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L’antica norma nella visione dei vint

I miti di fondazione della civiltà Turka di Bérégadougou.

2.5 L’antica norma nella visione dei vint

Nel corso dei colloqui, gli anziani informatori del ’92 mi comunicarono che il lavoro nei campi veniva svolto nel rispetto della tradizione, e che per loro la vicina fabbrica continuava ad essere concepita come un’entità astratta, un mondo separato e chiuso in sé, in quanto tutti colo- ro che lì si recavano, lo facevano solo per il denaro. Secondo il parere degli anziani tutto ciò che in quel luogo si verificava riguardava soltanto la Società1, non vi trovavano nessuna relazione con

la tradizione del vil- laggio, in quanto il vero “mondo” (Fig. 6), quello realmente vissuto dai Turka, non contemplava l’uso del denaro, che restava quasi esclu- sivamente un mezzo di scambio per otte- nere mercanzie occi- dentali, altrimenti inaccessibili agli autoctoni. Tale nega- zione non ci deve meravigliare più di tanto, in quanto: «abbiamo visto come l’organizzazione della società si basi sulla distribuzione dello spazio […] Così spazio, società, mitologia si intrecciano in un insieme di strutture che si articolano le une con le altre»2. Infatti il cosmo dei Turka è organizzato in moda da: «formare una visione genera-

le del mondo, entro la quale si collocano individui, luoghi e avvenimenti»3.

Evidentemente nelle intenzioni degli autoctoni il complesso agro-industriale non doveva o poteva far parte di quel mondo, che probabilmente a grandi linee doveva essere immaginato come indicato nella Figura 64.

5. Le nozioni di proprietà e possesso sono sempre da intendere in senso temporaneo, limitato e comunque in un’accezione completamente diversa dall’uso occidentale del termine. In quanto per noi il possesso è il potere sulla cosa: «la cui caratte- ristica essenziale è quella di consistere in una situazione di fatto ritenuta giuridicamente rilevante dall’ordinamento e per tale motivo tutelata [...] Il possessore dunque non è titolare di alcun diritto assoluto ma si comporta come se lo fosse», Gazzoni F., Manuale di diritto privato, p. 67. Mentre nel caso in esame non si esercita nessun potere sulla cosa, è una spe- cie di usufrutto concessa dalla divinità che non permette il godimento di nessun altro diritto reale sul terreno. Al contraro di quanto accade nel nostro codice, che nel suo articolo più importante in materia di proprietà prevede quanto segue: «l’art. 832 definisce il diritto di proprietà come il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limi- ti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico. La norma è frutto di una lunga evoluzione essendo sempre stata la definizione della proprietà il centro intorno a cui ha ruotato l’intera legislazione civile. Storicamente il dirit- to di proprietà negli ordinamenti liberali è stato caratterizzato da una tendenziale illimitatezza...», ivi, p. 199.

6. Cfr. infra, pp. 90-91, dove è commentata questa ricorrente difficoltà a fornire risposte sull’argomento magia delle donne. 7. È interessante scoprire che per esempio nel caso dei vicini tussian: «les arbres, qui sont du domaine de la clarté, sont gardés par d’autres génies: les génies de la brousse. Leur secret est à la fois dans la sève qu’ils aspirent par les racines, leur vie dans la graine qui les a libérés, mai leur souffle est sous la garde des génies des arbres et de la brousse tout entiè- re», Barro M., De la double éducation au pays tusian, p. 87. Tanto che: «La conception cosmique que les Numu [si trat- ta della entità sovrumana più importante, che presenta una evidente parentela con Dounou] se font de leur milieu sem- ble bien régir leur vécu dans cet espace. Et l’on comprend donc que le Forgeron ne coupe jamais un arbre sans avoir prié d’abord les génies gardiens de libérer ce végétal», ivi, p. 90.

Il discorso circa questo spinoso argomento proseguì poi nella dettagliata descrizione di quel- lo che per loro doveva essere il vero mondo, nel rispetto del seguente criterio narrativo:

«Quando un giovane capo famiglia aveva bisogno di un appezzamento di terra da coltiva-

re… lo cercava fintanto che non trovava il terreno “adatto a lui”, cioè quello consono alle sue necessità familiari. Una volta scelto il terreno, prima di ogni cosa si informava in quale zona esso era posto, poiché il campo individuato poteva situarsi in un territorio del suo villaggio o di un altro.

Fatto tale accertamento si rivolgeva al suo “proprietario”, che era sempre lo chef de terre, il solo che poteva assegnare legittimamente la terra alle persone. Lo chef de terre, prima di tutto, verificava se il campo in questione non fosse già in possesso di qualcun altro; preso poi atto che nessuna altra richiesta era stata già avanzata, assegnava il campo al giovane pretendente. A que- sto punto l’assegnatario era in obbligo di dare in cambio due prodotti al capo villaggio: il dolo e il bangui. Solo dopo aver portato a conclusione tali operazioni, il giovane poteva considerarsi il nuovo proprietario5del campo richiesto».

Prima di avviare il lavoro concreto sul campo, era reputato sempre necessario regolare il rap- porto con gli spiriti del suolo, considerati i primi abitanti del luogo. Questa relazione si stabiliva ricorrendo a due possibili procedure, la cui scelta dipendeva dalla natura del terreno. Infatti:

«A) se il fondo in questione non era mai stato prima coltivato, il richiedente si doveva rivolge-

re ad una charlatane. Questo ruolo qui a Béréga fu svolto sempre solo dalle donne, nessuno fu mai in grado di spiegare quali fossero stati i motivi di tale prerogativa6. La charlatane, dopo un sopralluogo disponeva, indicando con meticolosa attenzione, quale albero non si dovesse tagliare, quale roccia o anfratto era necessario conservare integro ecc. Poiché ognuno di tali elementi avrebbe potuto, infatti, essere stato un luogo abitato dai genii7: inoltre, gli veniva det-

tagliatamente spiegato quali erano le modalità corrette che doveva adottare per far loro sacri- fici, unico modo per rendere in futuro il suo podere rigoglioso e fertile;

B) se il campo, in questione, era stato già in precedenza coltivato da qualcuno, era il vecchio proprietario che indicava e spiegava al nuovo arrivato quali erano le pratiche che intrattene- va con gli “spiriti” e i luoghi precisi in cui essi erano situati.

Nell’arco dell’anno stagionale il lavoro era suddiviso in quattro fondamentali momenti: 1) preparare il terreno durante la stagione arida; in questo caso il lavoro consisteva nel togliere

i sassi, bruciare gli arbusti e in tutte quelle operazioni che rendevano lavorabile l’agro; 2) la seconda fase iniziava con l’apertura della stagione delle piogge: questo era un momento

importante, perché ciascuno era al lavoro nel suo terreno e i lavori erano accompagnati dalla musica e dalle danze;

3) dopo la semina e dopo aver fatto i solchi in terra il resto del tempo era dedicato al “manteni- mento”, che consisteva nel proteggere le piante dalle erbacce, da animali e da altri inconve- nienti; in questo caso non tutti si recavano nei campi;

4) la quarta fase era quella del raccolto: essendo un momento fondamentale, esso era accompa- gnato da musica e danze. La musica veniva fatta dalle famiglie di “griot”, di uomini e donne, la musica parlava ed i “griot” traducevano quello che la musica diceva a tutti gli altri. Per l’esecuzione della musica erano utilizzati due fondamentali strumenti: il Tugu (molto simile ad una chitarra); e il Gulagu (conosciuto in occidente con il nome Balafon).

Dopo la fine del raccolto vi erano altri lavori da fare: costruire i mattoni per la casa nuova; partire per il bosco a tagliare foglie per la copertura del nuovo tetto; erano tutti lavori svolti in comunità, per questo si chiamavano i vicini. Persino i bambini erano impegnati a dare un pro- prio contributo. Il Bangui, invece, veniva prodotto solo dagli uomini, poiché era un lavoro pesan- te che richiede molta forza ed agilità. Questo vino di palma, tra l’altro, richiede l’abilità di sali- re sopra gli alberi, per tagliare le foglie e piegare il fusto della pianta all’estremità superiore per estrarre il liquido, indispensabile per realizzare la bevanda. Rônier è il nome dato a questa par- ticolare palma che cresce solo in questa zona del paese. Gli anziani si dedicavano sopra tutto all’allevamento del bestiame. Il lavoro delle donne in questo periodo consisteva nel fare, con le foglie di rônier, panieri, cestini ed altri utensili».

Giunti a questo punto è necessario aggiungere altri dati tratti dalla mia indagine sul campo; notizie che, in qualche modo, permettono di completare il quadro dei riferimenti circa i contenuti del lavoro fin qui abbozzato. Constatata la presenza costante della musica in tutti i momenti fondamentali del lavoro agricolo, rivolsi ai miei informatori una domanda sulle ori-

8. A questo punto sarebbe molto interessante, in prospettiva di ricerca futura, procedere ad una valutazione strettamente etnomusicologica del quadro generale che emerge qualora si integrano le informazioni raccolte in questo paragrafo con i contenuti emersi dalla risposta fornita da Mamadou a p. 57.

9. Zemp Hugo, Paroles de balafon, p. 315. Ma questo discorso non è mai lo stesso: «Chaque type d’orchestre porte un nome particulier et joue dans des circonstances prècises. Dans chaque orchestre, les balafoniste jouent des airs dotés de significations linguistiques spécifiques», ivi, p. 314. Ho scelto questo esempio perché i Sénoufo sono molto vicini, in termini geografici e culturali, ai Turka.

10. «Certain airs chez aux céremonies funéraires (annonce d’un décès, enveloppement du mort dans tissus, enterrement proprement dit) st considérés comme étant très anciens (ce qui n’empêche pas les musiciens de jouer des varations); cha- que village, et même chaque quartier dans un grand village, en possède sa propre version», ivi, p. 320.

11. Questi due piani sono distinti solo analiticamente, laddove l’intreccio tra elaborazione consapevole del mito e “gestione” della memoria è profondo e, appunto inestricabile. Cfr. Gallerano N. (a cura di), L’uso pubblico della storia.

gini dei loro strumenti musicali, che sembravano materialmente identici a quelli utilizzati dai Lobi e dai Dyoula. Gli informatori locali molto più interessati al ruolo svolto dal codice comunicativo e alla funzione sociale, piuttosto che all’aspetto estetico degli oggetti musicali, risposero nel seguente modo: «I nostri strumenti parlano la lingua Turka, quelli dei Lobi il

lobiri e quelli dei Dyoula il dyoula»8.

L’affermazione degli anziani si richiama certamente ad una cultura musicale regionale che si caratterizza per il valore attribuito al contenuto verbale, sopra tutto dello xilofono (noto come balafon), in proposito si trova questa interessante precisazione: «jouer du xylophone se

dit en langue sénoufo “tenir un discurs”»9. Inoltre, non sono da trascurare i gesti fisici com-

piuti nel corso della esecuzione dei brani. Questi non sono mai casuali, le note e i periodi sono eseguiti secondo precise regole con una o l’altra mano, così come gli strumenti rappresenta- no, nelle loro specifiche parti, un aspetto della realtà o l’altro, sia sul piano del paesaggio che su quello sociale. I musicisti suonano con un ampio margine di autonomia espressiva, che gli consente di combinare liberamente un codice musicale comune secondo la propria creatività artistica. Comunque un rigido codice linguistico esiste anche se differente per ogni etnia, spesse volte questo codice cambia addirittura da un villaggio all’altro della stessa etnia10.

Proviamo ora a dare una sistemazione al corpus dei racconti degli anziani, individuando delle categorie logiche entro cui inquadrare i numerosissimi spunti, le suggestioni, infine, le parole e le espressioni emerse nel corso dei colloqui. In particolare, l’inestricabile intreccio tra il piano della narrazione mitica e quello della narrazione degli eventi storici11, che dà vita ad un unico

complesso mitologico nel senso pieno del termine. È questo complesso mitologico a fondare la nuova era, l’era moderna contrassegnata dall’arrivo dei bianchi.

Il mito contrappone due forme di organizzazione del potere, ponendo al centro dell’attenzio- ne la figura dello chef de terre e quella dello chef de canton, voluta dai coloni. Il racconto mitico mette poi in risalto il ruolo essenziale – di mediazione – svolto dagli anziani; infatti, è solo per mezzo della loro viva memoria che si ha la possibilità di confrontare queste due forme di organiz-

12. Prendendo a prestito un modello di reazione studiato in un contesto andino potremmo tornare ad un esempio concre- to e dire che: «le fonti propriamente indigene hanno posto in evidenza un duplice fenomeno: una frattura (determinata da un avvenimento d’origine esterna, l’arrivo dei bianchi) e, insieme, una continuità (il permanere del trauma della Conquista). Tuttavia, è importante ricordare fin d’ora un fatto fondamentale, conclusivo: la memoria collettiva degli indios non solo conserva il passato, ma lo ricrea. Una logica strutturale ordina questa reinterpretazione dei fatti storici (quali che ne siano le diverse modalità)…», a partire da queste considerazioni l’Autore sviluppa poi una esauriente e documentata analisi sul tema della reazione. Wachtel N., La visione dei vinti, p. 77.

13. De Martino E., Morte e pianto rituale, p. 231.

zazione del potere. Il loro non è solo un semplice narrare ricordando i fatti; bensì un far scorrere gli eventi-sconvolgimenti ordinandoli secondo un preciso valore culturale12. Il presupposto da cui

avvio l’analisi è il seguente: l’uomo, quale che sia la civiltà di appartenenza, per operare cultural- mente in una realtà data deve partire necessariamente dalla cosmicizzazione dello spazio vissuto. Un concetto, questo, che si ritrova nella seguente affermazione di de Martino: «Tra i pezzi dell’ar- matura che Efesto appresta per Achille ve ne è uno, lo scudo, su cui si è particolarmente esercita- ta l’arte del fabbro divino. Si tratta di una grandiosa raffigurazione dell’ordine naturale e cultura- le circoscritto da Oceano. La prima scena, al centro dello scudo, raffigura l’ordine della natura [...] cioè il cosmo come stabile permanenza o come eterno ritorno. Le scene successive, dal centro alla periferia dello scudo, sono destinate all’ordine culturale in quanto misurato intervento umano»13.

Tale esigenza di operatività nella storia va incontro alla necessità umana di regolare (in que- sto specifico caso miticamente) il corso puramente naturale degli eventi. La sistemazione cultu- rale di questo cambiamento, come abbiamo visto, avviene per opera degli anziani. La loro pro- fonda conoscenza del patrimonio culturale orale del gruppo etnico, implica necessariamente che siano soltanto essi gli artefici dell’elaborazione-regolazione “secondo valore” di questo cambia- mento. La forma tradizionale di organizzazione del potere riposa su regole socialmente condivi- se, appartenenti da sempre alla cultura. Regole che presuppongono diritti e stabiliscono doveri.

Il fuoco, che interviene attivamente nella limitazione dei confini territoriali, determina in una doppia valenza i confini del “mondo” appartenente al villaggio. Infatti, da come si evince dal racconto mitico, è per opera degli “eroi” fondatori che si assegna al fuoco il compito di tracciare i confini giurisdizionali, sia quelli all’interno del perimetro del villaggio (cioè, nel culturalmente definito) sia quelli esterni, relativi al completamente “altro” (cioè, tra chi è den- tro e chi è fuori, in altre parole: tra natura e cultura).

Si tratta, d’altra parte, di un dato presente in numerosi miti raccolti da etnografi: «all’ori- gine dei tempi un Essere ardimentoso e un po’ malandrino rubò il fuoco dei vulcani, del ful- mine, del sole: il fuoco “naturale” proprietà esclusiva di qualche dio, e lo portò tra gli uomini. La conquista prometeica del fuoco segna il passaggio dalla natura alla cultura, e l’Essere che compì l’impresa è un Eroe civilizzatore. Da allora l’uomo mangiò cibi cotti e non crudi, usò il fuoco per proteggersi dalle belve, dal freddo, dalle tenebre, e per sacrificare agli Esseri dai

14. Lanternari V., Dei Profeti Contadini, p. 243.

15. Il fatto di connotare un evento in senso pubblico o privato, non è mai un’operazione arbitraria, ma dipende sempre da un insieme di riferimenti storico culturali, quindi, pur con le dovute cautele: «teoricamente potremmo proiettare in ogni cultura la dialettica pubblico/privato, ma nel fare ciò si deve stare in guardia per non rischiare di trasferire insieme alla dialettica i valori strettamente romano-occidentali...», Sabbatucci D., Lo Stato come conquista culturale, p. 207.

quali il fuoco, con sapiente e utile inganno, era stato sottratto»14. All’interno di questa doppia

valenza – trasposta simbolicamente nel fuoco – si articolano una serie di elementi, che indivi- duano la complicata modalità con la quale si fondano regole e valori intesi a precedere l’eser- cizio del potere sulla terra.

La forma di potere imposta dalla colonizzazione, al contrario, ha un carattere del tutto arbi- trario. Non c’è nessun tipo di “patto sociale” che la legittimi. È proprio questo suo aspetto di ille- gittimità (o forse di ribaltamento dei vecchi sistemi di legittimazione) che emerge dal confronto tra il vecchio e il nuovo, tra il sistema tradizionale e quello coloniale, venuto dall’esterno.

Il carattere vessatorio del nuovo sistema (si pensi al tema delle tasse, al tema dell’obbligo di fare doni, di nutrire gli stranieri venuti da fuori) è la conseguenza del primo dato, vale a dire del fatto che il potere esterno non ha fondamento nel diritto consuetudinario del posto. In altri termi- ni, il mito implicitamente stabilisce un confronto tra due forme di appropriazione della terra (con il conseguente esercizio del potere sulla terra stessa): la prima forma presuppone precise regole sociali; la seconda è svincolata dalle regole antiche e non è sorretta da regole nuove; da qui il giu- dizio negativo (implicito) relativo alla colonizzazione.

Non si può non pensare, dunque, al mito che introduceva la figura dell’occupante bianco: costui non si cura di nulla, si pone al di sopra anche delle regole che governano il rapporto tra uomo e sfera del sacro. La grande attenzione che pongono gli indigeni nel rispettare la terra nella complessità delle sue implicazioni (sociali e giuridiche, innanzitutto, e quindi sacrali), nel momento in cui essi se ne appropriano, fa risaltare – per contrasto – il comportamento “irriguar- doso” nei confronti di tutti (uomini e spiriti) che caratterizza nel mito e nella realtà l’attività dei coloni bianchi. Comportamento irriguardoso è sinonimo di comportamento naturale, non disci- plinato da regole culturali. Persino rispetto alla schiavitù sofferta per mano dei vicini regni autoc- toni come Sikasso, Mandinga e Mossi, grazie alla mediazione degli anziani, il ritorno di chi era stato catturato coincise con un reinserimento nei circuiti dei rapporti sociali. Al contrario, la par- tenza coatta e l’arruolamento nell’esercito francese in occasione delle due guerre mondiali cor- risponde ad un vuoto incolmabile, non elaborato in una memoria né tanto meno in una narrazio- ne storica. Non è infatti una semplice coincidenza il fatto che le testimonianze, che avrebbero potuto lasciare i pochi individui tornati vivi dalla guerra, non furono mai considerate tra gli aspet- ti pubblici della memoria collettiva del villaggio, venendo invece sempre relegate tra le vicende private dei singoli individui15.

16. «Se il sacro è diffuso dappertutto, non c’è posto per le manifestazioni dell’uomo; accanto a questo rischio c’è da segnalarne un altro, di segno opposto e non meno grave rappresentato dalla realtà vista sotto l’aspetto della pura casua- lità e dell’assoluta contingenza che, in quanto tale sfugge ad ogni progetto d’intervento culturale. Come arginare questo secondo rischio? Questa volta, grazie all’intervento valorizzante del sacro e, più specificamente, del mito», Massenzio M., Sacro e identità etnica, p. 47.

17. Infra p. 132.

18. In questa prospettiva la seguente riflessione di Brelich spiega bene la funzione del mito: «in effetti, i miti non rap- presentano soltanto il “fondamento” degli aspetti rassicuranti della realtà (che riconducono ad eventi irreversibili), ma lo sono della realtà tutta intera, buona e cattiva, così come essa si presenta agli occhi di un determinato gruppo umano. La realtà è quello che è, e l’uomo si trova disarmato di fronte ad essa, almeno finché non arriva a trovarle – o ad attribuir- le – un senso, una giustificazione. Gli eventi reali, buoni o cattivi che siano, si svolgono sul piano della contingenza […] il mito sottrae ciò che è essenziale per l’uomo [… dal piano della contingenza]. Tutto acquista un senso che si fonda sui