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Il problema delle origin

I miti di fondazione della civiltà Turka di Bérégadougou.

2.4 Il problema delle origin

Da un confronto organico dei racconti degli anziani, affiorano con particolare evidenza i seguenti sistemi di riferimento della cultura Turka: caccia - fondazione, nomadi - sedentari,

indigeni (Karaboro) - immigrati (Turka). Proviamo quindi ad articolare una riflessione di tipo

strutturale su queste costanti individuate, certo avendo presente che si tratta di una riflessione che può rappresentare solo il primo livello di approfondimento. Il presente paragrafo costituisce, un esperimento, poiché è costretto a limitarsi a un solo caso: gli elementi mitologici isolati dall’ana- lisi sono dati etnografici che si riferiscono a una sola tribù di un’intera etnia. Troppo poco e modesto il materiale per poter rispondere in modo esaustivo e definitivo alle domande che esso stesso ci obbliga inevitabilmente a porci.

Perché, nel mito si è scelta l’attività della caccia come paradigma della genesi del villaggio?

Partendo dal presupposto che ogni cultura, da un punto di vista esclusivamente teorico1, per

edificarsi deve mettere in rapporto il presente al passato, il collegamento con la tradizione – nello specifico – rievoca l’esperienza della caccia. Esperienza che è senza dubbio un dato molto pre- sente nel patrimonio culturale dei Turka; sembra dunque di poter affermare con una certa sicu- rezza che il ricorso ad un eroe culturale grande cacciatore veicola questo primo livello di neces- sità. Difatti la storia dei Turka affonda le sue radici in un contesto regionale2in cui la pratica vena-

toria era da tutti considerata la più nobile3tra tutte le attività lavorative, e al contempo rappresen-

tava un momento importante nella vita economica del gruppo.

Non solo, questa fase storica ha simbolizzato, nell’immaginario collettivo, il periodo “aureo”4per eccellenza nell’esistenza dei nativi; per cui è naturale che, al ricordo di questa anti-

ca autonomia politica e territoriale, venisse associato anche il tempo eroico delle grandi conqui- ste culturali e materiali del gruppo etnico. La memoria di questo passato non si era probabilmen- te mai del tutto cancellata. Infatti gli informatori mi hanno parlato con orgoglio di sé stessi, rife- rendo di dirette discendenze da quei grandi cacciatori dell’età dell’oro.

L’operazione mito-poietica posta in essere dagli anziani non si era limitata a questo, ed era andata molto oltre, arrivando a collocare le vicende della fondazione di Béréga sul piano del mito

5. Tracce del fenomeno accennato si trovano presso tutte le culture, in quanto presso tutte le culture esistono feste perio- diche durante le quali si celebrano proprio i momenti decisivi e importanti della vita collettiva del gruppo. Dunque, la relativa bibliografia è sterminata. Mi limito a segnalare il libro di: Lanternari V., La grande festa, che offre un ampio ven- taglio di esempi tratti da tutti i continenti del pianeta.

6. Antongini Giovanna-Tito Spini, Il cammino degli antenati.

7. L’introduzione, in particolare nelle ultime pagine, fornisce un quadro abbastanza chiaro sulle caratteristiche della koiné della regione delle cascate, pp. 22 sgg.

8. Per esempio: «Nel sistema di valori romano il pre-cosmico, o il pre-civile, o il “naturale”, in contrapposizione al cosmico, o al civile, o al “culturale”, poteva essere rappresentato dalla pastorizia contrapposta all’agricoltura; in que- sti termini si capisce come dovessero essere immaginati ancora pastori al momento di fondare una città, coloro che intendevano fondarla per passare dalla condizione nomadica dei pastori alla condizione sedentaria degli agricoltori. Ma facciamo attenzione […] per fondare Roma, Romolo rinuncia alla vita pastorale, ma non ai prodotti della pastorizia, e la fonda tracciandone i confini con l’aratro, lo strumento dell’agricoltura», Sabbatucci D., La religione di Roma anti-

ca, p. 131.

e inserendo il tutto nella fase del passato più remoto, appunto quello delle origini. Si presume quindi che gli anziani fossero spinti sopra tutto dalla preoccupazione di garantire da ogni possi- bile oblio questo fondamentale rapporto con il passato, verso il quale la loro identità era profon- damente debitrice. Non solo, tale esigenza era talmente forte che un simile processo di plasma- zione culturale condizionava anche la lettura dei fatti, questa volta molto più recenti, relativi al momento del passaggio da un sistema economico ad un altro.

Bisogna comunque ricordare che questo non è un caso isolato, ma un modello molto diffu- so: in quasi tutte le civiltà si trovano tracce dello sforzo culturale teso ad elaborare e plasmare positivamente tutti i momenti decisivi e importanti della vita collettiva del gruppo5.

I riferimenti storici, rintracciabili dalla storia complessiva della regione confermano che, presso molte delle etnie partecipi della medesima area regionale si riscontra una simile elabora- zione culturale dell’attività economica legata alla caccia. Sopra tutto per quel che riguarda i Lobi6, non è raro imbattersi in racconti leggendari – scritti o spesso narrati a voce – che hanno

come protagonisti eroi con la caratteristica fondamentale di essere sempre dei grandi cacciatori. I riferimenti presi in esame non esauriscono certamente il complesso delle implicazioni relative al topos culturale. Possiamo tuttavia stabilire con certezza che tali figure leggendarie sono sem- pre avvolte da un’aurea particolare presso tutte le etnie affini a quella dei Turka, tanto da poter- le acquisire come una specificità della koiné espressa a livello regionale7. Questo è il primo risul-

tato che emerge dal rapporto caccia-fondazione.

È forse possibile compiere un ulteriore passo in avanti nel tentativo di chiarire meglio il rap- porto caccia/fondazione fin qui analizzato. A tal fine merita attenzione un dato legato ad un evi- dente paradosso: nella narrazione mitica, l’eroe fondatore (definito più volte e con insistenza

grande cacciatore) oltre ad essere il protagonista della cosmicizzazione del nuovo insediamento,

è anche colui che introduce il mito di fondazione dell’ordine culturale che regola l’esistenza della civiltà a base agricola dei Turka8.

9. Cfr. Lévi-Strauss C., Il pensiero selvaggio e Brelich A., Prolégomènes. Il saggio di Brelich si trova tradotto in italia- no e pubblicato con il titolo: Prolegomeni a una Storia delle religioni, in: Brelich A., Storia delle religioni: perché?, pp. 137-183.

10. Per la difficoltà connessa al lungo percorso da affrontare per raggiungere il campo cfr. p. 35.

11. Cfr. il paragrafo di Massenzio dal titolo molto significativo: L’occultamento rituale della realtà. In cui la nozione di destorificazione istituzionale è analizzata in riferimento ad un’azione rituale che accompagna l’uccisione di un animale allevato. Il così detto “momento critico del divenire” viene risolto con: «l’occultamento della storicità di situazioni par- ticolarmente gravide di rischi per i soggetti umani […] In rapporto al problema della salvaguardia della presenza umana nel mondo, la destorificazione religiosa comporta la rinuncia all’iniziativa autonoma e all’agire sorretto da responsabi- lità individuali e impone come contropartita, l’assunzione di un tipo di comportamento “impersonale”, del tutto rispon- dente a modelli superindividuali ed extratemporali […] l’operazione del cancellare-negare costituisce la premessa indi- spensabile del processo di ricostruzione del reale che porta ad alterarlo e, contemporaneamente, a proiettarvi nuovi signi- ficati, secondo un paradigma fatto risalire all’illud tempus», Massenzio M., Sacro e identità etnica, p. 129.

12. Cfr. infra, p. 162.

rale della caccia per fondare la realtà di una vita sedentaria a regime economico agricolo. Uno sguardo superficiale, attento al solo fatto economico, avrebbe potuto indurre a pensare ad una figura simbolica diversa, forse più attinente alle attività agricole. Come si può allora spiegare l’anomalia? Cosa rende il personaggio Brigue indispensabile ai Turka?

Le domande poste prendono le mosse da ciò che suggerisce il dato etnografico. È quindi importante capire se e come dentro i vari momenti dell’intero racconto mitico, possiamo indivi- duare dei meccanismi culturali in grado di fornire delle risposte a questo paradosso, salvaguar- dando così il principio teorico che pone la coerenza come presupposto e base indispensabile di ogni civiltà9. Delle risposte, anche se non definitive ed esaustive, andrebbero cercate indagando

l’istituito culturale che regola la modalità con la quale tradizionalmente si prendeva possesso del campo destinato all’agricoltura.

Proviamo allora a partire da questo esempio teorico: la realtà del lavoro nei campi situati fuori dal villaggio è, in sé, critica perché rende necessario l’uscita dal consueto e dall’abitudina- rio10. Quindi, quest’attività, deve essere occultata e “pensata” secondo un altro registro, capace di

renderla accettabile alla collettività11. Dato che la crisi, in situazioni simili, si manifesta a vari

livelli, di norma si fa ricorso ad un apparato risolutivo mitico-rituale efficace, ideato proprio per il superamento di questi momenti. Nel caso specifico dei Turka si intervenire con una serie di

regole adottate: «quando un giovane “capo famiglia” aveva bisogno di terra… »12. Le norme

elencate dagli anziani, osservandole con attenzione, ricordano molto da vicino il contenuto del mito di fondazione. La corrispondenza tra queste regole e quanto fu fatto all’origine dei tempi dall’eroe culturale è veramente sorprendente. Infatti, non è solo un caso che l’istituto che regola, nei minimi dettagli, l’appropriazione della terra sia anzitutto una pratica religiosa.

Secondo la logica magico-religiosa degli autoctoni, infatti, soltanto un personaggio abituato a muoversi agilmente in prossimità dell’ignoto acquisiva le necessarie capacità per dominare tutte le entità extraumane ctonie che governavano i territori disabitati. L’esercizio dell’attività venato- ria permetteva al cacciatore di avere una particolare familiarità con i luoghi più lontani e deser-

13. Ci riferiamo al Das Ganz andere di Rudolf Otto, secondo la lettura che ne dà Ernesto de Martino, in: Mito, scienze

religiose e civiltà moderna, dove questa tematica esistenziale è ampiamente sviluppata ed inserita dentro un quadro di

riferimenti concettuali di estrema complessità. Il saggio in questione si trova ora in: de Martino E., Furore Simbolo

Valore, pp. 35-83.

14. La restaurazione rituale delle origini implica sempre una riflessione sul “disordine” che precede l’ordine vigente, ci si domanderà allora: «Ma le “condizioni originarie” com’erano? Buone o cattive? Migliori o peggiori delle attuali? A livello fenomenologico si risponde: erano ambivalenti. L’ambivalenza (esemplare è la cosiddetta ambivalenza del sacro) spiega molte cose, forse troppe, al fenomenologo che tenta di dare forma al multiforme, di unificare il molteplice, di “omologare” il differenziato. Per quel che concerne la cosiddetta ambivalenza dell’originario, del precosmico, diremmo che il mitico momento delle origini viene giudicato bene o male inversamente al giudizio che si vuol dare all’attualità storica. Con quest’ultima osservazione lasciamo le spiegazioni universali e torniamo ai particolari...» della mitologia Turka, essa infatti ci consente di applicare il concetto teorico dell’ambivalenza in una cultura concreta, dandoci l’oppor- tunità di ampliare i riferimenti del ragionamento in corso. Sabbatucci D., op. cit, p. 348.

tici della regione, in quanto, spinto dall’irrinunciabile necessità di procacciarsi la selvaggina, doveva inoltrarsi abitualmente nella selva alla ricerca delle prede da catturare, affrontando e supe- rando tutti i pericoli che questa immersione nell’inesplorato comportava.

Quando il mito assegna ad un grande cacciatore il compito di dare un senso all’ignoto, lo fa in riferimento proprio a queste sue straordinare potenzialità. Occorre che sia un cacciatore, per- ché è l’unico personaggio che dimostra nella pratica di essere in grado d’inoltrarsi nel “selvati- co” nella natura non addomesticata e di farne ritorno indenne. Sono queste le capacità sulle quali investe simbolicamente il mito per risolvere il problema della cosmicizzazione del nuovo territo- rio, destinato in futuro ad ospitare il villaggio. È la sua particolare familiarità con l’ignoto che lo ha reso idoneo ad acquisire tutte le abilità necessarie per entrare in stretta relazione con i genii del terreno, al fine di regolare i rapporti con essi secondo un modello che condizionerà in segui- to ogni vincolo tra l’uomo e le divinità ctonie del luogo.

In cosa consiste allora concretamente tale potenzialità? innanzitutto essa è congenita all’atti- vità stessa svolta dal protagonista del mito; nella pratica si può scoprire un nuovo territorio solo nella misura in cui ci si inoltra nella selva esplorandola in lungo e in largo; soltanto Brigue, dun- que, poteva affrontare il «totalmente altro»13conseguendo tale risultato.

Vi è poi una particolare potenzialità che, invece, risiede nell’ambivalenza del fondatore miti- co. Infatti, il protagonista in generale rappresenta quella figura simbolica ambivalente presente in ogni civiltà14: è lui, l’eroe culturale, l’essere capace di soddisfare la fondamentale funzione di

mediazione tra l’addomesticato e il selvaggio; mediazione possibile solo grazie a questa sua ambivalenza, che lo rende contemporaneamente partecipe delle due sfere della realtà.

Al fine di rendere più argomentata la prospettiva di lettura accennata, può essere utile aggiun- gere che la visione del mondo esterno come alterità assoluta è critica di per sé, poiché non per- mette di creare un rapporto con esso. Ecco allora che la difficoltà viene superata con la istituzio- nalizzazione del mitologico Brigue: eroe culturale che, data la sua attività tutta protesa verso l’esterno del villaggio, è la figura mitologica che meglio di tutte le altre si presta al ruolo d’in-

15. Nell’accezione demartiniana del termine. Per un approfondimento della dialettica appaesato/spaesato rimando al famoso saggio di de Martino: Il caso del contadino bernese, in: La fine del mondo, pp. 194-211. Molto attinente è anche il famoso episodio del Campanile di Marcellinara, Ivi, pp. 479-481.

16. Cfr. infra, p. 162. Il terreno in questione doveva avere infatti le caratteristiche adatte a soddisfare le esigenze di chi ne aveva bisogno.

terlocutore privilegiato in tutti quei casi in cui entra in gioco l’alterità. Infatti, chi meglio di lui può arrivare in soccorso degli abitanti del villaggio – persone che generalmente si sanno muove- re solo entro i confini “appaesati”15della realtà – quando si trovano a contatto con il selvaggio da

addomesticare per necessità economiche o di altro genere.

Possiamo concludere, quindi, che Brigue è la figura simbolica a disposizione della cultura Turka, e da questa plasmata e utilizzata, per mettere in relazione/opposizione le proprie coordi- nate esterno-interno, natura-cultura e sopra tutto identità/alterità. Si stabiliscono in questo modo, una volta per sempre, i caratteri principali delle future e definitive coordinate natura/cultura, den- tro le quali si potrà edificare il sapere del gruppo etnico. In questa prospettiva acquista importan- za un fatto storico, ben sottolineato dagli anziani, che ricorda come i cacciatori Turka arrivino a stanziarsi, diventando agricoltori, in un territorio in cui molto probabilmente prima di loro vi erano stanziati i Karaboro. Per cui la successiva elaborazione mitica di una identità etnico-terri- toriale non può prescindere da una profonda riflessione di questo conflitto originario.

La documentazione ricorda spesso le azioni rituali che precedono l’appropriazione della terra. Tra le tante finalità che si celano dietro tali preoccupazioni religiose, vi è sicuramente anche quella di voler agire nella componente inconscia del giovane agricoltore, allo scopo di aiutarlo nel superamento della crisi. Come avveniva in concreto tutto ciò? Per rispondere si può procedere affrontando i singoli momenti del cerimoniale. Anche perché questo è l’unico modo per verificare se le relazioni, più o meno evidenti, prima suggerite solo a livello teorico, possa- no funzionare, calandole sul piano della pratica concreta adottata dal singolo individuo, almeno in riferimento alle attività che erano in vigore nel territorio prima dell’avvento del complesso agro-industriale.

Prima di tutto, l’eroe aveva fornito un modello di riferimento generale circa la modalità da adottare ogni qual volta un giovane capo famiglia aveva bisogno di terra da destinare a coltura. Il compito affidato al giovane inesperto, era quello di percorrere, in lungo e in largo, il territorio esterno al villaggio – cosa non semplice se pensiamo solo al fatto che la ricerca era intrapresa a piedi nudi nella savana – con l’intento di trovare il terreno «adatto a lui»16. La spedizione esplora-

tiva sostenuta in completa solitudine, corrisponde, anche se non esattamente, alla situazione nella quale si venne a trovare Brigue in illo tempore. Non si tratta, evidentemente, di una coincidenza.

Inoltre, tenuto conto che si trattava spesso di un giovane lasciato solo ad affrontare questa sua prima esperienza, il supporto di un modello esemplare di riferimento da imitare si rendeva indi-

17. «Con tutte le riserve teoriche del caso, si possono tuttavia osservare anche elementi didattici e pedagogici inerenti alle pratiche iniziatiche. Quanto ai primi, si constaterà facilmente che anche là dove una ‘istruzione’ occupa un posto di rilievo nell’insieme del procedimento iniziatico – il che non sempre è il caso – spesso essa ha per oggetto cose assai lon- tane da ciò che una cosciente istruzione ‘profana’ potrebbe o dovrebbe trasmettere. L’oggetto dell’istruzione iniziatica varia largamente di civiltà in civiltà [...] Esistono casi, in cui l’istruzione ha un carattere pratico e riguarda l’attività eco- nomica che l’individuo adulto dovrà svolgere nella sua esistenza quotidiana: p. es. la caccia o la coltivazione», Brelich A., Paides e parthenoi, p. 32. Sarebbe interessante indagare l’istituto iniziatico con l’obiettivo di verificare se esistono delle tracce di questo problema nella pedagogia del rito, per capirne i meccanismi interni e le soluzioni scelte. 18. Sabbatucci D., op. cit., p. 68-69.

spensabile, cosicché il fondamentale compito di scelta avvenisse secondo quanto prescriveva il riferimento mitico. Il giovane dunque non era mai lasciato solo e non dipendeva da scelte, contin- genti ed arbitrarie, di un individuo comune, ma agiva secondo un ordine regolato da una normati- va di tipo mitico-rituale. Come si vede, già dalla fase iniziale l’azione assumeva i contorni di una prova “iniziatica”17, che la legge tribale stabiliva dovesse essere affrontata in completa solitudine.

Infine c’era una puntuale definizione delle pratiche con le quali si doveva lavorare il campo per renderlo coltivabile: l’esempio mitico è quasi identico alla procedura ricordata dagli anziani per il caso concreto. Non dispongo di testimonianze dirette sull’argomento, ma molto probabil- mente, quanto a voce fu espresso dagli anziani in occasione dei colloqui, era materia di insegna- mento nel corso del ciclo iniziatico destinato a formare tutti i giovani partecipanti di Béréga.

Non va poi trascurato un dato fondamentale: quando si trattava di regolare i rapporti con le forze ctonie del terreno, cioè con le divinità del suolo, la consuetudine prevedeva un ribaltamen- to dell’impostazione fin qui vista, stabilendo che la consultazione divinatoria si affrontasse ricor- rendo ad un intervento collettivo, con il supporto di una regola che coinvolgeva il corpo sociale. Come si vede, la scelta del terreno da parte del giovane agricoltore non ne implica un uso meccanico ed immediato. È sempre previsto un articolato intervento culturale sull’individuo e sul suolo. Per raggiungere questo risultato sono infatti regolati nei minimi particolari sia le modali- tà temporali di stanziamento nel campo, sia la prassi rituale che precede lo sfruttamento del suolo. Non per nulla la complessa dinamica che accompagnava la presa di possesso, era scandi- ta da innumerevoli tappe intermedie che dilatavano nel tempo la definitiva assegnazione. Questo “detour mitico-rituale”, destinato ad allungare i tempi d’appropriazione, custodisce probabilmen- te molti segreti, sui quali non è per ora pensabile fare completa luce.

Sia nel caso del mitico Brigue sia in quello di un qualsiasi giovane capo famiglia della tribù, il tempo non è un continuum indifferenziato, ma è pensato in relazione al resto delle manifestazioni della cultura: «questo fu possibile in quanto anche l’agricoltura, che forni- sce il cibo necessario alla sopravvivenza, costituiva […] oltre che i mezzi per vivere, anche l’idea dello spazio e del tempo in cui la vita doveva essere esplicata; in altre parole: cosmi- cizzava lo spazio e il tempo o lo acquistava alla cultura umana sottraendolo alla alterità

19. Infra, p. 105.

momento della scoperta e il trasferimento dell’intero gruppo familiare presso il territorio di