurano attorno a questo diritto si possono definire sicuramente eterogeni per le soggettività che li compongono. In un’analisi più puntuale si può notare come essi non siano solo rappresentanti da persone di bassa collocazione o provenienza socio–economica, ma anche da chi, pur non avendo un disagio economico, non riesce a ritrovarsi e a riconoscersi nell’ordine di vita attuale delle città. Margit Mayer in merito nota come:

293 Ibidem.

294 Baioni M., Boniburini I., Salzano E., La citta non è solo un affare, Aemilia University Press, Reggio Emilia,

2012, pag. 106.

295 Mezzadra S., Valore d’uso, 2004, consultato al link: www.lumproject.org.

296 Marcuse P., Reading the Right to the City, City: analysis of urban trends, culture, theory, policy, action, 2014,

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More often than in the past, these local mobilizations succeed in bringing together deprived and excluded groups with the comparatively privileged ones that make up the anti – neoliberal or global justice movements (that are not necessarily materially disadvantaged, but rather culturally alienated and politically discontented) – a fusion that was often attempted during the rebellious 1960s and 1970s but rarely achieved.297