Il De Motu Animalium è stato recentemente, ed anzi continua ad essere, oggetto di una rinnovata e vivissima attenzione da parte degli studiosi di Aristotele, e uno dei principali momenti di svolta nella scholarship su questo trattato è coinciso con le scoperte filologiche di O. Primavesi. Tali scoperte sono state sostenute da un lavoro di riconsiderazione globale dei manoscritti esistenti, a partire da una recensio di tutti i testimoni contenenti il De Motu, fino a nuove collazioni degli stessi e alla ricostruzione di uno stemma codicum completamente rinnovato rispetto a quello delle edizioni precedenti: naturalmente, tali esiti si sono tradotti nella produzione di una nuova edizione critica del testo greco, che si è rivelata divergente dal testo “canonico” in ben 120 luoghi, e in molti casi queste divergenze si rivelano molto significative dal punto di vista della comprensione dei contenuti.
Prima del lavoro di Primavesi, l’edizione critica di riferimento del nostro trattato era quella allestita da M.C. Nussbaum nel 1978 e corredata da una traduzione e un commento al testo, con in più saggi interpretativi di taglio filosofico. Il lavoro condotto da Nussbaum sul De Motu ha segnato esso stesso una svolta nella storia degli studi di un testo prima di allora quasi completamente trascurato dalla critica; in una situazione del genere, naturalmente, qualsiasi approccio al testo e alle sue numerose problematiche non poteva che risultare parziale. Questo vale in particolare per l’esame filologico condotto dalla studiosa sui testimoni diretti di quest’opera: Nussbaum ha infatti impiegato, per la sua edizione, solamente undici dei quarantaquattro manoscritti attestanti, in tutto o in parte, il testo di MA. In un articolo di poco precedente alla pubblicazione del suo volume81 la studiosa descrive nel dettaglio i testimoni analizzati e i rapporti stemmatici da lei stessa ricostruiti sulla base di nuove collazioni: nonostante appunto il taglio parziale di questo lavoro di collazione, i risultati prodotti dalla sua edizione sono stati straordinari rispetto a quelle precedenti. In particolare, il grande merito della studiosa è stato quello di portare l’attenzione su una sua brillante intuizione, che gli studi successivi di Primavesi hanno confermato. Nussbaum infatti ha organizzato gli undici testimonia collazionati in uno stemma bipartito, con i due rami rappresentati da a e da b
80 Per una discussione più generale e completa della struttura e del dialogo tra le scienze della natura nel progetto aristotelico, cf. l’introduzione di Burnyeat a DE HAAS-MANSFELD 2004, 7-24, e FALCON 2005. Per questioni più specificamente relative al metodo d’indagine seguito da Aristotele nello studio della natura, un punto di partenza ormai classico è MÉTHODE 1961. Argomenti simili, come l’interazione di biologia, zoologia e psicologia, sono trattati anche in Balme D.M., «The place of biology in Aristotle’s philosophy», in GOTTHELF-LENNOX 1987, 9-20, Lloyd G.E.R., «Aspects of the relations between Aristotle’s psychology and his zoology», in NUSSBAUM-RORTY 1992, 147- 167.
(ulteriormente articolato in b1 e b2) dipendenti direttamente da ω 82
; gli elementi più interessanti di questo stemma sono rappresentati dal codice P (Vat. Gr. 266, sec. XIV) e dalla traduzione di Guglielmo di Moerbeke (Γ) nel XIII secolo83: Nussbaum intuisce che i copisti di questi due testimoni hanno avuto la possibilità di confrontare il testo a loro disposizione (riferibile rispettivamente ai rami di b1 e b2) con una fonte che la studiosa considerava “extra-archetipale”,
ovvero diversa sia dagli antigrafi sia di a sia di b, e alla quale dava il nome di “Majuscule MS”. Nuovi studi condotti sulla tradizione del De Motu hanno recentemente consentito di rivedere e perfezionare questo quadro: quello che Nussbaum considerava essere ω si è rivelato in realtà solamente un subarchetipo della tradizione, ora denominato α; le nuove collazioni condotte da Primavesi sui trentatré testimoni non considerati da Nussbaum hanno rivelato l’esistenza di un altro ramo della tradizione manoscritta, del tutto autonomo rispetto a quello precedentemente noto, e dipendente da quello che ora è denominato Hyparchetypus β. I rami a e b ricostruiti dalla studiosa americana sono ora diventati due sottorami di Hyparchetypus α, rappresentati rispettivamente dal ms. parigino E (= Paris. gr. 1853, metà X sec., molto noto e importante per tutto il corpus aristotelico) e dal manoscritto perduto etichettato da Primavesi con la lettera γ, di cui si dirà più avanti. Quella che Nussbaum considerava una fonte extra-archetipale da cui P e l’antigrafo greco di Guglielmo avevano attinto lezioni estranee al complesso di a e b è in realtà un testimone perfettamente integrato nella totalità della tradizione manoscritta e ricostruibile attraverso l’impiego di manoscritti precedentemente non collazionati; si ha, in buona sostanza, Majuscule MS = Hyparchetypus β84. Il nuovo scenario che si profila, quindi, non è più quello di una contaminazione di P e Γ con una “independent source”, ma semplicemente di contaminazione tra i due rami della tradizione, ovvero di testimoni riferibili a Hyparchetypus α con testimoni dipendenti da Hyparchetypus β. La traduzione di Guglielmo è particolarmente significativa rispetto a questo fenomeno di contaminazione tra i due rami, in quanto essa è stata realizzata sulla base di due antigrafi (Γ1 e Γ2), appartenenti rispettivamente ai rami di α e di β del nuovo stemma: stando ai recenti studi confluiti nel volume di P. Isépy85 sulla tradizione latina del De Motu, Guglielmo avrebbe condotto la sua traduzione operando un sistematico confronto tra i due manoscritti consultati e realizzando quindi sin dalla prima fase di traduzione un’opera di contaminazione tra le due famiglie e le loro rispettive lezioni. Isépy propone anche una collocazione stemmatica precisa dei due antigrafi, sottolineando l’importanza della ricostruzione dei due antecedenti greci della traduzione guglielmina ai fini di una migliore
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Per lo stemma si veda NUSSBAUM 1976, 134 e NUSSBAUM 1978, 17. 83 Per dettagli relativi a questa traduzione, cf. ISÉPY 2016, 32-53. 84
Per un’ampia e completa discussione di questa ricostruzione, cf. l’introduzione filologica di Primavesi a PRIMAVESI-CORCILIUS 2018, XII-XVII e XL ss.: il critico tedesco mette in luce come la valutazione di 17 codd. indipendenti ed importanti ai fini della constitutio textus sia stata possibile solo a seguito del superamento del preconcetto per cui solo i testimoni più antichi sarebbero degni della massima attenzione del filologo: al contrario, molti dei testimoni che ricostruiscono β provengono dalla piena epoca rinascimentale, e tuttavia si pongono in una posizione stemmatica molto più favorevole di quella di codici più antichi.
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constitutio textus di MA. Γ2 diviene infatti il più antico testimone del ramo di β e suo diretto discendente; inoltre, esso fu plausibilmente l’antigrafo anche di due codici, Er
(= Erlang. A 4, ca. 1440-1453) e b (= Paris. gr. 1859, XIV sec. in.), che le collazioni di Primavesi hanno riscoperto in tutta la loro importanza – sono infatti testimoni di ottima qualità del nuovo ramo scoperto, accanto all’ancora più importante Be
(Berol. phil. 1507 (I), ca. 1440-1453, che dipende direttamente da β)86; contemporaneamente, Γ2 è stato anche antigrafo di un perduto ms. η dal quale sono derivati i mss. S (= Laur. Plut. 81.1, ca. 1280-1320) e Od (= Marc. gr. 209, XIV sec. in), appartenenti invece al ramo di α. Quanto a Γ1, invece, l’ipotesi di Isépy è che esso vada collocato nel ramo di α: anche in questo caso, esso rappresenta il più antico testimone attraverso il quale ricostruire il perduto γ, che è il più antico discendente di α stesso; non da ultimo, lo studioso ipotizza un’identificazione tra Γ1 e la porzione di testo relativa agli scritti biologici caduta in J (= Vind. phil. gr. 100, metà IX sec.), che ci conserva invece gli scritti di fisica aristotelica: il che accrescerebbe ulteriormente il valore di questo antigrafo, in quanto complementare di un testimone importante per il corpus aristotelico87. Infine, Isépy dedica anche un capitolo88 alla ricostruzione della collocazione stemmatica di A, ovvero dell’antigrafo greco della traduzione (translatio anonyma) in base alla quale Alberto Magno compose la sua parafrasi al De Motu aristotelico, ricostruibile anche attraverso il ms. Za (= Laur. Plut. 87.21, XIII sec. ex): a proposito di A Isépy conclude che anche l’antigrafo di Alberto Magno è collegato a Γ1, probabilmente nel senso che variae lectiones del secondo andarono ad arricchire il primo a margine o in supra lineam89. Tanto Isépy quanto Primavesi sottolineano, inoltre, il caso particolarmente fortunato di MA e della contaminazione che si verifica nel suo stemma: dal momento che esistono testimoni liberi da varianti contaminate tanto nel ramo di α (E, Ca e altri) quanto in quello di β (Be e Er), la contaminazione presente negli altri testimoni è perfettamente controllabile, pertanto non rappresenta un ostacolo alla ricostruzione filologica90.
In conclusione, il quantitativo di nuove informazioni e nuovi dati di cruciale importanza apportato da queste recenti ricerche alla storia degli studi sul testo del De Motu Animalium è davvero sbalorditivo, ed inevitabilmente ha comportato una radicale revisione dell’edizione critica di Nussbaum. Alcuni loci particolarmente controversi sono stati nuovamente analizzati con argomenti innovativi e proposte originali di emendazione91: molti di essi saranno discussi nel corso dei successivi capitoli di questo lavoro, a tal punto l’importanza dei nuovi spunti alla
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I codici in questione vengono descritti e valutati in PRIMAVESI-CORCILIUS 2018, XXIII e LVIII-LXI. Una descrizione dettagliata di tutti i codici considerati, della loro collocazione nella storia della tradizione manoscritta e della loro posizione all’interno del nuovo stemma si trova a LXXI ss.
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ISÉPY 2016, 236-254. 88
ISÉPY 2016, 139-233. 89
A conclusione del suo lavoro, Isépy costruisce il nuovo stemma: si trova in ISÉPY 2016, 234-235. Alle pagine LXXIV-LXXXV di PRIMAVESI-CORCILIUS 2018 si trova una sintesi del lavoro di Isépy stesso.
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comprensione del testo greco è fondamentale anche ai fini di una buona interpretazione filosofica del contenuto del trattato.
T
RADUZIONE1. 698a1-698b792
Si è già riflettuto in altra sede a proposito del movimento degli animali, con riferimento a tutto ciò che è caratteristico di ogni loro genere (ovvero: quali sono le loro differenze specifiche e quali le cause degli accidenti tipici di ciascuno). Invece, posto che alcuni animali si muovono volando, altri nuotando, altri incedendo, altri ancora in qualche altro modo simile, bisogna ora riflettere in linea generale sulla causa comune soggiacente a un movimento qualsiasi.
Si è precedentemente stabilito che l’origine degli altri movimenti è il semovente, e di quest’ultimo ciò che è immobile, e ancora che è necessario che il primo motore sia immobile – ciò è stato determinato, per la precisione, quando si stabiliva anche a proposito del movimento eterno se esso esiste oppure no e, se sì, qual è la sua natura. E tuttavia ciò va compreso non solo col ragionamento generale, ma anche andando a considerare le cose particolari, ovvero i sensibili: sia, infatti, è per mezzo dei dati sensibili che elaboriamo i ragionamenti generali, sia – noi crediamo – proprio alle realtà sensibili le leggi generali devono aderire.
Infatti, anche in quelle è evidente che non si produce movimento senza qualcosa che stia in quiete, prima di tutto negli animali stessi – perché sempre, qualora una delle loro parti si muova, un’altra resta ferma: ed è per questo che gli animali sono dotati di articolazioni. Infatti, se ne servono come di un centro, e l’intera parte in cui è situata
l’articolazione è sia uno sia due, sia retto sia curvo, cambiando in potenza e in atto per mezzo dell’articolazione stessa. Quando si incurva e si muove, uno dei punti che stanno nelle articolazioni si muove, e l’altro resta fermo, come se nel diametro DB i punti D ed A rimanessero fermi mentre il punto B si muovesse, generando il raggio AC. Tuttavia, in questo esempio, il centro
sembra essere assolutamente indivisibile; del resto, con i punti – dicono – il movimento possono solo figurarselo, dato che nessuno degli enti matematici si muove; invece, i punti nelle articolazioni ora sono uno, ora si dividono in due. Ma il principio – che è un principio relativo – sempre, in quanto tale, resta fermo quando la parte sottostante si muove: come accade al gomito quando si muove l’avambraccio, e alla spalla quando si muove tutto il braccio; o come accade al ginocchio quando si muove lo stinco, e all’anca quando si muove tutta la gamba.
Pertanto, è evidente che ciascun corpo deve avere proprio in se stesso un punto fermo (dove è situato il principio del mobile), appoggiandosi al quale esso si muoverà sia tutto insieme sia rispetto a una propria parte.
2. 698b8-699a11
Eppure qualunque quiete propria dei corpi resterebbe inefficace, se non ci fosse fuori di essi qualcosa di assolutamente fermo e immobile. Vale la pena, allora, soffermarsi a considerare quanto appena detto, poiché questo assunto ha dei risvolti teorici che non si limitano a comprendere il caso degli animali, ma che anzi abbracciano il movimento e la traslazione del cosmo intero.
Come infatti anche nell’animale – se vuole muoversi – deve esistere qualcosa di immobile, a maggior ragione deve darsi un punto immobile esterno ad esso, appoggiandosi al quale il mobile possa mettersi in moto. Se infatti l’ambiente esterno lasciasse sempre strada, come ai topi nella pece o a quanti camminano nella sabbia, i corpi non procederebbero, e non ci sarebbero né marcia, se la terra non stesse ferma, né volo né nuoto, se l’aria o l’acqua non offrissero resistenza. Ed è necessario che questo punto fermo sia diverso dal mobile, come un intero da un altro intero, e che il siffatto punto immobile non sia in alcun modo parte del mobile; altrimenti, quest’ultimo non si muoverà. Prova di ciò è il seguente problema: perché mai uno muove la barca molto facilmente se spinge l’albero con il palo o esercita pressione su qualche altra sua parte dall’esterno, ma, se prova a compiere questa operazione stando dentro la barca medesima, non la muoverebbero né Tizio né Borea, nemmeno se quest’ultimo spirasse dall’interno della barca – trovandosi cioè a navigare nel modo in cui i pittori lo raffigurano: infatti dipingono il soffio diffondersi proprio dalla barca. Ora, sia che il soffio venga emesso delicatamente, sia che invece lo si emetta con tanta forza da produrre il più potente dei venti, sia anche che l’oggetto scagliato o spinto sia di altra natura, è necessario per prima cosa che il soggetto spinga appoggiandosi a una delle sue proprie parti in quiete; e poi ancora è necessario che questa parte, oppure colui di cui essa si trova ad essere parte, stiano fermi in virtù del loro appoggiarsi saldamente a qualcosa di esterno. È ragionevole che chi spinge la barca standoci lui stesso sopra e appoggiandosi alla barca medesima non riesca a muoverla, perché bisogna che il punto d’appoggio sia in quiete; invece a lui accade che ciò che vuole muovere e il punto d’appoggio siano la stessa cosa.
Pertanto, il movimento si produce tramite spinta e trazione dall’esterno: la terra, infatti, non è parte alcuna della barca.
3. 699a12-699b11
Ci si potrebbe domandare, se davvero qualcosa muove il cielo intero, se esso debba essere qualcosa di immobile, e se non debba in alcun modo né essere parte del cielo né trovarsi in esso. Da una parte, se il motore muove il cielo stando esso stesso in movimento, comunque è necessario che muova instaurando un contatto con un corpo immobile e che quest’ultimo non sia parte alcuna del motore mobile; d’altra parte, anche nel caso in cui il motore sia direttamente immobile, ugualmente esso non sarà parte del mobile.
E su questo punto dicono certamente bene quanti sostengono che neppure una delle parti della sfera celeste – che si muove in circolo – sia in quiete; infatti sarebbe inevitabile o che la sfera, tutta quanta, fosse in quiete, oppure che venisse meno la sua continuità. Invece, non è affatto corretta la loro opinione stando alla quale i poli avrebbero un qualche potere in tal senso, pur non possedendo alcuna grandezza in quanto punti estremi: oltre al fatto nessuno di tali enti possiede alcuna essenza, è anche impossibile che un movimento che è uno per numero sia innescato da due enti – eppure, dicono che i poli sono due.
A partire da siffatte riflessioni, pertanto, ci si potrebbe domandare se esista anche per la totalità del mondo naturale un qualcosa che svolga la funzione che la terra svolge per gli animali semoventi. Ora, quanti hanno rappresentato, come in un mito, Atlante con i piedi piantati sulla superficie terrestre potrebbero pensare di aver ricavato questo racconto a partire da un ragionamento logico, immaginandosi che Atlante fungesse da diametro e facesse ruotare il cielo attorno ai poli; la qual cosa discenderebbe logicamente dal fatto che la Terra sta ferma. Ma quelli che sostengono ciò devono ammettere che la Terra non sia parte del’universo. Oltre a ciò, bisogna che la forza del motore e quella del corpo fermo siano in equilibrio: esiste infatti una certa quantità di forza, di potenza, in virtù della quale il corpo fermo è in quiete, proprio come ce n’è una in virtù della quale il motore muove; ed esiste di necessità una qualche proporzione, come tra gli opposti movimenti, allo stesso modo tra gli stati di quiete; le forze in equilibrio non patiscono alcunché l’una dall’altra, mentre in caso di sovrabbondanza l’una ha il sopravvento sull’altra. Perciò, che a muovere sia Atlante o un altro (simile a quello) dei corpi compresi entro la periferia del cielo, comunque questo non deve appoggiarsi con una pressione maggiore dell’inerzia in virtù della quale la Terra si trova in stato di quiete; altrimenti, la Terra sarà mossa dal centro, ovvero dal suo luogo naturale – infatti, il corpo che spinge agisce e quello che è spinto patisce in misura proporzionale alla forza esercitata. Ora, il motore muove il corpo che in prima battuta è fermo, pertanto la propria forza deve risultare maggiore (e non pari e uniforme) all’inerzia di quello, e allo stesso modo maggiore dell’inerzia di quello che diventa il mobile non motore; ma allora la forza d’inerzia della Terra dovrà essere pari alla forza propria sia del cielo intero sia del suo motore. Ma se ciò è impossibile, lo è anche che il cielo sia mosso da un motore simile collocato al suo interno.
4. 699b12-700a25
C’è dunque un dubbio relativo ai movimenti delle parti del cielo che, in quanto affine alle cose dette prima, meriterebbe di essere analizzato. Se infatti si superasse con la forza cinetica l’inerzia della Terra, è chiaro che la si muoverà dal centro; ed è anche evidente che la forza da cui questa discende non è illimitata: neppure la Terra è illimitata, così come non lo è il suo peso.
Ora, ‘impossibile’ si dice in molti modi. Non allo stesso modo infatti diciamo che è impossibile da parte nostra vedere la voce e vedere quelli che stanno sulla superficie lunare: il primo caso è impossibile secondo necessità, il secondo invece, pur essendo possibile per natura, comunque non si riuscirà a vederlo. Noi crediamo che il cielo sia incorruttibile ed indistruttibile secondo necessità; invece, seguendo il ragionamento appena esposto ciò non risulta vero secondo necessità: sarebbe infatti naturale e possibile che esistesse un movimento maggiore sia di quello grazie al quale la Terra è in quiete sia di quello grazie al quale il fuoco e l’elemento della regione superiore si muovono. Pertanto, se davvero i movimenti di potenza superiore esistono, allora questi corpi si annienteranno gli uni gli altri. Oppure, quand’anche non si realizzassero, sarebbero comunque possibili (mentre non è proprio possibile che esista un movimento illimitato, dato che non è possibile neppure che ci sia un corpo illimitato): quindi sarebbe quantomeno possibile che il cielo venga distrutto; cosa infatti impedisce che ciò accada, se appunto non è impossibile? E una cosa non è impossibile, fintantoché il suo contrario non è necessario – ma di questo problema si parli altrove.
In definitiva: c’è bisogno di qualcosa di immobile e in quiete all’esterno del mobile, che non sia i nessun modo parte di questo, oppure no? E questa legge deve valere allo stesso modo anche per il cosmo? Forse questa affermazione potrebbe sembrare assurda se si pone il principio del movimento come interno. Pertanto potrebbe sembrare ai sostenitori di questa ipotesi che giustamente Omero abbia detto:
Ma voi non riuscireste a tirare giù dal cielo verso la terra Zeus, il più eccelso di tutti, neppure se molto vi sforzaste;
tutti voi dei e tutte voi dee tenetevi appesi.