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Nell’ambito degli studi antropologici sull’uso di sostanze stupefacenti, l’approccio economico-politico emerge negli anni Ottanta come istanza critica nei confronti dell’antropologia culturale, ritenuta incapace di valutare il ruolo del contesto socio-strutturale nel perpetuare forme invisibili di violenza, nel creare sofferenza e vulnerabilità sociale e

quindi nell’instaurare situazioni favorevoli agli usi deleteri e auto-distruttivi di sostanze2. Nel

momento in cui la dimensione dell’economia politica sostituisce quella del culturale, possiamo dire di trovarci in un altro orizzonte di dicibilità: qui, trattare fenomeni concettualizzati come naturali – dalle malattie infettive correlate al consumo di droghe all’alcolismo – sotto il profilo storico, politico ed economico, e spesso in chiave di decostruzione della parvenza di naturalità che essi vantano, emerge non solo come impresa fattibile, ma anche come tematica politicamente urgente.

Nel campo degli alcohol study, l’approccio economico-politico riconosce un primo contributo originario nell’opera di Frederick Engel La situazione della classe operaia in

Inghilterra (1845), che rapporta l’alcolismo del proletariato inglese alla struttura oppressiva

dei rapporti di classe entro la prima fase del capitalismo industriale:

A tutto ciò si aggiungono ancora altri fattori che logorano la salute di un gran numero di operai. Innanzitutto il bere. Tutte le lusinghe, tutte le possibili tentazioni si uniscono per spingere gli operai all’ubriachezza. L’acquavite è per essi quasi la sola fonte di piacere, e tutto congiura per mettergliela a portata di mano. L’operaio ritorna a casa stanco ed esaurito dal suo lavoro; trova un’abitazione priva di ogni comodità, umida, sgradevole e sudicia; ha un acuto bisogno di una distrazione, deve avere qualcosa per cui valga la pena di lavorare, che gli renda sopportabile la prospettiva delle fatiche del giorno successivo; […] il suo desiderio di compagnia può essere soddisfatto soltanto in un’osteria, egli non ha assolutamente altro luogo dove incontrare i suoi amici; e con tutto questo l’operaio non dovrebbe sentire fortissima la tentazione di ubriacarsi, dovrebbe essere capace di respingere gli allettamenti del bere? Al contrario, in simili circostanze esiste una necessità fisica e morale, per cui una grande parte degli operai deve soggiacere all’alcool. E prescindendo dai fattori più propriamente fisici […] l’ubriachezza in questi casi cessa di essere un vizio del quale si possa rendere responsabile il vizioso, diviene un fenomeno, la conseguenza necessaria e inevitabile di determinate condizioni nei confronti di un oggetto che, almeno riguardo a queste condizioni, è privo di

                                                                                                               

1 Per rassegne sull’approccio economico-politico cfr. Carlson 1996; Baer et al., 1997; Singer 2001. Si segnala anche il numero speciale del Journal of Drug Issues intitolato «The Political Economy of Drug and Alcohol» (Winter 1983).

volontà. Coloro i quali hanno fatto dell’operaio un puro e semplice oggetto ne portino la responsabilità1

In questa citazione si ravvisa il presupposto teorico abbracciato dagli esponenti dell’approccio economico-politico: l’idea che l’operaio «deve soggiacere all’alcol», che sia costretto al bere dalle condizioni socio-economiche in cui vive; che dunque il bere non vada considerato come un vizio, una libera scelta dell’individuo, ma come conseguenza di un sistema di rapporti sociali che non può essere modificato. Nell’opera di Engels vengono anche individuate le principali linee di ricerca: l’abuso di alcol come problema di tipo sociale, il ruolo dei rapporti di classe nell’insorgere di problematiche alcol-correlate; la costruzione di nuove identità sociali a partire dal consumo condiviso di bevande alcoliche; la relazione tra la disponibilità di alcolici dovuta all’estensione delle reti di mercato e l’incremento dei consumi; il ruolo giocato dallo stato, e così via.

Meritevole di una citazione, per quanto tangenziale alla presente rassegna, è l’ineguagliabile opera di Sidney Mintz, Storia dello zucchero. Tra politica e cultura (1985). Nel suo studio Mintz propone un’analisi del mutamento dei modelli di consumo dello zucchero presso la popolazione inglese seguendone la trasformazione da bene di lusso in prodotto di massa, mettendola in relazione alle sue condizioni di produzione e all’economia politica britannica. In particolare, secondo l’antropologo, lo zucchero ha agito da «narcotico

del popolo»2 e ha assolto una funzione di consolidamento e di dispositivo di controllo della

nascente classe operaia inglese.

Con la sua trasformazione da bene esotico di lusso in una necessità proletaria, lo zucchero fu tra i primi beni di importazione ad assumere […] un’importanza politica e militare diversa in relazione all’espansione delle classi metropolitane. Visto che le piantagioni furono a lungo considerate come fonti di profitto poiché esse fornivano capitale da reinvestire direttamente nella madrepatria e poiché assorbivano beni finiti provenienti dalla madrepatria, l’ipotesi che qui si propone è che lo zucchero e altri prodotti coloniali, rifornendo e saziando – e sicuramente drogando – operai di fattorie e fabbriche, ridusse il costo generale della formazione e della riproduzione del proletariato metropolitano.

Ma in che modi le classi lavoratrici inglesi divennero consumatrici di zucchero? La disponibilità dei lavoratori a lavorare sempre più per poter così guadagnare e quindi consumare di più fu un elemento cruciale dell’evoluzione delle nuove forme di alimentazioni […] la mia tesi è che gli accresciuti consumi di beni come il saccarosio siano stati la diretta conseguenza di profonde

                                                                                                                1 Engels 1845, pp. 151-153. 2 Mintz 1985, p. 183.

alterazioni nella vita dei ceti lavoratori, i quali resero accettabili e “naturali” nuove forme di cibo e di alimentazione così come accadde anche per i nuovi orari di lavoro, i nuovi tipi di attività e le nuove condizione della vita quotidiana1.

Dal lato della drug ethnography, uno dei primi contributi ad adottare esplicitamente un approccio incentrato sull’economia politica è Street Addicts in the Political Economy di Alisse Waterston (1993). Basandosi sul materiale etnografico raccolto tra il 1984 e il 1987 da un team di scienziati sociali, l’autrice intende demolire il mito della marginalità, ossia l’idea che la vita dei tossicodipendenti si svolga “a lato” della realtà sociale, in un mondo a sé, separato e marginale; l’autrice intende invece dimostrare come il mondo dei tossicodipendenti

sia parte integrante della società civile, soprattutto sotto il profilo economico e sociale2. Quali

relazioni economiche legano inestricabilmente la vita in apparenza marginale dei tossicodipendenti alla società dominante? La seguente citazione di Bourgois rende evidente il modo in cui i tossicodipendenti sono integrati e contribuiscono all’economia cittadina e anzi assolvono un ruolo indispensabile per la riproduzione di un’economia di tipo capitalista – quello di manodopera sempre disponibile e a costo ridotto.

La storia lavorativa dei senzatetto che abbiamo studiato mostra quanto essi siano vittime strutturali dei cambiamenti dell’economia […] adesso si arrabattano per lavori alla giornata nella zona in sfacelo dei capannoni di fabbriche soggette a riconversione. Caricano e scaricano camion, immagazzinano merci, o spazzano davanti ai negozi di vini e liquori che sta all’angolo […] spesso i negozianti del posto diventano protettori di un particolare senzatetto, al quale offrono occasionalmente prestiti di denaro e regalano cibo. In cambio, il senzatetto si presenta tutte le mattine per verificare se c’è lavoro – e costituisce così quella fornitura di manodopera “istantanea” celebrata dall’economia capitalista. I datori di lavoro dispongono così di una manodopera a basso costo, flessibile, e in disperate condizioni di dipendenza, pronta a obbedire su due piedi3.

Il mondo dei tossicodipendenti non costituisce quindi una sub-cultura marginale che si differenza per valori e usanze dalla cultura dominante, ma ne è parte integrante, poiché entrambe sono coinvolte nei medesimi processi economici del capitale.

Pochi anni dopo la critica deflazionistica di Robin Room, l’antropologo medico Merrill Singer rimprovera agli esponenti dell’approccio socio-culturale, sempre nell’ambito                                                                                                                

1 Mintz 1985, p. 189. 2 Waterston 1993, p. XI. 3 Bourgois 2008, p. 130.

degli alcohol study, di aver «adattato la loro analisi ai contesti locali, alle culture locali e ai

modelli locali del bere, come se questi fossero davvero fenomeni locali»1, dimostrandosi

insensibili alla dimensione macro-strutturale dell’economia-politica e al suo ruolo nel determinare i modelli di consumo. È proprio questo localismo che impedisce agli antropologi culturali, arenati in una concezione dei gruppi culturali come entità discrete e auto-sussistenti, di vedere al di sotto della variabilità culturale il medesimo e uniforme processo globale di mutamento dovuto all’espansione dell’economia di mercato. Hunt e Barker notano come, rispetto al polverone di risposte che ha seguito la critica di Room, l’obiezione di Singer sia

caduta nel più completo silenzio2. Da un punto di vista archeologico si potrebbe leggere

questo silenzio non come una muta adesione nei confronti delle linee di ricerca inaugurate dal nuovo approccio, ma come sintomo di una discontinuità tale, sul piano discorsivo, da proiettarci in un orizzonte di dicibilità del tutto differente.

Rispetto al modello culturale, il modello economico-politico non solo estende il contesto entro cui inserire lo studio dei consumi di sostanze dal piano culturale-locale alla dimensione macro delle strutture socio-economiche, ma rivoluziona completamente lo stesso oggetto di indagine. Al centro dell’interesse degli antropologi medici non è più il consumo normale, quotidiano e socialmente approvato, inteso come pratica che contribuisce alla coesione del gruppo e alla riproduzione delle strutture sociali, ma gli usi aberranti, devastanti e disfunzionali. Alla prospettiva funzionalista si sostituisce uno sguardo sensibile al disagio sociale che intende le forme di abuso e di dipendenza come epifenomeni di una realtà socio- economica sottostante, come forme di resistenza o di opposizione alla violenza strutturale esercitata dal sistema, o come unica via per tentare di sfuggire alla sofferenza socialmente imposta.

Che tipo di unità possiamo conferire a un campo di indagine il cui oggetto varia al variare della prospettiva che lo coglie? Come possiamo tracciare gli sviluppi degli studi antropologici su alcol, droghe e dipendenze, se non vi è un medesimo oggetto di indagine che assicura la continuità disciplinare di questi studi? Come scrive Foucault in relazione al discorso psicopatologico, saggiando la moltiplicazione prospettica di significati che sono stati attribuiti alla follia,

l’unità del discorso sulla follia non è fondata sull’esistenza dell’oggetto “follia” o sulla costituzione di un unico orizzonte di oggettività; è il gioco delle regole […] a rendere conto, non tanto

                                                                                                                1 Cfr. Singer 1986a, p. 114.

dell’oggetto stesso nella propria identità, quanto della sua non coincidenza con sé, della sua perpetua differenza, della sua dispersione […] L’unità del discorso follia è il gioco delle regole che definiscono le trasformazioni di questi differenti oggetti, la loro non identità attraverso il tempo, la rottura che in essi si produce, la discontinuità interna che sospende la loro permanenza1.

Foucault chiama questi oggetti del discorso che non sono mai identici a loro stessi né “oggetti”, né “riferimenti”, dal momento che non denotato una realtà esteriore che preesiste al

discorso, bensì li chiama referenziali2, poiché sono perpetuamente costruiti da pratiche

discorsive in evoluzione. Consideriamo l’alcol. Per gli antropologi culturali è un genere di

consumo, un artefatto culturale o, nei termini di Dietler, è «cultura materiale incorporata»3.

Nel modello economico-politico, invece, l’alcol è innanzitutto «una merce in un’economia di

mercato in evoluzione»4. Lo sguardo archeologico ci invita a leggere in questo frangente in

cui antropologia culturale e antropologia medica si accavallano sul “medesimo” oggetto di studio – sullo stesso referenziale, secondo il concetto proposto da Foucault – non lo sviluppo lineare di una disciplina, ma una discontinuità di fondo, uno scarto enunciativo che rimarca l’eterogeneità nelle regole di formazione dei rispettivi enunciati, la «loro stessa impossibilità a

integrarsi in una sola catena sintattica»5.

Mentre l’approccio culturale, e con esso la prima drug ethnography intesa come approccio subculturale, studiavano la “cultura” in cui avvengono i consumi di alcol e droghe, il modello politico economico si sgancia dall’esigenza di legittimare il proprio ambito di indagine a partire dalla definizione di cosa è culturale.

Sotto il cappello dell’approccio economico-politico analizzerò dunque i contributi dell’antropologia medica critica e dell’etnografia biopolitica di Philippe Bourgois, tracciandone soluzioni di continuità e fratture rispettivamente con l’approccio incentrato sulla salute pubblica e con la drug ethnography. L’antropologia medica critica, che emerge da un movimento di critica interna all’antropologia applicata alla salute pubblica, con cui condivide l’esigenza di un miglioramento dei servizi a partire dal motivo della ricerca, segna la svolta politico-economica dell’antropologia medica; mentre Bourgois, antropologo attivista influenzato da autori come Agar, adottando il metodo etnografico fondato sull’osservazione                                                                                                                

1 Foucault 1971, pp. 38-39.

2 Cfr. Foucault 1971, p. 39: «Io non chiamerò tale sistema “dominio” di oggetti (la parola implica infatti l’unità, la chiusura, la vicinanza piuttosto che lo sparpagliamento e la dispersione); gli darò un po’ arbitrariamente il nome di referenziale e dirò, per esempio, che la follia non è l’oggetto (o referente) comune a un gruppo di proposizioni, ma il referenziale, o legge di dispersione dei diversi oggetti».

3 Dietler 2006, p. 231. 4 Cfr. Singer 1986a, p. 120. 5 Foucault 1971, p. 41.

partecipante che ha caratterizzato la prima ondata della drug ethnography, ne costituisce, a sua volta, la svolta politico-economico.

L’oggetto di indagine si scinde qui in due ulteriori referenziali. Bourgois indaga i processi invisibili e sottili della violenza, che rendono alcuni soggetti socialmente vulnerabili e inclini a sprofondare nell’abisso delle droghe; così facendo de-culturalizza il mondo dei

tossicodipendenti, reintegrandolo in una concezione unitaria della società di mercato. Come

scrive lo stesso autore: «dobbiamo de-esoticizzare ciò che pensiamo riguardo alle droghe»1.

L’antropologia medica critica, invece, si interessa, soprattutto, ai problemi di salute connessi all’uso di sostanze, in particolare alla costruzione sociale di alcolismo e tabagismo come patologie organiche; così facendo, de-naturalizza le etichette di patologia della biomedicina.

L’antropologia medica critica e il mercato

L’antropologia medica2 ha cominciato a indagare i problemi di uso e abuso di sostanze

a partire dal 1979, con l’istituzione dell’Alcohol and Drug Study Group of the Society for

Medical Anthropology3. L’antropologia medica critica4 emerge in seno all’antropologia medica all’inizio degli anni Ottanta come movimento di critica interna, sviluppando l’indicazione dell’antropologo medico Allan Young di esaminare le “relazioni sociali di malattia” (sickness), ossia il processo sociale che porta alla legittimazione delle etichette della patologia (disease) e al riconoscimento sociale dell’esperienza di sofferenza vissuta dai

soggetti (illness)5. Gli antropologi medici che abbracciano una prospettiva “critica” hanno

diversamente interpretato il suggerimento di Young che riconosce, al di sotto della “natura” biologica delle malattia, delle cause di tipo sociale, al punto che oggi si riconosce una bipartizione interna alla prospettiva, tra i cosiddetti teorici dell’economia politica/sistema- mondo, come Merrill Singer e Kenyon Stebbins, e i post-strutturalisti foucaultiani, come le

antropologhe Nancy Scheper-Hughes e Margareth Lock 6 (a cui si potrebbe aggiungere per

dissonante affinità anche il pensiero di Michael Taussig).

                                                                                                                1 Bourgois 2000, p. 190.

2 Per un accompagnamento nella storia dell’antropologia medica e per la bibliografia di riferimento rimando al capitolo 2.

3 Singer et al. 1998, p. 287. Oggi l’ente di riferimento della Society for Medical Anthropology è l’ADTSG (Alcohol, Drugs, and Tobacco Study Group); cfr. http://adtsg.medanthro.net/.

4 Cfr. Singer 1986b e 1989; Lock e Scheper-Hughes 1990; Scheper-Hughes 1990. 5 Young 1982, pp. 123-125.

La differenza tra i due approcci non risiede tanto nell’orientamento teorico in larga parte condiviso, quanto nel punto focale attorno a cui ruota la ricerca: il mercato globale e il corpo individuale, sociale e politico. In termini generali, l’antropologia medica critica considera le categorie patologiche come delle mistificazioni, dal momento che esse generano l’illusione che la malattia sia un fenomeno naturale, che ha origine nell’organismo dell’individuo, eclissando quelle che sono le effettive cause sociali di malattia. Per l’approccio

sistema-mondo1, che contestualizza le problematiche di salute entro il quadro dell’espansione

globale del sistema capitalistico, le cause sociali di malattia riguardano direttamente i rapporti

oppressivi di produzione e sfruttamento instaurati dal capitale. La corrente post-strutturalista2

estende invece l’analisi economico-politica fino al piano epistemologico, risalendo la genealogia concettuale delle categorie in uso in ambito biomedico e prendendo così visione del quadro onto-epistemologico in cui si muove la biomedicina. Analizzando il modo in cui la pratica clinica costruisce la realtà naturale, Lock e Scheper-Hughes problematizzano il dualismo mente/corpo come asse portante della biomedicina, mostrando come il processo di medicalizzazione della società si accompagni alla trasformazione delle relazioni sociali in

fatti biologici3: tale trasformazione avviene tanto sul piano fenomenologico dei vissuti

corporei, quanto sul piano simbolico dei concetti utilizzati per dare voce e forma alle esperienze del corpo, quanto, infine, sul piano politico, dove le categorie biologiche agiscono disciplinando forme corporee di resistenza politica. Il dualismo mente e corpo è lo schema con cui la nostra società informa l’esperienza del corpo e degli stati di salute e malattia, ed è a questo dualismo, secondo le antropologhe, che va imputato il fatto che «nell’Occidente

industrializzato sono possibili solo spiegazioni patologizzate degli stati dissociativi»4. Il filone

foucaultiano intraprende quindi una critica delle categorie biomediche che non si limita al piano economico-politico, ma si estende su tutto l’orizzonte onto-epistemologico in cui opera la medicina. Nelle parole delle antropologhe:

Ci piacerebbe pensare all’antropologia medica come a una disciplina in grado di fornire la chiave per lo sviluppo di una nuova epistemologia e di una nuova metafisica del corpo e delle cause emotive, sociali e politiche alla base della malattia e della guarigione […] fare altrimenti, e cioè

                                                                                                               

1 Cfr. Singer 1986a, 1986b e 1992; Stebbins 2001.

2 Cfr. Lock e Scheper-Hughes 1987 e 1990; Lock 1993; Taussig 1980b;

3 Lock e Scheper-Hughes 1990, p. 158: «la dimensione soggettiva del disagio umano viene medicalizzata e individualizzata, piuttosto che politicizzata e collettivizzata. La medicalizzazione implica inevitabilmente […] una tendenza a trasformare il sociale nel biologico».

impiegare una metafisica radicalmente diversa, vorrebbe dire “disfare” il nostro proprio mondo di assunti, con le sue definizioni culturalmente determinate di realtà1.

L’approccio sistema-mondo, invece, non accoglie come oggetto la biomedicina, intesa come sistema di conoscenza/potere di una cultura particolare, ma la “medicina borghese” intesa come il «sistema medico mondiale per eccellenza» che ha ottenuto la sua posizione preminente su scala mondiale «non per la sua efficacia curativa, ma come conseguenza

dell’espansione dell’economia mondiale capitalista» 2 . Contrariamente all’impeto

decostruttivo della corrente post-strutturalista, rimane volutamente all’interno dell’orizzonte di scientificità della biomedicina e della scienza occidentale, di cui vuole riannodare l’“anello mancante” dell’economia politica entro le questioni che riguardano la salute individuale e sociale. Come sottolinea lo stesso Singer:

in quanto approccio materialista l’antropologia medica critica difficilmente rifiuta un approccio scientifico. Piuttosto, invochiamo una scienza migliore per l’umanità, una che riconosca le origini e le funzioni sociali della scienza3.

Questa adesione si esprime anche sul piano metodologico, nell’utilizzo combinato di metodi statistico-quantitativi e di metodologie qualitative di tipo prevalentemente non etnografico – modalità che testimoniano i legami che questa prospettiva intrattiene, in chiave talvolta critica, talvolta collaborativa, con l’approccio incentrato sulla salute pubblica e che ne segnala invece una differenza importante con l’approccio Bourgois. L’adesione al modello di scientificità condiviso, comunque, non sminuisce l’impatto critico che questa prospettiva manifesta sia nei confronti della biomedicina che delle politiche sanitarie.

In relazione all’ambito degli alcohol and drug studies è soprattutto l’approccio incentrato sull’economia politica ad aver contribuito maggiormente, nel seguire le linee di ramificazione del mercato sul globo terreste, nel sondare il modo in cui il capitalismo penetra nelle istituzioni sanitarie, influenzando le politiche statali e insinuandosi nella vita delle persone attraverso le condizioni di lavoro, la medicalizzazione dell’esistenza, le abitudini igieniche e alimentari, le forme urbane ecc., e nell’analizzare la correlazione tra l’estensione del sistema capitalistico e la diffusione delle malattie sul territorio. L’obiettivo è appunto                                                                                                                

1 Lock e Scheper-Hughes 1990, p. 186. 2 Singer et al. 1992, p. 79.

tracciare le interconnessioni tra contesti locali e mercato globale nelle problematiche relative alla salute, illustrando

il modo in cui il potere si diffonde dal livello macro del sistema mondo capitalista e dei settori